Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: Rossini    01/06/2021    0 recensioni
Prosegue la saga de “Le cronache dei draghi e dei re”, cominciata con “L'apprendista di fuoco” e continuata con “L'avvento dei Sette”. Il conflitto è ormai scatenato. Mentre le case nobiliari che governano l'occidente continuano ciecamente a misurarsi tra di loro, l'oriente è chiamato da solo al confronto con un nemico intenzionato ad estinguere l'intero genere umano. Sarà forse possibile sconfiggerlo utilizzando quell'antico e sopito potere chiamato magia? E al fine di utilizzare al meglio tale potere, è forse il caso che i sette maghi dell'origine vengano definitivamente annientati? È partendo da questi interrogativi di base che Constant della Casa Lannister sta infine preparando la sua guerra.
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 5

LA MORTE AL CONSIGLIO

 

 

 

Mleena Brimshey era chiaramente una assai abile arrampicatrice sociale. Trovava un buon argomento di conversazione e un sorriso per tutti e in ogni circostanza. Tuttavia, il fatto di essere in pratica l'unica altra donna a bazzicare i più stretti corridoi della corte, e che non fosse una delle sue dame di compagnia, fece orientare Hana verso un tentativo di tenersela buona. Mleena le faceva un complimento fasullo? E lei contraccambiava con altrettanta sfacciataggine. Mleena la invitava per un tè delle cinque? E lei contraccambiava con una cena insieme; e così via discorrendo. Alla fine, finirono per tollerarsi a vicenda e non starsi troppo antipatiche. L'importante – almeno a giudizio della regina – era rimanere entro quel noto confine: Mleena non era sua amica. Era una donna simpatica e piena di risorse, venuta lì per badare che Napoleon venisse su sano e forte quanto a Forte Terrore sua madre Lady Abigail lo desiderasse.

Ovviamente i momenti che passava con Mleena erano anche una buona scusa, per la regina incinta, di rivedere quel bambino sceso dal nord che lei aveva seri dubbi fosse suo nipote e, per così dire, “far pratica” con lui. In poche settimane, apprese tantissimo da Mleena su come bisognasse approcciarsi con un infante, fermo restando che lei era una signora e le mansioni meno commendevoli, dato il loro stato sociale, spettavano alle balie. Inoltre, vedersi con Mleena e lo pseudo Napoleon, fu molto utile per Hana al fine di trarre le sue conclusioni in merito al marmocchio. Quando la prima volta l'aveva visto, a una primissima occhiata, subito aveva avuto l'impressione che il bimbo non fosse chi avrebbe dovuto essere. Col tempo, forse perché semplicemente si era un po' abituata – come lo aveva fatto con la compagnia di Lady Brimshey – ai risolini, alle paroline e perfino ai primi capricci del poppante, Hana aveva cominciato ad avere minori certezze. Continuò a pensare che il bimbo forse non era Napoleon, ma non ci avrebbe più giurato e spergiurato davanti ai Sette Dèi. Ma nelle ultimissime settimane, proprio perché aveva avuto modo di approfondire ancora con più efficacia quelle conoscenze, di nuovo l'opinione della regina era andata sempre più affermandosi: il bimbo non era il figlio di suo fratello. Lord Uryon della Casa Worchester, l'orso del nord, stava facendo il doppio gioco con loro. Non era amico dei nemici di Gabryaerys, ma questo non significava che lui e Gabryaerys fossero amici. Erano solo alleati, e dalle alleanze bisognava guardarsi sempre. Potevano cambiare. Anni passati alla corte di suo padre re Lionel come suo Altissimo Segretario qualche cosa, alla giovane Hana, avevano insegnato: e una di queste era proprio che un alleato non è un amico. L'amico ti sta a fianco per sentimento, l'alleato per interesse.

Con ormai questa sacrosanta certezza nel cuore, e il dubbio infinito se, quando e come riferire i suoi sospetti al re suo marito che, fatalmente, in quella fase della sua vita, era il suo principale protettore e “alleato”, Lady Hana passò circa due mesi a riprendersi definitivamente dal periodo di prigionia a Delta delle Acque e da tutta quella brutta vicenda del duello con i Bolton e Baelish, che per un momento aveva visto la sua fazione soccombere, per poi però rinascere più forte che prima. Adesso Hana mangiava bene, era sana e florida, e tutto lasciava pensare – così dicevano i maestri e i curatori – che il suo pargolo sarebbe presto venuto fuori, pieno di vita e di salute.

