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Autore: Master Chopper    30/05/2021    5 recensioni
[STORIA AD OC - ISCRIZIONI APERTE]
Nell'epoca degli Stati Combattenti, il regno di Fiore si difende dai tentativi di invasione dell'Impero di Alvarez. In questo mondo immerso nel caos, giovani soldati si fanno largo mossi da grandi aspirazioni.
-Esperimento per vedere se si riescono a riportare in auge le storie ad OC-
-Fanfiction tributo a Lord_Ainz_Ooal_Gown-
Genere: Avventura, Azione, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Prefazione:

Ciaoss! Volevo giusto rendere presente che, come non ho detto ai tempi del prologo, uno dei motivi della morte dei personaggi presenti potrebbe essere l’abbandono del proprio creatore dai recensori. E a proposito dei vostri OC, ne parleremo meglio nell’angolo autore a fine capitolo, quindi leggetelo per bene!

 

DICHIARAZIONE DI GUERRA

 

Le gocce di pioggia scivolavano per diversi metri lungo le grandi finestre, prima di scorrere come piccoli fiumi ai piedi della magione. L’acquazzone offuscava persino la sfavillante dimora con le sue centinaia di stanze illuminate, la quale di norma sarebbe risultata come un incendio dorato ai confini della città.

Dalla montagna su cui pendeva, una donna si affacciò distrattamente ad una delle tanto alte finestre e scrutò la capitale. Le parve brillare ancor più intensamente di quel posto, e allora non ebbe più dubbi sull’insensata vanagloria del proprietario, God Serena. Tuttavia, per quanto l’irritazione di dover avere a che fare con un individuo del genere fosse tanta, si lasciò comunque sfilare la cappa dai domestici ed entrò nel salone. Una stola le pendeva dal braccio destro, o meglio, dalla spalla. Sotto di essa, il moncone le doleva in ogni notte di pioggia. Ed in ogni notte come quella, ogni goccia le ricordava qualcosa di molto più grande e pesante dell’acqua.

Quei massi erano precipitati su di lei senza scorrerle addosso, ma strappandole appena un grido di dolore prima che il freddo delle tenebre la soffocasse. Era stato come un abbraccio, ma duro ed umido, bagnato dal suo stesso sangue. Quando era rinvenuta, respirando con polmoni brucianti la nebbia a valle, immersa nella luce del sole che sorgeva, stava venendo portata via in fretta su di un carro e non si sentiva più un braccio. Non aveva più un braccio.

Dimaria Yesta camminava all’interno di quella magione esattamente come era tornata a camminare subito dopo quel risveglio: a testa alta. Ad una generalessa sanguinaria come lei, una dea della guerra come la osannavano nell’Impero, nemmeno perdere un braccio doveva gravare sul suo orgoglio. Ed infatti aveva dominato il campo di battaglia per due anni pur impugnando la sua ascia lunga da mancina.

Eppure, non l’avrebbe mai ammesso a nessuno, nemmeno all’Imperatore in persona, una presenza infausta abitava la sua mente da quella notte. Quel maledetto fantasma dell’alba aveva le sembianze di un ragazzo dai capelli argentei. Era un’ossessione, l’unico avversario che le avesse arrecato offesa ma di cui non fosse riuscita a vendicarsi: non avrebbe mai potuto, perché gli dèi avevano sbeffeggiato solo lei della vita in quel tunnel di cadaveri. Quell’incubo, però, da qualche giorno aveva smesso di tormentarla, e per merito di un uomo agli ordini di un suo comandante: quel non così inutile capitano, era tornato dal Regno di Fiore con un’informazione succulenta, la panacea per i suoi rancori.

“God evening, Mariuccia!” ma quell’urlo borioso la interruppe, facendola persino sobbalzare per quanto era stato fragoroso. Sulle interminabili scale dell’anticamera in cui era arrivata, la salutava a braccia e bocca spalancata un uomo dai capelli biondi sparati all’aria e gli occhi di un esaltato.

Lei salutò l’altro generale con un’occhiataccia: “God Serena …” augurandogli silenziosamente di inciampare da quella scalinata e porre fine alle sue sofferenze.

“A quest’ora della notte un angelo come te mi fa pensare di essere in un sogno.” Le ammiccò, raggiungendola fino a porgerle il braccio. “Andiamo a mangiare? Conosco i tuoi gusti e ho fatto preparare a …” lei gli schiaffò via quel gomito e procedette verso la sala da pranzo, noncurante di come quel tizio le guardasse il sedere mentre si allontanava.

Arrivati ed accomodati alla lunga tavolata, presto i camerieri servirono le portate, ma non uno di loro toccò cibo. Erano seduti alle estremità opposte del tavolo, lui con i gomiti puntati ed il mento tra le dita, e lei con un pugno chiuso con cui aveva allontanato il piatto da davanti a sé.

“Ricordo quando…” interruppe il silenzio l’uomo biondo, sorridendo con il suo fare poco rassicurante. Dimaria sapeva che God Serena poteva fare paura solo a due categorie di persone: i suoi nemici in battaglia, e a qualsiasi esponente del sesso femminile su cui lui avesse puntato quei suoi occhi da maniaco.

“… eravamo tutti qui. Con i nostri comandanti, e loro con i loro uomini migliori. C’erano ottimi artisti, ottimi estimatori d’arte e qualcuno ha persino assistito alle mie pièce teatrali. So che qualche ciarlatano si complimentava con me solo perché sono… bhe, io. Ma qualcuno di loro sono sicuro tutt’ora che fosse sincero.”

“Nessuno di noi Spriggan penso si sia mai trattenuto dal dirti quanto ci piacessero.”

“Almeno a Larcade piacevano …”

“A Larcade facevano orrore i tuoi spettacoli!” Maria sogghignò, con gli occhi chiusi ed il mento poggiato sullo sterno “Ma almeno ci divertivamo sentendo Nineheart e Wallhart prenderti per il culo tra il pubblico.”

God Serena emise uno sbuffo, che parve quasi una risatina soffocata, prima di mostrare uno sguardo perso nel vuoto: “E ora le mie sale sono vuote, e non posso più trovare altri stupidi coglioni che non capiscono niente dell’arte alla mia tavola.”

Ormai da due anni, di dodici sedie riservate a loro Spriggan ben otto accumulavano polvere. Si erano ripromessi di festeggiare lì dopo la presa di Shiranui, ma God Maria aveva riportato indietro i suoi compagni solo sottoforma di chiazze di sangue sulla sua armatura. E ora, anche in quel momento, non poteva che vedere i loro cadaveri per come erano morti in battaglia su quegli otto posti impolverati.

“Se sono qui solo per vederti piangere me ne vado …”

“No, aspetta. Volevi parlare proprio degli Spriggan, in un certo senso, no?”

-Volevo… parlare?- pensò la donna, ma troppo presto quel logorroico riattaccò: “Ad oggi siamo rimasti solo in quattro: Ajeel è stato ritirato su consiglio di suo nonno, ed August è appiccicato al culo dell’Imperatore notte e giorno. Fece bene ad ordinare la ritirata per primo, quella notte a Shiranui… almeno si è assicurato il posto di lacchè anche per questi due anni. Ma temo che questo non durerà ancora per molto…”

“Cosa intendi dire?” Dimaria aggrottò la fronte, notando un lampo sinistro negli occhi del generale.

“Da quanto tempo non vedi lo stratega? Un mese, un mese e qualche settimana? In questo periodo di tempo abbiamo compiuto azioni diplomatiche e fatto battaglie dove ci era stato ordinato di fare negli ultimi consigli di guerra… ma lui non era lì a consigliarci, come dovrebbe fare. Abbiamo sentito parlare solo quel vecchio viscido di Yajeel. In pratica ci ha riferito le parole dello stratega per conto suo, una cosa mai successa prima!”

-Yajeel è il consigliere. - Volle rispondere la donna per consolarsi da quella preoccupazione, ma da che lavorava nel ristretto consiglio dei dodici generali più potenti dell’Impero, lo stratega imperiale non aveva mai mancato un concilio. Era un individuo che sinceramente odiava vedere, ciò nonostante della sua mancanza non era rimasta comunque indifferente. “Se non ti sbrighi ad arrivare al punto me ne vado, God Serena!”

“Ma… lo volevi tu… vabbè!” Nel breve istante in cui l’uomo le parve fin troppo confuso dalla sua reazione, la bionda spalancò gli occhi insospettita, ma di nuovo lui riprese a parlare: “Quello che voglio dire è che forse sta tentando di riempire i posti vacanti degli Spriggan 12. Dopotutto, se si chiamano Spriggan 12 e attualmente siamo ad un quarto della potenza, non possiamo più essere utili all’Imperatore.”

“Essere utili? Vuoi dire che rischiamo di essere rimpiazzati?” Stava iniziando ad innervosirsi sul serio, per quanto negli anni si fosse vantata di esser divenuta molto più cauta.

“Forse sì, forse no? Queste sono le opinioni di cui mi avevi chiesto di discutere…”

“Che cazzo dici?! Io non ti ho chiesto di discutere di niente, figurati se sento il bisogno di ascoltare le chiacchiere di un coglione come te!” Sbottò finalmente Lady Dimaria Yesta, sbattendo quel suo unico pugno sul tavolo e guardando inferocita l’altro generale. Tutto il tempo che le aveva rubato, e che le stava rubando tutt’ora, glielo avrebbe fatto pagare. D’altronde era tempo sottratto alla sua vendetta, e tempo in più prima di poter vedere Fiore bruciare.

“Sono qui solo perché mi hai chiamata con una maledetta lettera, ma non mi aspettavo di sentirti piagnucolare e spettegolare come una ragazzina!” La sua collera era al limite, quando fu costretta ad esitare per la vergogna: “Pensavo avremmo scopato e basta come al solito, invece mi vuoi ammorbare con le tue preoccupazioni! Sei un generale di Alvarez, per gli dèi, tieni la testa alta!”

