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Autore: Koa__    25/05/2021    2 recensioni
Dopo che gli angeli hanno cancellato la memoria di Clary, Jace si ritrova a camminare per un sentiero oscuro fatto di dolore. Questo, oltre alla rabbia che prova per il compatimento che legge sul volto degli altri, lo portano a gettarsi a capofitto nel lavoro. Alec, a un mese e mezzo dal matrimonio, vive invece una vita felice accanto a suo marito. Nonostante percepisca la sofferenza di Jace e si sia convinto di stargli vicino, dentro di sé sa di non star facendo abbastanza per il suo Parabatai. Una sera, prima di addormentarsi, entrambi esprimono un desiderio all’angelo. Jace vorrebbe avere una vita perfetta come quella di Alec mentre quest’ultimo vorrebbe stare più vicino a suo fratello e si sente in colpa per esser stato così lontano nelle ultime settimane. Il mattino successivo, Jace e Alec si risvegliano l’uno nel corpo dell’altro senza sapere come ci siano finiti. Inizia così un’indagine segreta alla ricerca di chi può aver mai fatto loro un simile tiro mancino, che li porterà a scavare dentro loro stessi.
Genere: Angst, Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Jace Wayland, Magnus Bane, Simon Lewis
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sarò sempre il tuo Parabatai!



 

Le faccende burocratiche dell’Istituto assorbirono così tanto Jace che rientrò nell’appartamento di Magnus soltanto nella tarda mattinata del giorno successivo. Una parte di lui aveva sperato di riuscire a sbrigarsela in poco tempo, ma una volta risolta la faccenda dei vampiri a Central Park e smantellato definitivamente quel covo, era stato assorbito così tanto da questioni pratiche e quindi politiche, che non aveva avuto un istante di respiro. E per quanto Alec gli fosse rimasto accanto per gran parte del pomeriggio, suggerendogli spesso il da farsi, c’erano cose che il capo dell’Istituto doveva fare senza l’aiuto di nessuno, nemmeno quello del proprio Parabatai. E suo fratello, d’altronde, lo sapeva meglio di chiunque e tanto che a un certo punto aveva preferito andare a casa da Magnus, così da dargli una mano a trovare la giusta modalità per far ritorno ognuno nei propri corpi. Si erano salutati che erano da poco passate le sei ed era stato attorno a quell’ora che il caos era scoppiato. La notizia che un nuovo covo era stato stanato nel pieno centro di Manhattan si era così diffusa nel Mondo Invisibile, che era stata necessaria una riunione d'emergenza del consiglio. Sedare l’ira di Maia, per Jace era stato tutto tranne che semplice, soprattutto quando l’Alfa del branco di New York aveva minacciato di far saltare gli accordi, scatenando di fatto una nuova guerra, se i vampiri non fossero stati puniti per averli a loro volta violati. Jace non sapeva nemmeno lui come fosse riuscito a farla calmare o a farle capire che i vampiri di quel covo erano tutti outsider e che erano stati già uccisi o arrestati. Maia non ne aveva voluto sapere, impuntandosi sino a quasi lasciare l’Istituto e soltanto dopo ore di estenuante riunione, la situazione si era placata. Era già passato mezzogiorno, dunque, quando riuscì finalmente a sganciarsi da ogni impegno e a filarsela dall’Istituto, nella speranza di non venire nuovamente richiamato. Il lavoro non era affatto diminuito, ma in quanto capo poteva prendersi una pausa da ogni impegno almeno per qualche ora, il tempo necessario per sistemare una volta e per tutte quella faccenda. Soprattutto perché, col passare delle ore, la situazione tra Alec e Magnus era diventata inaspettatamente tesa. Non che glielo avessero esplicitamente detto, Jace era semplicemente riuscito a percepire l’ansia e la rabbia di Alec farsi largo dentro di lui. Doveva esserci stata anche una mezza litigata, anche se suo fratello non era stato granché preciso nel racconto. Tutto ciò che aveva capito era che lui e Magnus avevano faticato a sedare la preoccupazione di un’ansiosa Maryse che, intuita la verità, era piombata nel loro loft proclamandosi come terribilmente preoccupata per i suoi bambini. La lite che ne era seguita, dopo che erano riusciti a rispedirla casa (anche grazie all’intervento di Luke), Alec gliel’aveva raccontata come un diverbio da nulla, minimizzando inutilmente una situazione che doveva essersi però fatta piuttosto spinosa. Come si era già detto più volte, non era necessario che il suo Parabatai scendesse nei dettagli per fargli capire sino a che punto quei due fossero tesi. Portare avanti un matrimonio non era mai semplice per nessuno, Jace non era mai stato sposato e il suo unico esempio a riguardo erano Robert e Maryse, che comunque avevano divorziato, ma ne sapeva abbastanza di relazioni d’esser certo che non fosse facile accettare che la persona amata avesse un altro aspetto. Quello di Jace, oltretutto. Particolare non da poco se si considerava che era stato proprio lui a domandar loro il favore di non baciarsi, cosa che col proseguire delle ore lo aveva fatto sentire ancora più in colpa. Alec non aveva chiesto di vivere nel corpo di un altro, ci si era ritrovato dentro e ora stava pagando il prezzo più alto di tutti.