Meno serena era la regina per ciò che concerneva il re e il regno. Nel senso: lei era serena, perché le cose relative alla sua vita personale e a quelle del suo futuro bambino stavano andando alla grande, e di conseguenza non si era preoccupata di altro. Mentre prima che la gravidanza entrasse in una fase così “piena”, lei aveva avuto tutto l'animo di pensare al Westeros e a Roccia del Re, ora non ci pensava affatto. Ma le cose erano andate avanti, senza di lei, e Gabryaerys non l'aveva granché aggiornata, o se lo aveva fatto, lei non lo aveva granché ascoltato. Decise quindi che era giunto il momento di tornare ad aggiornarsi un poco e pensò di fare una sorpresa al suo consorte Targaryen, andandolo a trovare nella sala in cui – s'era fatta riferire che – stava tenendo una riunione. Quello che quegli incapaci di inservienti non erano stati tanto furbi da comunicarle, era che il re non si trovava in riunione – magari – con i membri del suo Concilio Ristretto che, bene o male, Hana aveva saputo imparare a conoscere e “tollerare”, persino il più mostruoso di loro: il Primo Cavaliere dal teschio nero Lord Tararus. Il re invece era nel bel mezzo di una delicata riunione diplomatica con un nuovo ospite. Un ospite che Hana non apprezzò affatto, non appena aprì la porta della sala della riunione per sedersi accanto a suo marito. Anzi, un ospite che la fece financo trasalire...

«Mia diletta,» fece Gabryaerys accogliendola «lascia che ti introduca il mio ospite: il sacerdote Yashua». Ovviamente Hana era una giovane e beneducata donna della società più mondana, quindi certo che si sforzò a sorridere quando quel lercio monaco, secco come uno stecco di legno, le di esse di essere lieto di fare la sua conoscenza. Tuttavia la regina degli Andali e dei Primi Uomini ebbe anche la sensazione che quel sorriso finì per spezzarsi a metà mentre si stava producendo, realizzando così niente più che una smorfia. Ed ebbe anche la sensazione, Hana, che tristemente il sacerdote eretico avesse capito tutto.

«Portate nella pancia il seme di un uomo saggio e profondamente illuminato, Altezza» commentò quindi ancora Yashua «dovete esserne felice»

«Lo sono, ehm... eminenza?»

«Solo Yashua, Altezza. I titoli sono formalità necessarie in una società complessa quale quella che viviamo, ed è giusto che certi individui li portino, anche con orgoglio. Ma io non sono un amministratore di alcunché. Io porto il messaggio del dio mio padre e dunque... dareste dell'eminenza all'araldo che vi porta le lettere dei vostri cari?»

«Beh, ma voi non portate semplici lettere piene di amenità tra amiche, mi pare di capire...»

«No certo, il contenuto del messaggio è assai serio. Ma posso assicurarvi che il tipo di amore e di affetto che lo connatura non è solo simile a quello che avete citato come esempio, è superiore. Assomiglia più a quello che avete per la creatura che portate in grembo»

«Capisco»

«Questa città molto presto brillerà della luce della fede come nessun'altra al mondo, lo posso garantire. Saluti, mia regina»

«State già andando?»

«Ci hai intercettati» rispose Gabryaerys, questa volta, «nel momento esatto in cui la riunione era conclusa»

«Ma sono comunque lieto» disse ancora l'eretico, prendendo la mano della regina e baciandola, «di aver avuto la maniera di questa piacevole conoscenza». Questa volta Hana si limitò a sorridere, senza più proferire parola. Non era lieta, e non riuscì a sostenere il contrario. Per fortuna, Yashua lasciò rapidissimamente la sala, evitando così d'imbattersi nello sguardo misto di sgomento, rabbia e delusione che la regina rivolse verso il suo consorte. Gabryaerys tutto era fuorché uno stupido, e dunque passò subito alla difensiva: «Sono il re. È mio dovere confrontarmi con tutte le forze e le istituzioni che sorgono, anche autonomamente, nella città che è capitale»

«Quella non è una forza, né un'istituzione, è solo il capo di una vile banda di assassini e depravati»

«C'è chi lo direbbe anche di me. C'è chi lo direbbe di te. C'è che direbbe che Yashua sia nel giusto, così come talvolta lo dicono di noi. Purtroppo ho imparato che in politica tutto è relativo»

«Hai fatto presto»

«Sei venuta qui per qualche motivo preciso?».