“Mariuccia…” Odiava quando la chiamava così, ma stavolta non sentì nella sua voce una nota di malizia “Sono lusingato dal tuo pensiero, ma…” God Serena deglutì a vuoto, sgomento: “Sei stata tu a chiedermi di parlare di tutto questo, mandandomi una lettera.”

Quando la donna realizzò che quella serata sarebbe stata la più disastrosa della sua vita, persino più della sconfitta a Shiranui, si accorse in ritardo dei servitori troppo vicini alle spalle del suo amico. Di colpo il volto sgomento di God Serena si contrasse dall’agonia, avvertendo una manciata di fili di ferro avvolgersi al suo pomo d’Adamo, squarciandogli la carne e conficcandosi fino alla cartilagine. Lo vide per l’ultima volta compiere uno spasmo di tosse, ma non riuscì ad emettere alcun suono.

Allo stesso modo, il grido in cui lei esplose venne coperto da un tuono scoppiato lì nel cielo buio, e si dissolse nel nulla. Da sotto al tavolo qualcosa saettò verso di lei, ribaltandola dalla sedia mentre era intenta a rialzarsi. Prima ancora però che potesse opporre resistenza, vide uno scintillio su acciaio, e allora la sua mente maledisse di non aver portato con sé il suo Tesoro Oscuro.

Ma d’altronde, a cosa le sarebbe servita? Ogni qual volta che veniva lì era solo per scaricarsi di dosso il suono costante di urla e morte in battaglia, consapevole di quante poche persone che l’avessero vista al pieno della sua potenza esistessero ancora. Ricordò di come fosse stato proprio God Serena la prima persona che vide, aprendo gli occhi su quella carrozza. Brillava nell’alba mista alla foschia, e piangeva perché anche lui realizzava di aver perso ben otto valorosi compagni in una notte. E, nonostante glielo avesse promesso, non sarebbe mai riuscita a prendersi quella vendetta per entrambi, neanche uccidendo la sorella del soldato che le aveva rovinato la vita.

Pensò a tutto questo mentre un singolo fendente di quell’arma la tranciava in due all’altezza della pancia. I suoi due frammenti iniziarono la caduta verso il pavimento, tra le stille di sangue che scoppiavano attorno, ma quando toccarono terra si sgretolarono in poltiglia fumante. Pochi secondi dopo, quella stessa materia simile a muffa ribollente scomparse. Nel frattempo, l’assassino si era voltato ed aveva scagliato con estrema precisione l’arma dall’altra parte del tavolo. Lì si era conficcato in mezzo alla fronte di God Serena, quel khopesh. Anche di lui non rimase più nulla, e nessuno poteva più testimoniare che fino a poco fa lì fossero seduti due dei generali più potenti dell’Impero.

Mentre la figura ammantata recuperava il proprio Tesoro Oscuro, qualcuno fece ingresso nel salone. I domestici non dovettero nemmeno voltarsi a guardarlo, così come colui che aveva assoldato per uccidere God Serena e Dimaria Yesta.

“I dodici piccoli folletti stanno cadendo al suolo come uccelli colpiti dal cacciatore. ‘Che supera il mondo, di caccia al piacer?’ o non faceva così quel poemetto straniero? Però devo ammettere che della caccia non preferisco tanto l’ebbrezza di uccidere la preda, simbolo dell’eterno equilibrio tra preda e cacciatore nella storia della sopravvivenza delle specie… quanto il prodotto finale: il cibo.” Passò di parte alla tavola imbandita, dove niente era stato consumato. E per quanto quella stessa cena fosse stata una trappola architettata, e quindi una mera finzione, si sedette ed iniziò posatamente a mangiare.

“Il tuo Tesoro Oscuro, Calamity Mary, è orrido sotto questo punto di vista. È come se un cacciatore uccidesse una sua preda con dell’esplosivo… ma mi rendo conto che in situazioni di estrema pulizia, come ti è stato richiesto stanotte, è a dir poco eccelso.”

Guardò dritto negli occhi il ragazzo ammantato, scorgendo uno sguardo inespressivo quanto pensoso.

“Cosa ti affligge, Sunse? Forse l’aver ucciso un tuo generale?”

Il ragazzo che era appena stato chiamato Sunse guardò di rimando la ragazzina che lo aveva interpellato. Lei aveva un portamento regale quanto rigido e meccanico, lasciando tra di loro un oceano di distanza, come se a stento lo stesse considerando un essere umano suo simile. Eppure non era priva di emozioni, perché ogni sua parola risuonava incalzante e piena di motivazioni e gloriosi, seppur tragici, ideali, come una marcia militare.

Pensò a lungo cosa dire prima di rispondere con un semplice e conciso: “Nulla. Nulla mi affligge, Stratega Imperiale. Buon appetito.”

“Non si dice buon appetito, ragazzo. Heill Alvarez!

 

All’interno della stanzetta di pietra filtrava poca luce, proveniente da una finestra posta in alto, accuratamente lontana da dove si erano posizionati i due uomini. I raggi del sole non li avrebbero mai toccati, così come occhi indiscreti. Faceva caldo, ma non quel tipo di caldo tipico dell’estate quando ci si trova al chiuso. Le primavere lì a Fiore non avrebbero mai raggiunto tali temperature, e forse in nessun altro punto del continente si avrebbe potuto percepire il caldo in quel modo: era calore emanato da qualcosa che andava a fuoco, qualcosa che di norma non si sarebbe dovuto bruciare, soprattutto in quantità spropositata.

Il vecchio nano si asciugò il sudore dalla fronte e da sotto la peluria sul suo viso, affranto. Il silenzio che stava mantenendo assieme all’altro convitato era estenuante quasi quanto l’afa, ed entrambi avevano messo a dura prova la sua resistenza. E, se a provare ciò era uno dei più rinomati Generali del Regno, voleva dire molto.

“Seboster, tu non hai idea di quanto la Regina ti sia riconoscente per il tuo servizio. Nessun altro generale a parte te aveva avuto il coraggio di prendere questo incarico, all’epoca.” Poi il vecchietto realizzò quante le sue ultime parole potessero essere soggette a fraintendimenti: “Nel senso che, però, se io non fossi stato affidato alla difesa di Shiranui, ti avrei aiutato.”

“Grazie.” Disse soltanto l’altro uomo presente nella stanza, dopo che era stato altrove con la mente per indeterminato tempo. Attese qualche secondo, e quando lo ritenne doveroso, fece finta di ricordarsi quel “… Generale Makarov” che pronunciò con falsa cortesia.

“Smettila di comportarti così.” Le sopracciglia bianche di Makarov si abbassarono “Sono venuto qui per portarti dei miei fidatissimi uomini, non per essere l’ennesimo tuo nemico in questa città.”

“Crocus non è più una città… da tempo, ormai.” Il Generale Seboster rifletteva nell’aspetto quell’iconografia leggendaria, quasi mistica, che tutti i concittadini avevano imparato ad ammirare pensando ai tre generali più forti del Regno. C’era la Regina delle Fate Elsa Scarlett, promossa dai ranghi della Vecchia Fata Makarov Dreyhar, e poi c’era lui, che una fata non lo era mai stato. No, il suo corpo non aveva mai visto un tatuaggio del genere.

Seboster Vellet aveva dei capelli un tempo portati lunghi, ma che ormai erano stati tagliati rozzamente e spuntavano in grossi ciuffi selvaggi incoronando la sua faccia burbera. Una grezza barba dello stesso colore dei capelli, ovvero di un rosso tendente al violaceo, nascondeva appena qualche cicatrice, come faceva in gran parte la benda nera calzata sull’occhio destro. Un occhio che non vedeva più da anni, e che non aveva una leggenda sopra, come di solito si confà alle menomazioni più gravi riportate in guerra.

Nonostante fosse tra gli uomini più ricchi del suo ceto sociale, non indossava da che aveva memoria degli abiti profumati o che costassero più delle numerose armi nelle sue fodere. Solo un’armatura coperta sul pettorale da un mantello rosa carne, il quale un tempo forse doveva avere una parvenza di bellezza, arrotolato attorno al collo e sui larghi spallacci.

“Un tempo tornerà ad esserlo. Lo spero.” Disse soltanto il vecchio, prima di balzare giù dalla sedia. Si fermò vicino alla porta quando udì un rumore inaspettato: una sedia scricchiolare. Mai una volta in quei giorni Seboster si era alzato a salutarlo, o tantomeno ad aprirgli la porta come le buone maniere avrebbero invitato a fare.

Ed infatti neanche quella volta fu così. Il guanto si posò sullo stipite, mentre il rosso ora troneggiava il piccolo uomo, chinando la testa per osservarlo al meglio dopo aver formato un gigantesco arco di acciaio e stoffa rosa con il suo corpo ed il suo braccio. Senza che la luce potesse colpirlo, il suo volto era di un’oscurità nera quanto la sua benda.

“Per quanto io sia rinchiuso qui da mesi, so che cosa accade fuori. Le voci non le portano solo i tuoi fidati uomini che chiacchierano con i miei.” E dopo aver messo in chiaro le cose, scandì le seguenti parole: “So che stanno chiudendo le gilde in tutta Fiore.”

Makarov continuò a guardare la porta davanti a sé: “Dire che le stanno chiudendo è sbagliato, chiunque te l’abbia detto. Stanno venendo uniformate all’esercito per volere della Regina: è giusto che ogni uomo che sappia combattere venga impiegato a tempo pieno nell’esercito. C’è più meritocrazia che combattere in campagne sperdute e…”

“Non è della gestione delle milizie che voglio parlare. Voglio solo rinfrescarmi la memoria: due anni fa tu stesso eri a capo della più grande gilda di Fiore, mentre l’esercito era composto da quattro soldatini. Poi di colpo Fairy Tail ha smesso di esistere, e sono iniziati a spuntare i grandi nomi che ora tutti conoscono. Perché?”