Fu con espressione stravolta e umore nero, che Jace varcò la soglia del loft di Brooklyn. Era sfinito da tutte le discussioni che aveva ascoltato nelle ultime ore, e in più aveva fame. Il suo non aver dormito neanche per cinque minuti, e l’aver probabilmente abusato della runa della resistenza, era perfettamente intuibile dai cerchi neri sotto agli occhi e lo sguardo assonnato. Camminava quasi trascinandosi, tanto che non sapeva davvero come avesse fatto ad arrivare sin lì in così poco tempo.
«Ragazzi, mi dispiace se ci ho messo tanto» esordì, appena dopo averli raggiunti in soggiorno premurandosi prima di bussare, com’era sempre meglio fare prima di entrare a casa di Magnus Bane.
«Oh, non ti preoccupare, caro» borbottò il padrone di casa sbucando dalla camera da letto e agitando una mano a mezz’aria, come a non voler dare troppo peso alla cosa. Se Alec aveva un aspetto terribile, con tanto di occhiaie e capelli in disordine (che Jace ipotizzò essere una prerogativa della sua anima, perché non ricordava di esser mai stato tanto spettinato in tutta la vita), suo marito era invece perfetto come al solito. Portava un completo scuro e una camicia violetta con qualche strass che la rendeva appena un poco luminosa. Aveva i capelli dritti e ben ingellati, occhi truccati con un ombretto che scintillava per via dei glitter e poi ancora smalto nero, anelli e orecchini, in quello che era il quadro perfetto del Magnus Bane che aveva conosciuto. Osservandolo di sbieco da dietro un ciuffo ribelle che gli scendeva di continuo sugli occhi, Jace si chiese se ci fosse un momento della giornata in cui non fosse sempre così dannatamente splendente. Lo era a tal punto, in quel suo sorridere ironico e nello sguardo pungente di malizia, che non pareva neppure che lui e Alec avessero litigato.
«Abbiamo avuto di che discutere nel frattempo» concluse lo stregone, aggiustandosi una ciocca di capelli che, almeno secondo lui, doveva essere fuori posto.
«Mi dispiace, è colpa mia!» ammise Jace, lasciandosi cadere sulla poltrona con espressione esausta, massaggiandosi quindi la radice del naso. Nel lasciarsi andare in quel modo, attribuendosi una responsabilità che parte sentiva di avere, si rese conto che probabilmente quella era la prima cosa realmente sincera che riusciva a dire da un mese a quella parte. Non che solitamente mentisse, ma non si era mai concesso di lasciarsi andare in quel modo. Era un po’ come quando stava con Clary, con lei riusciva sempre a non fingere, a non forzare se stesso indossando una maschera che lo rendeva molto più sopra le righe di quanto in realtà non fosse. Lasciarsi andare a un’espressione affranta e di assoluta stanchezza e farlo ora davanti ad Alec e Magnus, iniziando quello che era un discorso particolarmente spinoso, ebbe il potere di renderlo più sereno di quanto non si sarebbe mai aspettato di riuscire a essere. Alec lo avrebbe accettato comunque, Jace, questo, se lo sentiva dentro. E ciò nonostante un velo di paura gli corresse giù lungo la schiena in un brivido ghiacciato.
«Non lo è affatto, è questa situazione a renderci più nervosi. Mi sono arrabbiato perché mamma ha saputo la verità e, come potrai immaginare, è corsa qui preoccupata» concluse Alec, raggiungendo suo marito e accarezzandogli dolcemente la schiena. Dovevano aver fatto pace, rifletté notando le espressioni dolci sui volti di entrambi «ma ho capito che Magnus non aveva altra scelta.»
«Diciamo che ci sei arrivato dopo quasi dieci ore, fiorellino, ma va bene ugualmente» gli rispose questi sorridendogli intanto che, e Jace non riuscì a non notarlo, si tratteneva dal chiaro istinto di baciarlo. Non lo fece e di nuovo, così come era successo anche il giorno precedente, lo vide arretrare appena col busto e stringere le mani in due pugni serrati al punto che le nocche erano sbiancate. Non riuscì a non pensare a quanto dovesse essere penosa una simile situazione per loro due. Non che fossero due assatanati che pensavano soltanto sesso, anche se il mattino precedente, al risveglio, Jace era stato sfiorato dall’idea, ma si stavano trattenendo anche dall’esibirsi in dei semplici gesti come sfiorarsi le dita o baciarsi delicatamente in un saluto veloce. E ancora, notando quel lampo di sofferenza negli occhi felini di Magnus Bane, Jace non riuscì a non sentirsi in colpa.
«Soprattutto perché mamma è stata preziosa» annuì Alec, attirando con quella frase la sua attenzione. Era un bene che l’incontro con Maryse avesse portato a qualcosa di buono. Con quello che gli era successo durante la giornata e la notte intera trascorsa in riunione, non aveva più pensato a come avrebbero potuto risolvere le cose. Neanche ci aveva riflettuto dopo che tutto era finito perché, mentre si decideva a lasciare l’Istituto, aveva semplicemente sentito il bisogno di tornare da Magnus e Alec e non aveva più pensato a niente di concreto. Ma ora che c’era, e che poteva osservarli da più vicino notando la maniera in cui interagivano fra loro, si rendeva conto che quanto aveva fatto sino ad allora non era stato utile a nessuno. Al contrario, non aveva fatto un bel nulla perché assolvere ai compiti di capo dell’Istituto era stato un niente, se paragonato a quanto Magnus si era inventato per poterli aiutare o a quanto stesse sacrificando per loro. E forse non c’era poi molto che Jace potesse fare al momento, non in concreto almeno, però doveva almeno dirgli la verità o non sarebbe riuscito a concludere più nulla.


«Secondo lei l’unico modo per tornare quelli che eravamo è usare il legame Parabatai, è il più forte che esista e il solo che possa mettere le cose a posto. Dobbiamo attivare la runa con lo stilo e collegarci.»
«Un qualcosa di simile a quello che ha fatto Alexander per ritrovarti» spiegò Magnus, rivolgendosi a Jace, il quale annuì dando segno di aver capito, «ma questa volta sarete insieme e il vostro legame non rischierà di spezzarsi. Io vi aiuterò con la magia e potenzierò il contatto, facendo in modo che questo possa durare il più a lungo possibile, ma dovrete essere voi a fare tutto quanto il resto.»
«Esatto!» mormorò Alec, annuendo. Avrebbero dovuto congiungere le mani come facevano di solito per entrare in collegamento, tuttavia, Jace non si mosse da dove stava e ancora guardava suo fratello con l’aria di chi è certo di dover dire qualcosa, ma stenta a parlare. Si mordeva le labbra e sfregava ripetutamente i palmi delle mani sulle cosce, schiariva la voce, ma non un suono gli usciva dalle labbra. Nel mentre, in testa, gli si formava chiara la sensazione che niente di tutto quello avrebbe funzionato, se non si fosse prima spiegato con lui. D’altra parte erano stati i suoi pensieri a portare gli angeli a scambiare i loro corpi, giusto? Se anche avessero usato il legame Parabatai , non era detto che questo li avrebbe portati da qualche parte. Non poteva essere sicuro di niente, a dire il vero, perché la volontà degli angeli era così criptica da decifrare che poteva anche essere che la loro intenzione fosse quella di lasciarli così per sempre. Jace tuttavia si ritrovò a ragionare sul fatto che non aveva mai badato a quanto gli altri desiderassero o meno, e ora non aveva alcun motivo per agire diversamente. Era sempre stato mosso dal proprio senso di giustizia, comportandosi di pancia e in base a ciò che gli suggeriva l’istinto e quello, ora, gli urlava di dire tutta quanta la verità.
«Aspetta» mormorò con decisione, salvo poi abbassare gli occhi a terra quasi si vergognasse «c’è una cosa che vi devo dire.»  

 