“Lo richiedeva la Regina. Senza un mandato reale nessuno si sarebbe perso la briga di difendere Shiranui dagli attacchi che sono avvenuti nel corso dei tempi, come quando tutti gli Spriggan 12 si sono presentati alle nostre porte. L’urgenza è sempre presente: per quanti grandi nomi possano risuonare nei libri di storia tra cento anni, se perderemo la guerra saranno solo nomi di soldati morti. Ma anche i mercenari che combattono nelle gilde possono morire in ogni istante.”

“Astuto. Come se i mercenari non combattessero lo stesso per il Regno. Noi soldati combattiamo sui confini per servire la regina, loro combattono nell’entroterra per il popolo. Si tratta sempre di Fiore. Sai dove non ci sono più gilde? Ad Alvarez.”

“Nutri rispetto per i mercenari. E anche io, a differenza tua ne ero addirittura Master, un tempo. Quindi non venire a fare la predica a me, che so più di chiunque altro qui quanto possa essere forte il senso di dovere e di giustizia di uomini provenienti dal nulla e senza ranghi militari… ma no, in realtà lo sai anche tu. È per questo che hai comunque dato il titolo di Capitano a tuo figlio.” Gli scappò una risata, e a quel punto guardò in alto “Anche se, a dirla tutta, dargli un manipolo di uomini quando sai già che deve occuparsi di quella gilda, sembra un po’ una punizione. Chi sarebbe l’intollerante, tra te ed Alvarez?”

Siccome ormai era chiaro che la conversazione era stata abbandonata a qualcosa dai toni ben meno seri, Seboster raddrizzò la schiena per allontanare l’oscurità dal suo viso.

“Mio figlio vorrà pur fare quello che vuole, ma ha delle responsabilità da rispettare. Se ne ha troppe, è una sua scelta, e sarà lui ad abbandonare quelle che ritiene superflue.”

“Eppure proprio non vuoi farlo salire di rango, eh. Il figlio del più famoso uomo fatto da sé dell’esercito è ancora un Capitano. Ma sentiti!” Nuovamente la Vecchia Fata rise, stavolta però fino a tossicchiare. Dopodiché fu sul punto di andarsene, ma l’uomo gli aprì la porta per primo. Là fuori, in un corridoio altrettanto caldo e pietroso, l’unico occhio di Seboster riconobbe un volto familiare. A quel punto l’occhio si fece intimidatorio, e la figura scappò prima che Makarov potesse uscire dalla stanza.

Florence affrettò il passo fino a quando non fu uscito da quel dedalo di sotterraneo, e solo allora poté fermarsi a prendere un respiro. Sapeva che suo padre non l’avrebbe voluto lì ad origliare, e se forse in futuro lo avesse voluto degnare di una conversazione sarebbe stato rimproverato. Accarezzò l’impugnatura della spada con le dita: per quanto gli fosse impossibile odiare suo padre, ne sarebbe volentieri stato il più lontano possibile. Tutto questo, però, non si poteva dire del suo rapporto con la morte. Quando spalancò la porta, il mondo puzzava di cadaveri bruciati ancor più che all’interno.

Lì a Crocus, la città dei fiori, non un singolo fiore sbocciava ormai da anni, senza che venisse innaffiato dal sangue di un soldato caduto. Tra polvere e cenere nelle strade, e rovine dove un tempo si trovavano splendidi edifici, non c’era più spazio per ricordare la bellezza che fu la vecchia capitale del Regno. A vista d’aquila, era possibile osservare la pianura circoscritta tra le montagne, ed al centro un gigantesco punto nero, come un abisso fumante, di morte e distruzione: quella era Crocus. Due anni fa erano venuti dai colli, precipitando come una valanga sulla città dove nessuno si sarebbe aspettato un attacco, la città santa per la religione, la città della giustizia per il concilio di saggi. Per fortuna dei reali, era stata istituita da poco Magnolia come nuova capitale, quindi loro poterono solo sentire le voci della caduta di Crocus nella sicurezza del nuovo palazzo reale.

Ma chi avessero colpito per Alvarez non era importante, e a dirla tutta neanche per gli abitanti di Fiore. In pieno giorno, era stata presa una città importante come Crocus, e nessuno dopo due anni si era saputo spiegare il perché. La fortezza Shiranui era lontana e non c’erano state notizie di una breccia, e solo dopo l’accaduto, quando ormai la città era stata tagliata via dal resto del Regno, vennero squarciate le difese in una fortezza minore nella frontiera più vicina. Da allora, con ancor più crudeltà, quella faglia aveva permesso ad Alvarez di sgretolare Fiore. Crocus ormai non era più del Regno, tuttavia non apparteneva neanche al nemico Impero. Era solo la casa della morte e della guerra, concentrata in una gigantesca città che tuttavia aveva visto più perdite di un qualsiasi campo di battaglia in decenni.

I bellissimi vicoli, i boulevard, le case nobiliari ed i negozi. Tutto ciò ormai era stato reinventato come trincee, accampamenti, luoghi da colpire ed espugnare, solo per strappare al nemico un pezzo in più di quel territorio. Come due animali che contendevano una carcassa tra le loro fauci, o si sarebbe spezzata prima Crocus, oppure qualcuno tra Fiore ed Alvarez.

Il Capitano Vellet sguainò Kinto, preparandosi a combattere.

 

Quell’uniforme gli andava stretta, stretta alle braccia, stretta alle gambe e stretta alla vita, specie con il cinturone e la fondina. Per norma era permesso apportare solo piccole modifiche al vestiario da gendarme, ma con sua enorme frustrazione aveva dovuto ripiegare a causa di un dettaglio insopportabile: la divisa era blu, di un blu mare affascinante, per carità, ma pur sempre blu. E sul blu sarebbe stata male la cappa rossa che aveva trovato in un negozio, per di più un’edizione limitata rilasciata per i trent’anni dell’Imperatore: per fortuna la trama ricamata non era del faccione di Zeref, nonostante non fosse un brutto uomo, bensì dello stemma imperiale.

Perso nei suoi pensieri, si ritrovò a specchiarsi in una vetrina lungo la strada: sollevò il cappello per controllare che i capelli non si fossero appiattiti troppo. Essi erano biondi e corti, tuttavia era difficile tenerli ben ordinati come avrebbe voluto con quell’affare in testa, che spesso gli schiacciava il suo ciuffo tinto di rosa, il suo preferito, sul ponte del naso.

“Hai finito?” Si accorse troppo tardi di essersi fermato a pettinarsi, quando l’ispettore lo richiamò dalla distanza. Il tono non era arrabbiato, quanto più annoiato. Lo seguì mormorando delle scuse con un sorriso che sperò non apparisse troppo impertinente.

Generali, comandanti, capitani. Se sui campi di battaglia questi titoli eroici potevano significare qualcosa, lì in città, tra la gendarmeria, i soldati semplici dovevano rispondere agli ordini di ufficiali della pubblica sicurezza con ciascuno il suo compito. Più che un fante, nome alternativo del suo titolo, Daisuke si era sempre sentito un impiegato, o un segretario tutt’al più.

Il vento batteva forte quel giorno, amplificandosi tra le larghe strade cittadine. Se si volgeva lo sguardo agli alti palazzi in pietra levigata e acciaio, veniva da chiedersi quanto si potesse stare ancor più male lassù. Considerando però che in quei palazzoni alti quasi fino alle nuvole ci abitavano ricchi in attici da sogno, magari non se la passavano poi così male.

-Sono davvero affascinanti, visti da fuori- amava quell’architettura, ed era grato di vivere ormai nell’unico posto al mondo in cui fosse possibile ammirare degli edifici così belli. Alvarez acquisiva tutto dei luoghi su cui puntava gli occhi, come se vi ci gettasse la cultura all’interno di un calderone, per poi tirar fuori sempre la miscela perfetta: diverse lingue e storie di paesi venivano insegnate nelle scuole, la cucina andava a sfiorare ingredienti provenienti da tutto il mondo noto e tutte le forme d’arte si espandevano di anno in anno. Personalmente non aveva mai visto Fiore, e non vi erano libri con immagini che ne ritraevano il paesaggio, ma che accennavano alla bellezza di certi luoghi. Purtroppo, quando aveva chiesto alle poche avanscoperte ritornate in patria se fosse davvero così bello il monte Hakobe, gli avevano risposto che era solo un monte.

Si chiedeva allora da tempo, se mai avrebbe visto amalgamarsi anche qualcosa di Fiore lì nell’Impero. Da due anni si era visto di nuovo solo qualche boulevard fiorito.

“Siamo arrivati.” Sentenziò l’ispettore, fermandosi. “…in questura” Evidenziò l’ovvio il ragazzo, ma l’altro non disse nulla per un po’. Semplicemente lo guardò negli occhi, al di sotto della visiera del cappello.

Daisuke sorrise. Sperò che quell’uomo non fosse il tipo di ufficiale che si innervosisse a causa di qualche sorriso: in giro per quella città c’era davvero molta gente insensibile alla buona educazione, o al buon’umore. Non sortì alcun effetto, né positivo né negativo: “Non sembri molto forte. Spero che almeno quei quattro gorilla siano d’aiuto, potremmo richiedere un po’ di forza fisica.”

E nel mentre il ragazzo inarcava un sopracciglio con fare confuso, quattro piedi batterono sul terreno e quattro mani vennero portate alla tempia in saluto militare. I quattro individui che ora si erano posizionati come i vertici di un quadrato attorno a Daisuke, erano sull’attenti con massima professionalità.