A fronte di quella rivelazione e forse temendo per il peggio, Alec e Magnus si tesero, fermando sul nascere ogni intenzione di parlare e rimasero zitti l’uno accanto all’altro. La mano del primo era ancora intenta ad accarezzare la schiena dello stregone, in uno sfiorarsi innocente tanto quanto delicato. Non era tanto per quello che Jace aveva detto, ma era stata la maniera che aveva avuto di parlare, con quel tono che preannunciava chissà quale altra disgrazia, ad averli allarmati. L’occhiata che si scambiarono fu così rapida che nessuno di loro ebbe il tempo di soffermarsi a indugiare negli occhi dell’altro, di modo da carpire al meglio i rispettivi sentimenti, ma certo era che avessero pensato la stessa identica cosa. Alec si era detto sicuro che Magnus si fosse teso appena un poco, irrigidendo la postura intanto che negli occhi un lampo di ansia gli divorava lo sguardo. Magnus si disse invece convinto di aver notato in Alec la consueta postura militare, che era solito assumere quando le situazioni diventavano più complesse. Era parte dell’addestramento da Shadowhunter che aveva ricevuto, d’altronde Jace aveva lo stesso identico comportamento e persino in Isabelle lo notava. Perché i Nephilim erano anzitutto dei soldati, persone il cui istinto veniva plasmato attorno all’idea che avrebbero dovuto vivere perennemente all’erta, oltre che obbedire e servire in quel modo un bene più grande. Per Magnus fu interessante notare invece la maniera in cui Jace stesse contravvenendo al proprio istinto, invece che irrigidirsi e assumere quell’atteggiamento vagamente strafottente non troppo dissimile allo stesso che sfoggiava durante una battaglia, si era afflosciato su se stesso, guardando quindi a terra e affondando il viso tra le mani.
«Credo che tutto questo sia successo a causa mia» confessò, rendendosi conto al contempo che dicendolo non si sentiva affatto meglio. Al contrario le espressioni stupefatte sui volti di Alec e Magnus non fecero altro che farlo sentire ancora più in colpa. E in quel suo essersi alzato e aver raggiunto il centro del soggiorno, non ottenne davvero niente se non vedere se non scatenare una sincera confusione. Non poteva tirarsi indietro, non adesso che aveva iniziato e soprattutto non se voleva risolvere le cose.
«Quando gli angeli hanno cancellato la memoria di Clary» proseguì avanzando come il guerriero che era. Se Alec avesse dovuto avercela con lui anche per il resto delle loro vite, allora avrebbe affrontato le conseguenze delle proprie azioni. Era uno Shadowhunter, un combattente e non un codardo. Questo poi non lo era mai stato e certamente non lo sarebbe diventato adesso.
«Quando lei se n’è andata» riprese «io mi sono sentito perduto, soffrivo certo, ma più di tutto ero arrabbiato perché avevo l’impressione che chiunque avesse avuto il proprio finale felice tranne me. Ora che Izzy sta con Simon, che Maryse si è messa insieme a Luke e soprattutto che tu ti sei trasferito qui, io mi sono sentito solo e senza la felicità che sapevo di meritare assieme a Clary.»
«Jace...» iniziò Alec balbettando il suo nome mentre lo raggiungeva al centro del soggiorno. «Tu lo sai che non sei mai stato solo, vero?»
«Lo so! Adesso lo so» annuì, rivolgendosi poi direttamente allo stregone che lo guardava con un’espressione che variava dall’incuriosito al sorpreso «quello che mi hai detto ieri mi ha aperto gli occhi e ho capito di non essere l’unico a stare tanto male. Forse dentro di me lo sapevo anche allora, ma non ci volevo pensare. Guardavo la tua vita, Alec, la vostra vita e pensavo che fosse perfetta e così una sera ho espresso un desiderio. Ti giuro, però, che non pensavo di certo che sarebbe successa una cosa del genere e neanche lo volevo» concluse, indicando entrambi con un veloce movimento della mano come a voler intendere lo scambio dei corpi.
«Cos’hai chiesto?» gli domandò Magnus, facendosi vicino di un passo pur tenendosi lontano.
«Essere come Alec, anche soltanto per un giorno. Avere la vita fantastica che avete, insomma essere come voi.»
«Jace» mormorò il suo Parabatai, scrollando il capo in senso di diniego. Non sembrava arrabbiato, notò, più che altro era triste. O forse ce l’aveva con se stesso per non aver fatto abbastanza per aiutarlo, Alec nutriva un forte istinto di protezione nei confronti di chi amava e cercava sempre di star loro vicino ogni volta che ne avevano bisogno, non dubitava che quella confessione avesse scatenato in lui un qualcosa di simile al rimpianto per non aver fatto a sufficienza.
«La mia vita non è perfetta, è vero ho sposato l’uomo che amo e siamo felici, ma abbiamo le nostre discussioni e, come avrai notato tu stesso, le mie giornate piuttosto stressanti.»
«Sì, ora l’ho capito» annuì, stirando un sorriso furbo «e io non so come tu faccia ad arrivare a sera tutto intero. Un giorno nei tuoi panni e ho già i nervi a pezzi; tra i rapporti delle missioni, approvare questo e quell’altro e poi le crisi coi vampiri, i demoni, le riunioni del consiglio… Per non parlare di tutte le occhiatacce che ho ricevuto da quando sono te. Nessuno ha davvero avuto il coraggio di affrontarmi a viso aperto, ma ho letto del giudizio e della disapprovazione nei loro occhi. Giudicano te, Alec ed è chiaro che tuo marito non gli piaccia granché e io non so come tu faccia a sopportarlo.»
«Con pazienza» annuì Alec, comprensivo e annuendo con l’aria di chi sa perfettamente di cosa stai parlando perché già c’è passato «quando gli ho messo quell’anello al dito sapevo a cosa stessimo andando incontro. Perché credi che ci siamo sposati in Istituto e non al Taj Mahal come voleva lui?»
«Perché hai dei pessimi gusti in fatto di location?» suggerì Magnus, sarcastico.
«No» negò Alec, che nonostante il tono duro aveva comunque lo sguardo divertito «lo abbiamo fatto perché volevamo diventare un simbolo. L’alleanza coi Nascosti è ancora molto fragile e simili cambiamenti sono lunghi da apportare, perché ciò contro cui stiamo lottando sono pregiudizi derivati da secoli di guerre. Come hai notato anche tu, più di uno Shadowhunter non approva quello che ho fatto, ma se nessuno fa un primo passo verso una vera alleanza, allora niente cambierà mai. Credi forse che per Magnus sia più facile? Io non godo di ottima fama tra gli stregoni, anzi… Ma non m’interessa! Sono con lui e questo mi basta e le persone capiranno e se non capiranno allora saranno obbligate a farselo andare bene. Questa è la mia vita, la nostra vita, Jace e non la loro. Il punto però è che niente di ciò che ho è perfetto e comunque non devi darti tutta la colpa, perché credo di essere in parte responsabile di quello che ci è successo» concluse in un sussurro mentre Magnus e Jace lo guardavano allibiti. Nessuno di loro ebbe però il tempo di formulare un altro pensiero nel cervello, che li precedette con una spiegazione: «Non avevo dato alcun peso a quell’episodio, sino a quando non hai detto che avevi espresso la volontà di essere me, ma ora che lo so… Io penso ci sia un concorso di colpa in questa faccenda. Anch’io ho espresso un desiderio, prima di addormentarmi l’altra sera ho chiesto di stare più vicino a te. Ti vedevo sempre nervoso, sapevo che stavi soffrendo e mi pesava il non esserti stato accanto come avrei dovuto. Ma mi è bastato stare un giorno nelle tue scarpe per rendermi conto della ragione del tuo nervosismo, del tuo stare lontano da chiunque. La pietà sul volto delle persone è insopportabile» ammise infine, ricordando di come avesse passato un giorno infernale e del fatto che, arrivato a sera, non riuscisse più a tollerare le pacche sulle spalle cariche di comprensione, oltre che i sorrisi mesti e le offerte di aiuto.

«Quindi entrambi avete espresso un desiderio che riguardava l’altro e vi siete ritrovati così il mattino successivo?» mormorò Magnus raggiungendoli al centro del soggiorno «devono avervi preso sul serio e averla interpretata come una preghiera, certo non si può dire che gli angeli non abbiano senso dell’umorismo. Ora che sappiamo come sono andate le cose, mettiamo tutto quanto a posto?» 

 

Non fu necessario che rispondessero, la domanda di Magnus pareva più che altro retorica perché qualche istante più tardi un flusso di magia bianca gli fuoriuscì dalle dita delle mani, grazie alla quale colpì prima Jace e dopodiché Alec. Ricordando di com’era andata l’ultima volta, entrambi si guardarono attorno in attesa di un qualcosa che sembrò non arrivare. Contrariamente al giorno precedente, infatti, gli angeli parevano non star facendo resistenza perché le luci non sfarfallavano e la magia di Magnus non veniva respinta. Alec e Jace non se lo fecero ripetere due volte, estrassero lo stilo dalla tasca dei pantaloni e lo passarono sulla runa Parabatai e quando questa si fu attivata, si presero per mano guardandosi negli occhi. A quel punto vennero avvolti da una forza a loro familiare e che, in un brivido, li scosse dalla testa ai piedi: era il loro legame che si stava allargando al pari dell’onda lunga di una marea. Un flusso di energia che li travolse, assieme all’incantesimo che Magnus aveva pronunciato in un perfetto latino e che era serpeggiato fra loro, avvicinandoli ulteriormente.
«Qualsiasi cosa dobbiate fare, sbrigatevi!» esclamò, agitando le mani a mezz’aria con quel suo consueto modo teatrale «il mio incantesimo potenzierà il contatto, ma non durerà in eterno.» E dopo che ebbe detto questo, Alec e Jace si ritrovarono sbalzati in un luogo che riconobbero come l’Istituto dove erano cresciuti. Ovunque fossero finiti, questo senz’altro non era il loft di Brooklyn di Magnus Bane.

 