“Calmi, ragazzi…” Li punzecchiò lui con un tono che voleva essere scherzoso, ma in realtà colui che voleva più mettere a suo agio era se stesso: -Che vuol dire “servirà un po’ di forza fisica”? Dobbiamo per caso ritirare qualcuno di pericoloso, che addirittura si ribellerebbe a degli ufficiali?- Di colpo quella mansione che lo aveva strappato alla sua mattinata passata a cucire in ufficio, si era rivelata più curiosa di quanto avrebbe aspettato.

Entrarono in questura e subito individuarono l’obbiettivo del loro lavoro. Era seduto su di una panca accanto alla porta, con un polso sollevato e tenuto fermo al muro grazie ad una manetta ed un gancio. La sua testa era riversata all’indietro contro il muro: in questo modo un grosso ciuffo che scendeva lungo la faccia, più altri dei suoi lunghi e spettinati capelli viola, gli sfioravano la bocca spalancata ed intenta a produrre dei gracchianti quanto cavernosi suoni. L’ispettore tirò un calcio al di sotto del suo culo, smuovendo tutta la panca e ponendo fine al sonno, nonché al russare, di quell’individuo.

Esso impiegò all’incirca venti secondi prima di svegliarsi del tutto. Strabuzzò gli occhi, raddrizzò la schiena e solo allora il suo corpo parve mettersi in tensione. I peli delle sue braccia si rizzarono, e subito dopo iniziò a scuotere gli arti: il braccio destro, unico scoperto a causa della casacca smanicata solo per metà, aveva la stessa circonferenza del busto di Daisuke.

Poi si accorse anche della manetta: “Oh no… un’altra volta” si accarezzò il polso, un po’ livido, e sbadigliò rumorosamente guardando negli occhi l’ispettore “e tu che vuoi?”

“Ubriaco in orario di lavoro, al punto da farti mettere al fresco per una notte neanche fossi un alcolista.”

“Io sono un alcolista.”

“Tu sei Thrax Umbral, soldato semplice sotto la linea del Generale Dimaria.” Rispose semplicemente l’altro con un tono che andava dallo sconsolato all’esasperato. Dovette poi firmare dei documenti per il rilascio, lasciando spazio al biondo di interagire con la sua nuova malaugurata conoscenza.

“Zefiro.” Daisuke inclinò la testa di lato, stando di fronte al ragazzo che dimostrava qualche anno più di lui, praticamente un uomo. “Sento questo nome altisonante da cinque anni ormai, e sinceramente pensavo appartenesse a qualche comandante o generale. Invece, quando mi sono arruolato ho scoperto essere il nome guadagnato in una campagna militare da un soldato semplice.”

“Bella storia.” Thrax spaccò la manetta con l’ausilio delle dita della mano libera. Lo scoppio dell’acciaio fece trasalire il ragazzo, ma non parve impensierire quelli che lavoravano in questura o l’ispettore. “E tu chi sei?” un po’ di sangue scorreva da sotto le dita e dal polso della mano precedentemente ammanettata.

Siccome non poteva che risultare divertito da un comportamento così imprevedibile, il biondo sorrise per poi portarsi una mano al petto: “Il mio nome è Daisuke Shirokan, ma puoi chiamarmi Shiro.”

“E tu allora chiamami Zefiro, e scordati l’altro nome… non lo sapete nemmeno pronunciare in ‘sto paese.” Alzandosi e troneggiando di venti centimetri buoni il suo interlocutore, il ragazzo dalla lunga cascata di capelli viola spalancò gli occhi. In quelle iridi color avorio era riflessa tutta la figura minuta di Daisuke, con il suo viso angelico ed i suoi occhioni entusiasti. Tuttavia Thrax non sembrava interessato a far conoscenza.

“Hai un Tesoro Oscuro con te.” L’aveva percepito con l’istinto di un animale selvaggio, e come tale spalancò le fauci famelico “Dammelo.”

“Temo di dover rifiutare l’offerta, Signor. Zefiro. Ci sono molto legato.” La risposta del ragazzo fu immediata quanto schietta, per quanto arrossì sulle guance e si rigirò gli indici con fare imbarazzato. L’altro però non dovette nemmeno aspettare di sentirla tutta, per scattare con una mano in direzione del suo collo.

Il suo polso però venne abbassato improvvisamente da un rapido colpo, come una steccata, e ritirò la mano. Aveva fatto in tempo a notare i quattro uomini che ora si era frapposti tra lui e Daisuke, tutti con le mani raccolte dietro la schiena, ma non per questo in riposo.

“Ragazzi, non dovete…” Provò a mormorare il biondo, appoggiandosi alle spalle dei suoi accompagnatori, ma non ci fu verso di smuoverli. “Mi mettete in imbarazzo! Sono sicuro che il Signor. Zefiro non aveva intenzioni cattive.”

“Vi voglio strappare le braccia, bastardi!” Rise divertito Thrax, con una luce maligna negli occhi. -E non mi contraddire subito, però! - Sbottò internamente Daisuke, prima di vedere il viola balzare in avanti.

“Chi sono, le tue guardie del corpo? Paparino e mammina ti hanno messo gli accompagnatori per non farti perdere?!” Pur mentre sferrava selvaggiamente dei colpi verso i quattro uomini, balzando a destra e a sinistra con una posa curva in avanti come una scimmia, il soldato riusciva a divertirsi prendendo in giro l’innocente ragazzo.

Contro ogni sua previsione, però, la difesa di quei tizi era impenetrabile. “Niente del genere: Silvestar, Julius, Androste e Larriat sono miei amici prima di tutto.” Con movimenti semplici, a volte meccanici e a volte fluidi come l’acqua, sapevano respingere fuori dalla loro zona di controllo i colpi dell’aggressore. I loro occhi, nascosti dietro una maschera circolare con un disegno diverso per ciascuno di loro, si muovevano in tutte le direzioni per coprire un campo visivo di trecentosessanta gradi. “Ed in più sono apprendisti all’Accademia di Difesa e Protezione di Vistarion, nel corso per diventare bodyguard di cariche importanti. Sono molto bravi, io continuo a dir loro che potrebbero tranquillamente lavorare a palazzo imperiale.”

Dopo quell’ultima affermazione Daisuke si lasciò scappare una risatina. A quella genuina quanto positiva dimostrazione di affetto e fiducia, uno dei quattro si voltò appena verso il suo amico, e arrossì da sotto la maschera: “Oh, Shiro… non dovevi…” ma Thrax lo investì in pieno volto con un drop-kick, ululando per l’euforia.

“No! Julius!” Strillò Daisuke, vedendo il suo amico venir spedito contro una parete mentre gli si riempivano gli occhi di lacrime. Ora era stata aperta una fenditura nella difesa dei bodyguard, ed il viola si rialzò da terra leccandosi le labbra. Era pronto a saltare alla gola della sua preda.

Per questo, fu sorpreso più di tutti i presenti quando proprio chi lui voleva raggiungere, gli andò incontro con sfrontatezza e determinazione. Daisuke si aprì lo zaino che portava alle spalle, e ne tirò fuori: “Ecco Teddy!” gli spiattellò davanti alla faccia un orsacchiotto di peluche grande quanto un cucciolo di cane, tenendolo sollevato da sotto le braccia.

Teddy aveva il “pelo” riccioluto di un marrone un po’ scolorito, tendente al rosa pallido, coperto per la maggior parte da un mantello, portato sopra una giacchetta con un farfallino, ed un cilindro in testa. La presenza di stelline bianche sul blu scuro richiamava certamente l’estetica dei prestigiatori.

La prima reazione di Thrax fu di allontanare istintivamente il volto, un volto ormai contratto dalla confusione per il modo strano in cui stava recependo lui stesso quel pupazzo: gli emanava vibrazioni negative, e sentiva di non poterci mettere assolutamente le mani sopra.

“E adesso, se non ti dispiace, devo andare a vedere come sta il mio amico che… tu hai ferito.” Senza lasciar trapelare nessuna evidente emozione, Daisuke si voltò e, Teddy sottobraccio, corse verso Julius assieme agli altri tre.

Il viola era ancora sotto stato di shock quando sentì una mano poggiarsi sulla sua spalla. Di norma se la sarebbe scollata di dosso, o peggio, avrebbe rotto il polso al povero malcapitato di turno, ma la pressione di quelle cinque dita gli era arrivata fino all’osso.

“Finora sono stato a guardare, ma mi dà fastidio essere ignorato.” Sussurrò l’ispettore. Inizialmente non gli fu chiaro il perché stesse parlando a così bassa voce, esattamente come non gli era chiaro cosa volessero esprimere i suoi occhi, celati com’erano dalla visiera del cappello.

“Certo, fa schifo rimanere una notte su di una panchina come un barbone ubriaco, ma c’è di peggio: ci sono tre anni anni per oltraggio a pubblico ufficiale, più tre anni per resistenza a pubblico ufficiale, più cinque anni per violenza e minaccia a pubblico ufficiale, più dieci anni per interruzione con l’aggravante di danneggiamento ad un servizio pubblico, aggravato ulteriormente siccome è un servizio di polizia. Per chi ha fatto tutto ciò è più adeguato riposare in un penitenziario, e lì nei turni di notte mandano dei secondini che sono delle vere bestie. Io non potrei dirti niente, ma visto che sei simpatico ti rivelo che una volta ho prestato servizio lì, e non vedevo torturare così dei prigionieri dalla campagna militare di due estati fa. Se ti piace bere, allora il waterboarding per ventun anni dovrà proprio gradirti… sempre che tu sopravviva.”

Finalmente riuscì a scrollarselo dalla spalla, e sbottò: “Mah, passo la violazione dei diritti dei prigionieri, grazie.”

“Non ho idea di cosa tu stia parlando” L’ispettore si calò ancor di più il cappello sulla fronte, e gli parve di vedere le sue labbra assottigliarsi in un sorriso. Sopraggiunsero Daisuke con la sua guardia del corpo dalla maschera appena incrinata e con l’impronta di due stivali stampata sopra.