Sollevando lo sguardo appena avanti a sé, Alec Lightwood si ritrovò a fronteggiare il viso di Jace così come l’aveva conosciuto. Biondo, con gli occhi bicromatici e il sorriso sfacciato, forse appena un poco strafottente, e che ora se ne stava nascosto dietro a un’espressione stupefatta. Indossava la divisa d’allenamento degli Shadowhunters, canottiera grigia e pantaloni scuri e si stava guardando mani e braccia, come a voler contare le proprie rune. Dovevano esserci quasi tutte, anche se mancava quella Parabatai, notò non appena Jace si scoprì l’addome. Erano tornati a quelli di sempre, ma erano ancora non propriamente loro, dovevano avere all’incirca diciassette anni. Alec si domandò se anche lui avesse quell’aspetto, a suggerirglielo fu principalmente l’altezza. A quell’età non si era ancora così tanto sviluppato, la massa muscolare delle sue braccia e dei pettorali era sicuramente meno voluminosa. Ed era anche lievemente più basso, pur restando più alto di Jace.
«Ha funzionato!» esclamò suo fratello, sorridendo. «Siamo noi stessi.»
«Sì, ma siamo bloccati qui dentro e abbiamo sedici anni» gli rispose invece Alec, guardandosi attorno come se cercasse una via d’uscita. Non c’era niente che lasciasse intendere una cosa del genere, ma d’altra parte sapeva che andarsene da lì non sarebbe stato così semplice. Eppure si guardò attorno, in cerca probabilmente di un indizio che li conducesse da una qualche parte. Tutto ciò che però gli saltava agli occhi era quel luogo così familiare e al tempo stesso sconosciuto. Era proprio l’Istituto, notò, d’altronde avrebbe riconosciuto quei corridoi anche a occhi chiusi. Spogli e molto semplici, con quell’odore di legno e polvere a invadere l’aria, perennemente immersi in un silenzio irreale. Lo era, certo, ma al tempo stesso era del tutto diverso a iniziare dall’atmosfera opprimente e a tratti irreale, palpabile tanto che aveva addirittura la sensazione di poterla toccare. Non era un posto vero e proprio, Alec ne era sicuro perché aveva abbastanza esperienza in quelle faccende: si trovavano nei loro ricordi, a metà strada tra ciò che erano stati e quel che erano adesso. E considerato che aveva già vissuto in passato un paio di esperienze molto simili a questa, sapeva che il solo modo che avevano per uscirne era percorrere quei corridoi e capire dove questi li avrebbero condotti.
«Qualsiasi cosa succeda, stiamo uniti» suggerì a Jace, voltandosi a destra e a sinistra, di modo da decidere da quale parte andare. Non credeva ci fosse una scelta più ragionata di un’altra, quel posto aveva l’aspetto dell’Istituto, ma era un’immagine mentale e nient’altro. Aveva la sensazione che fosse più che altro un labirinto, un luogo dell’anima in cui ogni direzione può essere al contempo sia giusta che sbagliata.
«Andiamo di qua» lo indirizzò suo fratello, decidendo per entrambi e muovendosi con sicurezza verso sinistra. Alec era certo del fatto che, se avessero avuto delle spade con loro, Jace avrebbe sguainato la propria e se la sarebbe rigirata tra le mani come faceva di solito quando erano a caccia, giocandoci addirittura e con quel sorrisino di sfida stampato in faccia a coronare il tutto. Non soltanto avevano sedici anni, ma neppure avevano addosso qualcosa che somigliasse a dei coltelli . E quindi si limitò a seguirlo senza dire niente, come faceva sempre perché  Jace era più bravo di lui a seguire l’istinto, lo era sempre stato. In quanto capo dell’Istituto di New York ogni decisione, Alec la prendeva in base all’esperienza o quanto riteneva essere giusto o logico fare, ma l’agire di pancia non era una sua prerogativa. Per questo smorzò sul nascere ogni pensiero che lo spingeva invece verso destra e, facendosi coraggio, lo seguì in avanti. Si domandò se la sua mente, il fato, gli angeli o chiunque avesse orchestrato tutto quello, non lo avrebbero comunque condotto dove era destino che andasse, ma preferì seguire suo fratello e non porsi ulteriori domande.

 


Camminarono a lungo per quei corridoi spogli e silenziosi per un tempo che Alec non riuscì a quantificare, potevano essere trascorse delle ore così come pochi secondi: là dentro il tempo era impossibile da definire. E non avevano incontrato neppure anima viva, il che era di per sé un fatto insolito. Si sarebbe aspettato di rivivere un qualche ricordo perché, quando era stato dentro la mente di Jace, aveva incontrato se stesso da bambino. Questa volta, però, attorno a loro non c’era nessuno. E quindi procedeva senza dire nulla, lo sguardo alto e attento, la postura guardinga come quando andavano a caccia di demoni, ma con la mente oberata di così tante parole, che quasi moriva dalla voglia di pronunciarle. Non avrebbe mai saputo spiegare per quale ragione decise di parlare proprio in quel momento né cosa fu per davvero a spingerlo a rompere ogni indugio, doveva trattarsi di un qualcosa di simile a ciò che aveva portato Jace ad aprirsi a lui, poco prima. Era come se sapesse che soltanto parlando sarebbero usciti da quel labirinto infinito. Ma forse era di quel luogo, la colpa, un posto così dannatamente uguale a quello dov’erano cresciuti, che lo stava portando a prendere decisioni molto più basate sull’istinto che su ciò che era più sensato dire.
«Clary all’inizio non mi piaceva» ammise ed era un sussurro, che in quel non parlare assordante risuonò al pari di un graffio su una lavagna. Aveva parlato, Alec Lightwood e nel farlo aveva avuto la netta sensazione di aver già fatto un discorso simile in passato. Allora non aveva avuto il coraggio di spingersi tanto avanti d’arrivare alla radice del problema, come invece aveva intenzione di fare adesso. Perché c’erano cose, dentro di lui, che un po’ per vergogna e un po’ per pudore non aveva mai detto a Jace.
«Lo so!» annuì lui senza voltarsi, ma continuando a camminare ancora come se si aspettasse che da un momento all’altro sbucasse un mostro a tre teste.
«La guardavi in un modo… Credo di esser stato un po’ geloso, oltre che spaventato dall’idea che mi avresti messo da parte per lei.»
«So anche questo» gli rispose, sorridendo appena in un’espressione vagamente beffarda, intanto che si voltava di tre quarti in sua direzione. Alec conosceva quello sguardo, era quello di sfida che portava sempre le volte in cui voleva spingerlo verso una direzione che invece lui stentava a prendere. Quasi a volerlo incoraggiare, ma in una maniera così da Jace che in quegli attimi lo fece sorridere in rimando. Era così, dunque? Suo fratello, il suo migliore amico lo stava sfidando a dire tutta la verità una volta e per tutte? Alec se n’era sempre un po’ vergognato e, quando aveva capito che ciò che aveva sempre creduto di provare per Jace non era un tipo di amore romantico, aveva pensato che dicendoglielo avrebbe fatto la figura del cretino. Di conseguenza aveva taciuto, nascondendo quell’oscuro segreto e classificando ciò che aveva creduto di provare come un qualcosa di appartenente al passato e ormai dimenticato. E comunque era trascorso del tempo da allora, nel frattempo si era persino sposato e più volte si era detto che fosse inutile riaprire vecchie ferite. Però adesso erano lì, in un corridoio infinito e tanto valeva riprendere in mano certi vecchi discorsi e risolverli una volta e per tutte. Forse era anche questo che gli angeli volevano per loro.
«Sai, quando si condivide un legame come il nostro» proseguì Jace, come a voler rompere gli indugi e dando prova di sapere già di cosa Alec gli volesse parlare «è facile confondersi o pensare di provare un certo tipo di sentimenti per il proprio Parabatai.»
«Sì, ma è una verità che ho faticato parecchio a comprendere. Sapevo di essere gay, l’ho sempre saputo ed ero convinto che quello che provavo per te fosse quel tipo di amore, ma poi ho incontrato Magnus...» concluse, stirando inevitabilmente un sorriso non appena aveva pensato a lui.
«E hai capito cosa significasse davvero innamorarsi.» Giunto a quel punto del discorso,  Jace aveva fermato il proprio camminare, si era voltato verso Alec e lo fronteggiava a testa alta. Era ancora giovane, sì, ma del fratello sedicenne che ricordava non riconobbe poi molto. Non aveva la spavalderia di un tempo e il suo sguardo non luccicava come allora. Di diverso aveva quell’amore che ancora provava e che, nonostante tutto, brillava nei suoi occhi. Era un ragazzo piegato dalla sofferenza, il suo sguardo era triste e dolce in un modo che non aveva mai visto in lui prima dell’arrivo di Clary. Invece che indugiare su di lui, Alec però si riscosse e riprese a parlare perché c’era ancora molto altro che aveva da dire.
«Non sai quanto mi sia sentito sbagliato o malato a provare tutto quello per la persona che sarebbe dovuta diventare il mio Parabatai. Avevo questa età quando lo feci capire a Isabelle, mi stavo tirando indietro e non volevo venire alla cerimonia perché pensavo che avrei subito un atroce destino se qualcuno l'avesse scoperto. Fu lei a convincermi e a dirmi che, se non l’avessi fatto, me ne sarei pentito per tutta quanta la vita. Izzy aveva ragione perché tu e Magnus siete per me le persone più importanti, senza le quali non riuscirei a vivere, ma quando è arrivata Clary... non è stato facile sopportarlo!» Quell’ultima frase l’aveva detta sussurrando, ma mettendoci un’enfasi che non aveva mai avuto, non con Jace almeno. E lo sentiva, quel peso che lasciava per sempre la sua anima facendolo sentire ancora più leggero.
«Per me è stata la stessa cosa quando abbiamo incontrato Magnus» confessò inaspettatamente Jace, interrompendo il fluire dei suoi pensieri. Alec schizzò il volto verso l’alto, sconvolto da una simile rivelazione, a sorprenderlo non era più soltanto la delicatezza che leggeva nei suoi occhi, ma anche una leggera vena di gelosia. «Vedevo come ti guardava e non mi piaceva, avevo paura che finisse per spezzarti il cuore. Sono contento di essermi sbagliato.»