“Ti ho fatto male, Julius?” Sghignazzò Thrax, evidentemente poco interessato alla condizione fisica dell’altro. La guardia del corpo si irrigidì, ma stavolta fu il biondo a frapporsi tra loro due: “Basta così!”

“Che palle, non c’è divertimento se non rispondono neanche, questi. Sembrano dei soprammobili…”

“Non dire così, Signor Zefiro: se solo conoscessi Julius, sapresti che è un appassionato di cabaret!”

“Wow, che backstory…” E mentre cercava di grattarsi la schiena con fare annoiato, l’ispettore fu di ritorno con qualcosa di lungo quanto un braccio avvolto da un panno e qualche stringa. “Non provare a sguainarla qui o ovunque senza il mio permesso. Intesi?”

Al biondo quel misterioso oggetto diede la stessa identica impressione che aveva trasmesso Teddy a Thrax poco prima, ma non si allontanò. Anzi, guardò dritto negli occhi il ragazzone e gli chiese: “Signor Zefiro, è già raro che un individuo sappia maneggiare un Tesoro Oscuro, e ad oggi non ci sono casi di persone che ne abbiano impugnati due e siano riusciti ad attingerne ad entrambi. Quindi perché volevi il mio Teddy?”

“So che non posso usarlo, non sono coglione. Volevo vederlo.”

“E, pur di vederlo, dovevi arrivare a tanto?” Indicò i quattro: “A colpire i miei amici? Perché lo hai fatto? Avresti potuto semplicemente chiederlo.”

“Tu fai davvero troppe domande, Shiro, o come ti chiami.” Irritato, il viola si portò le mani alle tempie e seguì finalmente l’ispettore fuori di lì.

 

Era un assedio o era una difesa? Questo si chiedevano entrambe le forze che marciavano tra le strade sventrate di Crocus, perché quella terra non si poteva dire appartenere proprio a nessuno. Seicento uomini erano arrivati da occidente come rinforzo all’occupazione di Alvarez, e ciò stava a significare un altro generale. Ciò stava a significare un’altra testa da prendere.

I folletti apparvero all’orizzonte, spuntando da un dedalo con apparente confusione, e questo bastò per etichettarli come nuovi arrivati: dalle loro armature lucenti parevano essere esperti della battaglia, ma non lo erano di certo di quel territorio nuovo e stretto. La guerriglia invece lei la stava assaporando sulla pelle da più settimane, e tutto di quel distretto le apparteneva come un’estensione delle sue appendici. Con i cinque sensi aveva appreso come si comportasse quel nuovo organismo sia di giorno che di notte, persino mentre tutti dormivano. -Questo corpo non dorme mai- la città era sempre brulicante di nuovi possibili attacchi -Quindi perché dovrei farlo io?-.

Un passo e poi un altro, e fu a sufficiente distanza da quei soldati mentre loro l’avevano appena individuata. Come un tuffo nel mare, la gamba portante aveva già compiuto lo slancio in avanti e lo slancio garantiva al meglio l’affondo. La superficie venne infranta e le onde si incresparono, onde di sangue e corpi.

Il peso della lancia fu travolgente come se il colpo fosse stato portato da un cavaliere a cavallo, e non da una sola donna grazie al solo ausilio del proprio braccio. Due uomini vennero trapassati all’altezza del torace, ma l’inerzia fu sufficiente per sradicare i loro torsi dalle anche. Il busto venne fatto rotare e con esso anche l’asta, usando i corpi infilzati come un maglio per disarcionare i restanti soldati: armatura gonfie di sangue dipinsero i vivi prima di sbrindellarsi nell’impatto. Successivamente fu facile terminare i corpi con dei fendenti portati con la punta acuminata, senza nemmeno dover guardare le vittime. Ormai lo sguardo era focalizzato verso il corridoio dove esse erano provenute, e dove si trovavano i loro compagni.

Quegli uomini videro così una figura grottesca, in armatura nera ricoperta da placche rinforzate color blu mare, ormai però tinte da una pioggia rossa. Il volto della donna era privato da qualsiasi calore dell’anima umana, e all’insegna della gigantesca lancia nera e dei capelli rosso vermiglio, fu quasi istantaneo ricollegarla ad un demone.

Se i soldati di Alvarez erano folletti, facilmente i soldati di Fiore erano riconducibili a fate. Però, per gente come lei, che non apparteneva all’esercito reale, questi simboli graziosi e puri non erano concessi. Si accontentò di essere la donna demone, e caricò nel vicolo mentre quei dieci uomini spaventati provavano invano a fare retromarcia, calpestandosi a vicenda.

Poco dopo, quella stessa donna sedeva sotto un portico, porgendo il braccio ad una ragazza dai capelli bianchi, con un’espressione tutt’altro che demoniaca. A dirla tutta sembrava indisposta come un bambino sul punto di fare i capricci, per quanto lei non fosse affatto tipa da lamentarsi esternando il suo disagio.

“Edra, hai di nuovo seminato i tuoi uomini mentre affrontavi il nemico. Dovevamo difenderci, non spezzare le loro linee!” La stava rimproverando Rea Halfeti, investendo temporaneamente il ruolo di medico per curarle uno squarcio sull’avambraccio sinistro, e che fortunatamente non aveva raggiunto il radio.

Si era evidentemente fatta scudo nuovamente utilizzando l’armatura del braccio libero, dopo essersi scoperta il fianco durante un attacco. Non importava quanto questo le venisse rimproverato, lei rispondeva sempre allo stesso modo: “Non posso rischiare una protezione più efficace” alludendo al potere del suo Tesoro Oscuro e agli effetti collaterali che avrebbe subito.

“Che fine hanno fatto?” Domandò Edra Star, con tono piatto e non battendo ciglio mentre la ferita veniva disinfettata.

“Si sono uniti ai miei nelle retrovie. Dovevamo respingere un’ondata ancor più numerosa al confine opposto a dove ti trovavi tu…” l’albina fece una breve pausa, come se stesse riprendendo fiato “… alcuni sono morti.”

Quel dettaglio, la perdita di qualche soldato semplice al fronte di un’ondata di diverse decine di nemici respinti in una mattinata, pareva intaccare parecchio l’umore di Rea. E, anche se si degnò dei suoi soliti silenzi, anche Edra non ne fu indifferente: notarlo era difficile, ma i suoi occhi tristi si riempirono di colpa.

“Non sono degna di essere una capitana.” Sentenziò, non ammettendo repliche.

“Edra… è un ruolo nuovo per te, ed io ti ritengo una persona adatta perché…” Ma non solo non le ammetteva, parve proprio sorda a qualsiasi tipo di protesta. Attese finché il medicamento fosse terminato, dopodiché si alzò in piedi e gettò un’occhiata al Tesoro Oscuro che aveva appoggiato ai suoi piedi.

-Migliorare come soldato. Migliorare come persona al comando. Migliorare per non dover dipendere dagli altri e per non essere un peso per nessuno. Migliorare per non prendere la decisione giusta troppo tardi.- Migliorare “per non morire” non era nel suo elenco, perché piuttosto c’era: -Migliorare per non fallire-.

Una saggia giustapposizione di termini, facili da ricordare, e che si ripeteva ogni volta come un mantra per non dimenticare, ma per migliorare e basta.

-Ma se il meglio è l’aspirazione di ciascuno di noi, perché anche persone oggettivamente migliori di noi in battaglia muoiono?- La risposta più ovvia a quel quesito era che forse non per tutti migliorare era il fine della propria vita: per questo motivo, Edra si era sempre promessa di non distrarsi mai da quel fine ultimo.

“Tu non sei una capitana.” Disse disinibito un giovane in avvicinamento. Il sole calante gli illuminava i capelli biondi, rendendolo così scintillante da vanificare i suoi sforzi di coprirsi l’armatura con un largo mantello impellicciato. Occhi freddi come i ghiacciai che aveva visto da piccolo nelle sue terre, e dal gelo altrettanto pungente, andarono finalmente a scuotere in maniera più visibile la donna.

“Questo rango è solo per i militari dell’esercito. Noi siamo mercenari, nelle nostre fila ci sono da contadini a mercanti raffazzonati, o orfani di guerra che cercano vendetta: è difficile per gente come loro anche solo capire delle tattiche militari, quindi non capisco che senso abbia rispettare dei ranghi che non ci appartengono.”

Le sue parole risuonarono nella piazza deserta mentre i pugni della donna si facevano sempre più stretti, come se stesse impugnando un’arma a costo della sua vita. Alzò la testa, ed il suo viso avvampò.

“Non saremo militari, ma se Rea mi ha dato il comando di una gruppo di uomini, io devo ricoprire quell’incarico, e lo farò finché morte non sopraggiunga.”

“Ma se morirai quei soldati che ti ha affidato potrebbero morire proprio a causa tua. La morte è quindi per te una scappatoia?”

Edra avanzò. Qualsiasi persona sana di mente sarebbe scappata alla vista di quella altissima donna dai capelli infiammati e con un volto oscurato dalla rabbia, ma Ilya non lo fece.

“Allora?” Anzi, rincarnò la dose.

“No, Ilya. La morte è qualcosa che una persona deve accogliere quando è sicura di aver dato tutto… ed io non voglio che dei soldati sotto la mia responsabilità muoiano perché io credo di aver dato tutto, mentre loro sono ancora nel pieno delle loro capacità e non si aspettavano di avere una capitana così irresponsabile.” Le parole fluirono liberamente, e nonostante il tono apologetico, la dinamicità della sua risposta fu come se avesse accettato una sfida lanciatale dallo stesso Ilya.

Il biondo sorrise: “Non morire mai, e non lasciare morire i tuoi uomini, per favore. Altrimenti non si penserà solo di te come un’irresponsabile, ma anche di me che sono il tuo braccio destro.”