«E io sono contento di essermi ricreduto su Clary e, te lo giuro, l’idea che lei non si ricordi più di te non mi ha fatto stare bene. So che ero in luna di miele con Magnus e che può sembrare che io me ne sia fregato di quello che stavi passando, ma non è così. Te lo giuro, Jace.» Lo implorava, certo e aveva anche gli occhi arrossati e liquidi. Quel volto sedicenne rigato di lacrime, le dita tremanti che si torceva nervosamente. Soffriva, Jace lo vedeva e se lo sentiva dentro. E quel dolore così sincero, investì tanto il giovane Herondale che il primo gesto istintivo che fece fu quello di abbracciarlo.
«Ehi, ehi» gli disse ancora stringendolo, prima di afferrare il suo viso tra le mani, facendo in modo che Alec sollevasse lo sguardo su di lui.
«Mi dispiace per quello che ti è successo, non te lo meritavi! E c’erano momenti, quando eravamo in luna di miele, in cui mi sentivo in colpa a essere così felice mentre tu eri qui a soffrire. Magnus ha provato a starmi vicino, ma i giorni passavano e io mi sentivo intrappolato. Percepivo il tuo dolore dentro di me, sentivo il mio ed era insopportabile e poi vedevo la pena nello sguardo di Magnus, il suo senso di impotenza e non riuscivo a fare niente per farvi stare meglio. Clary manca a tutti e io... Io le volevo bene.» Soltanto allora, dopo quel lungo vagabondare per i corridoi di quel fasullo Istituto, Jace Herondale comprese il senso di tutto quello. Perché si erano scambiati, per quale motivo adesso avevano sedici anni e la runa Parabatai era assente. Avevano dovuto capire, entrambi. Arrivare alla sofferenza dell’altro, al disagio che ogni giorno erano costretti a vivere in Istituto. Vivere tutto quello, guardando il mondo dagli occhi dell’altro. E aveva capito anche per quale ragione la pozione di Magnus non aveva funzionato: avrebbero dovuto vedersi e giurare, ancora, di essere per sempre l’uno il Parabatai dell’altro. 



Jace alzò il viso con quel sorriso tipico di chi ha afferrato finalmente una grande verità, un qualcosa che gli sfuggiva. La sua mente si era rischiarata di una serenità che lo faceva vibrare dentro al punto, che sentiva i suoi poteri d’angelo fluirgli nelle vene. Le sue rune si illuminarono di striature dorate, intanto che Alec lo guardava stupito. Senza pensarci due volte afferrò la sua mano e, stringendola, sollevò gli occhi nei suoi.
«Giurami di non lasciarti o di non tornare dopo di te.» Alec lo guardò allibito, confuso in un primo momento, ma subito dopo il suo viso s’illuminò di consapevolezza.
«Perché dovunque andrai, io andrò e dove alloggerai io alloggerò.»
«Il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio» replicò Jace e poté giurare di sentirlo, il legame vibrare di nuovo dentro di lui. Nonostante l’aspetto e la mancanza della runa, il legame non si era affievolito né spezzato. Era ora che stavano pronunciando di nuovo il loro giuramento, questo aveva preso ad avvolgerli e a spingerli l’uno verso l’altro.
«Dove morirai, io morirò e lì sarò sepolto» aggiunse Alec, altrettanto emozionato. Altrettanto vibrante di eccitazione.
«L’angelo fa così a me e anche di più...» gli rispose Jace, intanto che il suo Parabatai pronunciava assieme a lui quell’ultima frase: «Se non altro che la morte separa me e te.»

 


Fu allora che successe, il corridoio dove stavano cambiò di forma e due porte comparivano esattamente di fronte a dove stavano. L’una a destra e l’altra sulla sinistra, una accanto all’altra. Guardandosi attorno, Alec notò che non c’erano altre vie d’uscita, i corridoi che sino a poco prima si erano intravisti erano adesso murati, obbligandoli di fatto a dover oltrepassare una delle due porte. Istintivamente, Alec si avvicinò a quella di destra. Non sapeva il motivo, ma ebbe la sensazione che era là che doveva andare.
«Magnus» mormorò sulle labbra, lui era oltre quell’uscio e lo sapeva. Lo aveva percepito in ogni momento, intanto che erano stati lì dentro. La sua magia era come un qualcosa in sottofondo, a cui non fai sempre caso, ma che ti spinge ad andare avanti. Jace, al suo contrario, si era sistemato davanti alla porta di sinistra, la fissava come se ne fosse attratto, al pari di una calamita è attratta dal ferro. Aveva anche mormorato un “Clary” sulle labbra mentre ora stringeva la maniglia, al punto da far sbiancare le nocche.
«Credo che dovremo prendere strade diverse, fratello» gli disse, accennando un sorriso prima di aprire la porta e fare un passo in avanti. Alec non vide cosa c’era al di là di quella di Jace. Lo vide soltanto sorridere e poi sparire e mentre l’uscio si richiudeva alle sue spalle, allora si rese conto di esser rimasto da solo dentro a quel labirinto. Era ora di uscire, pensò mettendo un piede avanti all’altro.



 

Continua





Note: Siamo quasi alla fine della storia, il prossimo sarà una sorta di epilogo che concluderà il tutto. Arriverà entro la settimana prossima, non prima perché mi sono presa nel frattempo anche un altro impegno, con un’altra storia, che aggiornerò giovedì o venerdì. Ma nel frattempo ringrazio tutte le persone che hanno seguito sino a questo momento, a chi ha letto e a chi ha lasciato una recensione.
Koa
   
 
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