“Anche questo è un ruolo militare, ma che tu hai scelto di ricoprire.” Gli fece notare dalla distanza Rea, contenta di aver assistito ad un dialogo che lasciasse esprimere al meglio la sua amica. Nessuno di loro era privo di rancori o segreti, e la paura della morte sempre più incombente, se repressa, poteva trasformarsi in pericolose quanto azzardate filosofie di vita.

Il ragazzo sorrise. Nonostante avesse l’età di Rea, riusciva a parlare sia a lei che alla sua capitana, di cinque anni più grande, con la stessa disinvoltura: “Sembra che i titoli che ci vengono attribuiti per convenienza assumano significato solo nel momento in cui scegliamo come calzarli. D’altronde, anche se non si sceglie cosa si fa nella vita, si è responsabili di ciò che si è.”

Ma nessuno ebbe occasione di sentire la spiegazione di quella sparata tanto saggia. Il sibilo di qualcosa che sfrecciava in aria velocemente ed un trambusto che scosse la terra avrebbero coperto qualsiasi suono.

La vista di Edra venne coperta da una massa bianca che la scartò di lato, ma quando si voltò per preoccuparsi di Rea non la trovò. Al suo posto, o meglio, davanti a lei c’era quello che sembrava un macigno di spesse fibre bianche e setose, nel quale si era appena spezzata una freccia. Il macigno si spostò, rivelandosi essere la sproporzionata coda pelosa di un grosso lupo, alto almeno quanto l’umana che aveva protetto.

Il sorriso che assunse ora Ilya fu più soddisfatto del precedente, ma con un bagliore sinistro negli occhi che tendeva verso la perfidia: “Finalmente l’abbiamo preso!” festeggiò, guardando nella direzione dove era stata scoccata la freccia.

Un arciere rimasto troppo stupito per ritornare a nascondersi sul balcone dove si era arroccato, percepì immediatamente l’intento omicida dei tre soldati avversari, e scappò lanciandosi l’arco alle spalle. Nessuno dei suoi piedi toccò più terra dopo il primo passo, siccome una corda era piovuta dal tetto soprastante per catturargli il collo: sparì senza poter nemmeno lanciare un urlo.

Un istante dopo venne trascinato, legato e imbavagliato, da una figura che definire eccentrica era quasi un eufemismo: coperto interamente da uno stretto vestito di cuoio con sopra un’uniforme di cotone altrettanto scuro, tipica delle arti marziali, e persino in volto da una maschera nera che gli arrivava fino alla punta del naso. Tutto ciò che era rimasto scoperto erano due occhi lilla e dei capelli legati in una coda alta, comoda per gli spostamenti, di un colore tenue simile a quello delle sue iridi. I suoi particolari geta di legno risuonavano senza far rumore nella strada, cosa impossibile per chiunque, ma evidentemente non per lui: accertarsi che fosse un lui era difficile, coperto com’era.

“Grazie, Wolfie.” Disse Rea, accarezzando il muso del lupo.

Eppure i lì presenti lo conoscevano fin troppo bene.

“E grazie anche a te, Jun!” Rivolse un sorriso al ragazzo nel momento in cui lui aveva posato una mano sull’animale, rivestendolo in una luce abbagliante. Quando fu possibile tornare a vedere, ora nella mano stringeva un peluche, una buffa caricatura nonché unico rimasuglio del lupo di poco prima.

“No! Grazie solo a Wolfie!” Quella vocetta accompagnò delle movenze abbastanza comiche del pupazzo.

“Siete due sciocchi ad aver messo a rischio la vita di Rea.” Edra non aspettò nemmeno un secondo per rimproverare quei ragazzi, ma Ilya si dimostrò sicuro di sé per liquidare la predica.

“Con questo esploratore catturato e che Jun ha spinto fin qui, possiamo ottenere informazioni sulle nuove unità nemiche sopraggiunte stamattina.”

“Come ho detto: due sciocchi, cretini, imbecilli.”

“Ma perché stanno aumentando gli insulti?!” Ad interrompere il biondo fu l’arrivo di una figura che i quattro mercenari non vedevano da un paio di ore.

Rea corse incontro al Capitano figlio di uno dei più grandi generali di Fiore, il quale era fradicio, se non proprio zuppo come uno straccio intinto in un secchio, di sangue ancora caldo o incrostato sull’armatura.

“Florence! Anche tu sei uno sciocco, cretino, imbecille, folle, pazzo in cu…” Un gesto della mano del rosso bastò a fermare lo sproloquio, dopodiché lui prese fiato e si sedette di peso per terra. Non ci volle molto prima che gli uomini al suo comando, più quelli di ritorno appartenenti a Path of Hope, si radunassero lì attorno.

I soldati di Florence Vellet ed i mercenari sotto la custodia di Rea combattevano insieme da anni, indice di quel baluardo di solidarietà che era sempre esistita a Fiore tra l’esercito e le gilde votate al bene del Regno.

Quell’equilibrio però, nel macroscopico mondo circoscritto dal comando della Regina in cui vivevano, era prossimo a spezzarsi. Questo Florence lo sapeva, l’aveva origliato da suo padre e da Makarov, ma proprio come Seboster Vellet non era pronto a dirglielo, lui non si sentiva pronto a rivelarlo a quei suoi compagni.

“Come va?” fu di una banalità sconcertante, e come ci si sarebbe aspettato l’albina inarcò un sopracciglio.

Erda ed Ilya procedettero a fare rapporto, mentre in disparte il ragazzo chiamato Jun giocava a pizzicare la faccia del soldato prigioniero con il suo pupazzo Wolfie.

“Abbiamo contato i morti e sono circa centodieci. Con i vostri sono centoottanta. Abbiamo avuto una giornata movimentata, considerando che siamo ad ora di pranzo.” Florence sembrava sempre sul punto di scherzare, ma raramente l’ironia era qualcosa che faceva volontariamente.

“Il morale delle truppe si deve essere alzato dopo aver sentito parlare dei rinforzi.” Riportò lo stratega biondo, venendo allora interpellato dall’uomo: “Ma quindi sono arrivati questi nuovi soldati?”

“Sì certo, nelle ultime due ore. Voi non li avete incontrati?”

Il rosso si prese il ponte del naso tra le dita, riflettendo: “No… sul lato meridionale non si sono spinti, nonostante lì ci fosse una base nemica scoperta di recente. Questo vuol dire che hanno dei piani ben precisi sull’attacco, e che i nuovi arrivati con le idee chiare prendono ordini da qualcuno giunto direttamente da Alvarez con il solo scopo di annientarci.”

“Stai forse dicendo che non hanno strategie?” Rea sembrava quasi offesa da questo dettaglio, sentendosi sottovalutata dall’avversario, e si aspettava che proprio questo dettaglio avrebbe infastidito maggiormente Florence. Eppure in quel momento il rosso era distante anni luce, lontano dal suo stesso orgoglio.

“Delle piccole invasioni sparse sono una sorta di strategia, ma… non mi sento di dire che questo è l’inizio di una guerra di logoramento. Si tratta del più grande numero di rinforzi che mandano da mesi, e nessuno degli esploratori che mandiamo nei loro territori fa ritorno per spiegarci meglio cosa abbiano intenzione di fare. Io, anzi noi, non possiamo permetterci di perdere altri soldati.”

Rea avrebbe voluto parlare: parlare del silenzio di suo padre, rinchiuso da giorni in quella caserma, e avrebbe voluto parlare dell’arrivo di Makarov e di parte delle sue fate, che tuttavia non avevano portato sufficienti rinforzi al loro esercito. Eppure aveva il sospetto che Florence non volesse parlare di quei due temi, perché erano proprio questi la causa dello stato alienato in cui si trovava ora. Occhi fissi nel nulla e mente troppo appannata dalle preoccupazioni per avere il coraggio di alzarsi: tutti i suoi uomini lo stavano guardando dal basso verso l’alto un capitano, rinomato per la sua fierezza, piegato in ginocchio e che parlava con voce flebile.

“Forza!” Era proprio il caso di urlare qualcosa, di dare aria alla bocca, e così fece. Inevitabilmente lo sguardo di tutti si diresse su di lei: “Che sia la disperazione o che sia la loro superbia, quest’ultima ondata di rinforzi vuol dire solo una cosa: se riusciremo a sbaragliarli stavolta, sapranno per certo che abbiamo resistito al loro peggio. Pensano che la fine sia vicina? Bhe, lo penso anche io, ma saremo noi in persona a dire queste parole nelle loro facce quando li avremo sconfitti!”

Sopraggiunse un boato, l’ennesima conferma dopo tempo in cui ricopriva quel ruolo, che la ragazza possedesse proprio una voce adatta a sbraitare per motivare le truppe. Persino i suoi tre fidati, seppur non esultando ad alta voce, le riservarono un piccolo sorriso speciale colmo di orgoglio.

“Pensi ancora che non abbia senso rispettare dei ranghi che non ci appartengono, di fronte ad un capitano così?” Domandò schietta Erda ad Ilya, volendolo cogliere in flagrante. Ci riuscì abbastanza bene, facendolo ridacchiare imbarazzato.

 

“Dopo aver comunicato ai suoi domestici di starsi dirigendo alla magione di God Serena, a mezzanotte, Lady Dimaria non è più stata vista rincasare.” Il tramonto era ormai giunto quando i tre si trovavano alle porte della gigantesca villa dello Spriggan 12. “Allo stesso modo, di God Serena e dei suoi domestici non si hanno notizie da ieri.” Non c’era bisogno di entrare per capire come quel posto non mostrasse segni di vita, ma solo un inquietante silenzio.

Thrax si trattenne dal parlare a vanvera e persino di sfottere i quattro bodyguard di Daisuke durante il tragitto all’interno della magione, obbligatoriamente guidati dall’ispettore. Ora proprio la presenza di quella persona aveva un senso. Il viola non si sentiva la persona più adatta a delle indagini su persone scomparse, e non aveva idea se invece Daisuke lo fosse, ma non gli ispirava alcuna fiducia: questo però non poteva essere l’unico a pensarlo. -Quindi perché proprio noi?-

Quando ebbero avuto modo di attraversare l’enorme sala da pranzo, nonostante i pensieri confusi che lo facevano solamente incazzare, si lasciò sfuggire un: “Il tappeto qui è stato cambiato.” Persino un idiota lo avrebbe capito, ma dal modo sorpreso in cui il biondino lo squadrò, capì di doverlo spiegare.

“Non c’è molta polvere sopra, specialmente sotto il tavolo e le sedie. E, se noti, c’è anche un piccolo bordo senza polvere ai suoi lati: questo perché è stato tolto il tappeto di prima, che copriva un po’ di più il pavimento lungo quei lati. Se la casa è rimasta disabitata, diciamo da mezzanotte, con tutte le finestre e porte chiuse, non poteva esserci un altro accumulo di polvere.”

“Perché cambiare il tappeto?” Gli chiese allora il ragazzo, ma stavolta non rispose.

Non perché non lo sapesse, ma perché non voleva dirlo. Guardò fisso davanti a sé quel tappeto sostituito, quell’inganno, atto a celare…

“Le opzioni sono: o un omicidio…” scandendo bene quell’ultima parola, l’ispettore li richiamò alla cruda realtà con un brivido “… o un rapimento! Non possiamo saperlo per certo, ma non possiamo neanche dare per scontata la sconfitta di due dei più forti generali di Alvarez.”

“Non possiamo saperlo per certo?” Thrax decise di fermare quella corsa insensata in cui era stato trascinato, ed il mondo parve fermarsi al suo comando. Non poteva accettare di venir sballottato a destra e a manca in un mare di bugie. “Questo modo di parlare è strano, per qualcuno che è appena sopraggiunto sul luogo. Forse tu hai già ispezionato la zona… ma allora perché portarci qui e farci cercare indizi, come il tappeto, che a quanto mi pare di capire già conoscevi?” Vide il sorrisetto al di sotto della visiera dell’ispettore allargarsi, mentre lui stesso gli si avvicinava a passi pesanti.

Una mano sul suo colletto, e quell’uomo non troppo pesante fu sollevato ad altezza del suo viso: “Volevi fottermi per caso? Perché se è così tra due secondi sarai un uomo morto!” sentì prima una mano di Daisuke sulla spalla, e poi quelle quattro delle sue guardie del corpo, ma niente riuscì a scollarlo di lì.

“Perché cazzo stai sorridendo?!” Sbraitò, facendo piovere saliva sulla faccia dell’uomo sorridente.

“Perché sei meglio di quanto mi aspettassi, e non solamente un ubriacone bravo a far risse. Sei esattamente la persona che il Generale ammira, e quello che fa per lei.”

Quella risposta così spiazzante fu sufficiente per far ammutolire tutti, ed inavvertitamente la presa di Thrax si allentò.

“Parlo del Generale che vi ha convocato qui per questa investigazione. Seguitemi e tutto sarà più chiaro.”

E, senza aver alterato il suo tono di una nota, li guidò verso un percorso del tutto nuovo.

“Perché l’hai fatto?” Domandò Daisuke al viola mentre si incamminavano, entrambi incuriositi.

“Ehi, Shiro! Non ricominciare con queste domande!”

“Signor Zefiro, stammi a sentire: non puoi alzare le mani su chi ti pare. Se quella persona fosse stata uno di grado più alto del tuo ti avrebbero mandato alla gogna, se non in prigione.”

“Se fosse stato?” Ripeté l’altro, lanciando un’occhiata confusa al biondo, il quale stava giocando con la ciocca rosa per scostarsela da davanti agli occhi.

“Sì. D’altronde mentre ci guidava per strada ha scelto dei percorsi troppo lunghi, e chiunque lavori nella polizia di Vistarion sa quali sono le scorciatoie, ergo non poteva essere davvero chi diceva di essere.” Il biondo si fermò a riflettere: -Aspe…! Ma quindi non sapeva che non fosse un vero ispettore e gli ha comunque…!?-

Ben oltre il giardino circondante la villa, c’era un percorso labirintico tra cespugli finemente curati per comporre un labirinto naturale tra statue ed esposizioni artistiche, “Che cagate” commentate così da Thrax. Al termine di quel dedalo si trovava uno spiazzo conosciuto solo a God Serena stesso, ai suoi domestici e agli ospiti più graditi: un parco con delle vigne, un’enorme piscina centrale atta a simulare un lago, ed un cottage a ridosso del muro di pietra che cingeva quel piccolo spazio di paradiso. Siccome quell’area si trovava in una vallata sul fianco discendente della montagna, per loro fu possibile osservarla dall’alto mentre vi ci entravano. Una curiosa figura vicino alla casa faceva qualcosa di non ben specificato.

“Che meraviglia!” Sospirò estasiato il ragazzo biondo, respirando a pieni polmoni un’aria così pure che gli ricordava l’infanzia. I vigneti a Vistarion non c’erano, e tantomeno cigni, tartarughe e carpe. Quegli animali scivolavano liberi sopra o sotto la superficie dell’acqua. Si trattava di specie provenienti da altri territori, le quali non entravano in conflitto tra di loro a causa di particolarità genetiche che le rendevano avverse al cibarsi le une con le altre. Quel luogo era un universo di armonia e pace.

“Ti piace ‘sto posto, Shiro?” Gli domandò l’altro. “Sì, è molto carino. Il Generale God Serena ha davvero un ottimo senso estetico, avendolo creato sotto ispirazione delle campagne di…” ed iniziò ad elencare particolari di altri paesi, che tuttavia non aveva mai visto, ma solo letto nei libri.

Raggiunsero colei che si trovava davanti alla porta chiusa della casa, ma che non era interessata ad entrarci. Era in piedi, e a volte con le ginocchia piegate, alternando quei piegamenti con il sollevamento o l’abbassamento di un bilanciere sorretto da entrambe le sue mani. Quell’esercizio permetteva a tutti di vedere il suo corpo slanciato e tonico, parzialmente lucido alla luce del sole, facendo tendere i suoi polpacci al di sotto di leggins neri elastici, e lasciando intravedere una schiena muscolosa quando la sua maglietta leggera grigia si sollevava. Ad una vista del genere, qualcosa si attivò in Thrax: un impulso nel cervello, un afflusso di sangue in un punto preciso del basso ventre.

“Ehi, se continui così ti puoi fare male…” Disse mellifluo, avvicinandosi alla donna di spalle. Sentì il profumo dei suoi capelli corti e rossi, un po’ sudati per l’esercizio, ed affondò una mano sotto la maglietta per stringere il seno: “Perché non lasci stare quell’arnese e ti becchi un po’ di amore?”

Ma le cose non andarono come si aspettava: inizialmente fu contento di aver stretto un seno grande, tra i più grandi che avesse mai afferrato, ma si ritrovò sorpreso scoprendolo particolarmente duro, come un pettorale in tensione. Successivamente, il peso del bilanciere venne scaricato su di una sola mano, e con una parabola discendente lei lo lasciò cadere al suo fianco. L’arnese non pareva troppo pesante a vederlo, ma quando cozzò contro il terreno scosse la terra in un breve terremoto, lasciando come testimonianza delle crepe tra le zolle di terra.

“Non c’è tempo per l’amore!” Rise lei con un vocione entusiasta, seppur abbastanza giovane, e rapidamente mosse una mano in direzione del cavallo dei pantaloni di Thrax. Strinse. Forte. Il viola impallidì, strozzandosi. “Contano solo i muscoli nel mondo!”

Poi ci pensò un po’ su, riflettendo con un indice sulle labbra: “E la conquista. Già, niente di meglio di radere al suolo un villaggio dopo aver fatto arrendere i suoi abitanti! Un bell’eccidio pomeridiano, e si va di compilare falsi rapporti di guerra.” ignorò persino le spinte con le quali il ragazzo stava cercando disperatamente di sottrarsi a lei, ormai boccheggiando e sudando copiosamente.

“Lascialo, Julia.” Ordinò l’ispettore (?).

“Mi spiace, io prendo ordini solo dal Generale.” Sorrise sorniona la ragazza, e risuonò nitidamente lo schiocco delle sue nocche, segno che avesse rafforzato ancor di più la presa. Thrax avrebbe voluto accasciarsi a terra, ma non ci sarebbe riuscito comunque da quella posizione.

“Lascialo, Julia.” Ribadì allora un’altra voce. La reazione della rossa fu istantanea, facendo capitombolare il viola all’indietro. Daisuke corse a soccorrerlo, mentre alle sue spalle i quattro ridacchiavano nascosti dalle loro mani, ed intanto il falso ispettore si lamentava di quel teatrino sciocco.

Fatto sta, che chiunque avesse parlato per ultimo fece la sua apparizione da dietro il cottage.

Era una ragazzina, o meglio, pareva la versione ridimensionata di un generale di guerra, o persino un travestimento da bambini. Un travestimento davvero costoso, però. Una larga cappa, più grande di lei e che per l’appunto strisciava sul terreno, le era appoggiata sulle spalle, con le grosse maniche penzoloni ricadenti lungo i fianchi. I colori predominanti nel suo vestiario erano il bianco ed il viola, ma la serietà delle medaglie e stemmi che la adornavano mal si sposavano con il grosso cappello cilindrico dal quale spuntavano delle orecchie da coniglio bianche. Esso era appena poggiato sul capo, dai lunghi capelli neri con sfumature indaco, con due ciocche che ricadevano lunghe fino alla gonna lilla e voluminosa.

Heill Alvarez! Mi presento: sono il Generale, nonché Stratega Imperiale, Amasia Proxima. Sono al governo da quindici anni, uno in meno rispetto all’Imperatore Zeref, ed ho partecipato alla conquista ed annessione di cinquantasette paesi durante questa era. Le mie passioni sono la cucina, allenare le truppe, lo shibari e le battaglie! Anche se sono molto giovanile, ho più anni di quel che sembra. Spero di farmi tanti amici.”  Era arrossita nel corso di quell’abominevole presentazione, segno che non fosse proprio priva di pudore di fronte all’enorme confusione che aveva generato nei presenti.

Persino chi quella presentazione se l’aspettava, come il finto ispettore, rimase interdetto, mentre Julia applaudiva un po’ confusa. Al contrario, Daisuke e Thrax erano rimasti distratti da un dettaglio allarmante: quella bambina, pur parlando in modo impacciato ed arrossendo per l’imbarazzo, sgorgava come un fiume in piena una fitta coltre di intenti omicidi. Ciò non aveva senso, perché non sembrava intenzionata ad attaccare nessuno, eppure pareva sul punto di star puntando uno di loro per poi ucciderlo un istante dopo.

Notando come i ragazzi fossero rimasti all’erta, fu proprio la somma carica al di sotto dell’Imperatore a rassicurarli: “State calmi ed abituatevi a questa sensazione. Respirate a pieni polmoni e cercate di concentrare i vostri occhi su di me. Fissatemi, fissatemi, fissate lo sguardo…” in quella specie di ipnosi, spalancò i suoi occhi rosa corallo, come se potesse inglobare entrambi i soldati semplici.

Si trattava di qualcosa che Thrax aveva provato in battaglia, sommerso dal sangue e dovendo scavalcare corpi di nemici e di alleati pur di non venire sommersi, pur di non vedere il cielo dove volavano stormi di frecce venirti privato del sole. Per questo non riusciva a spostare la mano dall’impugnatura della sua Grecale. Era tornato di colpo sul campo di battaglia.

Gli effetti positivi del rilassamento vennero percepiti per primo da Daisuke, il quale si ricordò di quando aveva dovuto affrontare le sue prime pattuglie notturne a Vistarion nel periodo in cui un pericoloso serial killer si aggirava per le strade. Guardando nei vicoli, divenuti come tanti abissi, gli pareva di evocare paure e terrori, fin quando non si ricordava delle poche certezze alle quali poteva aggrapparsi. Teddy era una di queste: strinse l’orsacchiotto tra le mani, e trovò il coraggio di guardare negli occhi quella donna.

La coltre mortale si offuscò sempre più ai bordi dei loro occhi, e le intenzioni di Amasia furono più chiare. “Siamo qui per tua richiesta” Ipotizzò Thrax, vedendosi annuire. “Perché?”

Lei rispose sorridente: “Per invitarvi a cena” e schioccò le dita. La porta alle sue spalle si spalancò, ma se ne trovava subito dopo un’altra, la quale fece lo stesso per proiettare finalmente gli occhi degli spettatori su di una sala da pranzo.

Il tavolo era imbandito di così tante pietanze che era quasi impossibile stabilire un ordine di partenza per un elenco: si andava da patate ripiene di burro e bacon a brodo di barbabietole nere con carne di montone e pepe rosa galleggiante, una ghirlanda di vongole tinte di verde dalla salsa al basilico e all’alloro, carpaccio di balena con tempura di calamaro gigante, paella con riso di diversi colori e di diversa provenienza, uovo in camicia adagiato su bistecca di manzo ed avocado, con accompagnamento di decine di liquori composti dai più svariati tipi di frutta, vini secchi invecchiati di diverse stagioni e birre aromatizzate. Il limite per quel banchetto era solo l’occhio umano, e ovunque l’occhio umano guardasse su quel tavolo vedeva bellezza.

Tuttavia la tavolata ospitava già dei commensali, tagliati via dal mondo da una coltre di penombra che infittiva ancor di più il mistero di quell’organizzazione meticolosa dell’evento. I due figuri voltarono lo sguardo verso l’esterno, ed in lontananza i loro occhi brillarono minacciosi. Passò qualche secondo in cui Thrax e Daisuke avevano ricominciato ad assaporare il pericolo, dopodiché quei due figuri misteriosi, semplicemente e dal nulla, risero.

Una risata femminile straziante per l’orecchio, acuta e al contempo nasale e gracchiante, ed una risata più profonda, roboante e volgare.

Con un gesto ampio ma delicato della mano, come se stesse mostrando dei fiori su di una veranda, Amasia indicò Daisuke, Thrax e Julia con fierezza.

“Loro saranno il vostro Capitano e la vostra Comandante da qui in poi. Io, ovviamente sarò il Generale.”

Il peso di quella dichiarazione schiacciò Daisuke, un semplice poliziotto della strada, più che il viola, il quale era abbastanza insofferente ai titoli, ed infatti lui stesso avanzò: “Che cosa vuoi da noi?”

“Che sopperiate all’annosa questione della scomparsa di due dei rimanenti tre membri degli Spriggan 12. L’esercito di Alvarez ormai manca di soldati forti, specialmente che sappiano padroneggiare Tesori Oscuri… al contrario di Fiore, che ne ha in abbondanza.” Il finto ispettore liberò dal suo capello una matassa di capelli blu. Il suo aspetto decisamente giovanile, forse persino più di Thrax, lasciava parecchi interrogativi, ma la Stratega intervenne prima di qualsiasi altra interruzione.

“Useremo la magione dello scomparso Generale God Serena come base operativa. Vi addestrerò personalmente e farò di voi i migliori soldati dell’Impero, così da poter attaccare Fiore e vincere questa guerra.” L’entusiasmo con cui aveva esclamato tali parole doveva senza dubbio essere coinvolgente, ma l’incertezza della situazione lasciò titubanti i due.

Notato il silenzio imbarazzante, la mora si posò un dito sulle labbra: “Volete un incentivo? Tra un mese andremo a dare supporto al team di sfondamento al confine, e lì la difesa pullula di soldati ben armati. Se mandassimo un gruppo senza Tesori Oscuri sarebbero carne da macello, mentre se mandassimo un gruppo di utilizzatori di Tesori Oscuri non sufficientemente preparati a combattere come una squadra… morirebbero comunque.” Nel pronunciare le ultime due parole l’aria attorno si era fatta di colpo gelida “e siccome ci tengo a fare bella figura con l’Imperatore, e mi è stato chiesto urgentemente di formare un’élite, non vi resta altra scelta che stare al passo!”

“Contatemi.” Rispose immediatamente Thrax, incrociando le braccia al petto. Al suo fianco, Daisuke sussultò per la scelta fulminea del compagno, siccome lui era stato colto impreparato da un onere così grande.

Dopodiché rifletté sulle ultime parole pronunciate dalla donna, quali “carne da macello” e “Imperatore”, realizzando di non essere di fronte ad una scelta, bensì ad un ordine. Non diede a nessuno dei presenti la soddisfazione di vedere come davvero la pensasse a riguardo di quella situazione, ed imitò il viola rispondendo quanto più velocemente potesse: “Anche io ci sono.” I quattro al bodyguard si misero sull’attenti, affiancandolo.

“Ma, ragazzi, voi non siete obbligati a… non avete nemmeno delle armi…”

“Non c’è problema, capisco come stanno le cose.” Amasia Proxima squadrò quegli uomini, e vide il loro la cieca determinazione costruita su di un rapporto di salda fiducia e, con grande afflizione di Sunse, cominciò a singhiozzare commossa: “L’invito è… esteso anche a voi!”

Mai uno squadrone killer era stato messo su in maniera tanto strana.

 

 

Angolo Autore:

Ciaos e welcome back! In questo capitolo sono apparsi mooolti più personaggi, spero siate riusciti a starne al passo, ma in caso contrario non preoccupatevi. Ho in mente per i prossimi capitoli di mettere all’inizio il cast completo dei personaggi importanti, così che possiate sempre andare a vedere chi sia e che faccia uno degli OC quando leggete un nome che non vi ricorda nulla.

Parlando proprio degli OC, ho riflettuto in questi giorni sulle storie ad OC con cui sono cresciuto, e del modo in cui sono stato influenzato a creare le mie. Il momento in cui fallisce (ed intendo abbandono da parte dell’autore) una storia ad OC è dato principalmente dal momento in cui iniziano a diminuire i recensori, ovvero gli stessi creatori dei personaggi. Se andate a vedere infatti ogni storia ad OC, vedrete come di capitolo in capitolo le recensioni diminuiscano, facendo perdere interesse all’autore nel continuare la storia. Piccola parentesi per chi non è mai stato autore, ma solo recensore: le recensioni contano moltissimo per un autore, e a volte anche vederne una in meno, o peggio, non avere più un recensore fidato che prima recensiva sempre può causare molta perdita di motivazione nel continuare la suddetta storia.

Detto ciò, penso che alla base del lento disinteresse di recensori ed autore in una storia ad OC, ci sia… la mancanza di interattività. Per diamine, se una persona ha creato un personaggio che partecipa attivamente nella storia, non vedo perché proprio il suo creatore debba smettere di essere attivamente partecipe!

Quindi voglio rivolgermi ai creatori di personaggi in questa storia: sentitevi liberi, magari dopo la recensione del capitolo in toto, di dirmi secondo voi come dovrebbe comportarsi il vostro personaggio in reazione ad eventi nuovi della storia (perché inevitabilmente il vostro personaggio cambia, evolve, di capitolo in capitolo rispetto a come l’avete visto voi sulla scheda). Mi raccomando però, non fatelo nelle recensioni, ma magari in risposta alla mia risposta da autore: questo perché le storie interattive svolte nelle recensioni sono contro il regolamento di EFP.

Concluso questo mio appello, sono curioso di leggere il vostro parere sulla presentazione dei vari personaggi delle due fazioni schierate, così come delle difficoltà che entrambe le parti dovranno superare.

Insomma, ci sono luci ed ombre sia a Fiore che ad Alvarez.

Parliamone insieme.

Alla prossima!

   
 
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