Sì: Hana era andata da suo marito con tutta la voglia di condividere con lui i suoi dubbi in merito al giovane pseudo Napoleon. Aveva soppesato tanto la questione, per diversi giorni: perché sapeva benissimo che cosa avrebbe implicato. Suo marito, avrebbe cominciato a dover tenere in considerazione che quello che s'era appena lasciato alle spalle come un fedele alleato – Uryon Worchester – in realtà era un viscido doppiogiochista come troppi altri in quello sporco mondo. Ma adesso, tutt'assieme, Hana s'era pentita. Elevare a interlocutore un individuo del genere di Yashua, e senza neanche ponderare con lei prima quell'opportunità, era stato un colpo basso che Gabryaerys non avrebbe mai dovuto sferrare alla madre del suo venturo figlio. Hana era cresciuta nella fede dei Sette Dèi, e anche se non praticante quanto il suo cuore in realtà avrebbe voluto, in realtà era da sempre una media frequentatrice della Chiesa dei Sette. Era una cosa che aveva a che fare con la sua cultura più che con il suo modo di pensare alla creazione o all'al di là, o qualche dogma in particolare. Roccia del Re aderiva da millenni a quella fede, per quanto nella storia non fossero ciclicamente mancati momenti di sfiducia tra il clero e il popolo di fedeli. Forse il momento che stavano vivendo era uno di quelli, anzi: lo era sicuramente. Ma infatti, certo che una condanna a priori del culto del dio rosso, che ormai contava anch'esso centinai e centinaia di adepti tra le sole mura della città, era fuori luogo per la regina. La Corona, secondo lei, avrebbe dovuto rimanere fuori dagli scontri di religione e lasciare che passassero da soli. Gabryaerys si era invece prima fatto coinvolgere dall'Alto Septon, poi sentitosi tradire da quest'ultimo, aveva cominciato ad “amoreggiare” coi cultisti del dio del fuoco, o almeno questo era quello che sembrava. Una cosa era condannare ogni forma di violenza, cosa cui Hana avrebbe intimamente aderito, pure contro lo stesso Clero dei Sette, e una cosa era però invitare ad una riunione quello che molte malelingue tendevano a giudicare essere niente più e niente meno che uno stregone, abbattutosi come una sciagura sulla più popolosa e la più complicata città del mondo.

Hana rispose piccata, con un'espressione nel viso quasi di sfida, al suo re consorte che le aveva testé domandato se fosse lì per qualche motivo preciso: «No, niente di particolare»

«Mi stai mentendo?» capì Gabryaerys.

E Hana: «Tu mentiresti se dicessi di mantenere ancora un punto di equilibrio,distante e osservatore da lontano, in merito a questa grave schermaglia insorta tra i fedeli di questa città, e che non sei passato dalla parte del dio rosso?»

«No, non mentirei»

«Allora non mento neanch'io»

«Lascia... che ti dica una cosa, moglie mia» Gabryaerys a questo punto, dopo una pausa, si preparò per un lungo monologo: era chiaro. Così continuò: «Quando sono nato, figlio di una leggendaria regina e di un suo capitano delle guardie, venni fin da subito nascosto e messo da parte», un brivido corse a questo punto lungo la schiena di Hana: il re mai si era aperto in tali confidenze con lei, «Non era consono per la più grande regina di tutti i regni dell'epoca, portarsi appresso un figlio bastardo come me: con solo metà di sangue reale nelle sue vene. Mio padre, Daario, era un guerriero: non un governante. Mi crebbe come poté. Ma morì quando io era ancora piccolo. Ho vissuto la fame più nera, una vita passata nel trascorrere di giorni in cui sapevi che oggi avevi da mettere qualcosa sotto i denti, ma domani... chissà. In quel momento, mi resi conto di avere sia una grande povertà, ma anche una grande ricchezza. Quasi per caso, mi resi conto di essere uno di quei tanti individui nella storia cui il fato aveva dato la possibilità dell'incanto del fuoco. Non l'ho mai cercato, non ho mai studiato per averlo. Ce l'avevo e basta. A me piace pensare che c'entrasse il mio sangue del drago: mio padre mi aveva sempre detto che la mia vera madre fosse la regina dell'occidente, Daenerys Targaryen»

«Qu-queste» balbettò Hana «sono storie di migliaia di anni fa»

«Sì, lo so bene. Lascia che continui. Ero uno stregone dunque, un po' come questo... Yashua che adesso pretende di essere il figlio del suo dio. Non so se sia un grande mago, non l'ho sperimentato ma... di sicuro è molto abile a crearsi un certo consenso. Anche se, al fondo, immagino rimanga il pagliaccio che uno stregone con delirio di potenza non può che essere. È giovane. Ero come lui, una volta»

«Questo significa che non lo appoggerai?»

«Questo significa che farei di tutto per proteggere te e il nostro bambino. Da incatenarti con corde di fuoco e costringerti ginocchioni a baciare il terreno su cui Yashua cammina, a prendere lo stregone per i suoi folti capelli castani e condurlo personalmente sulla picca per la corda. Yashua non è l'oggetto dei miei pensieri, lo è il mio governo della città. E il governo dei miei figli e dei figli dei miei figli. Sei soddisfatta?»

«I-io...»

«Risponderò alla tua constatazione sulle storie di migliaia di anni or sono: cominciai a fare quello che fa Yashua. Mi faceva sentire potente. Ma mi mancava qualcosa: una famiglia. Venni a sapere che mia madre Daenerys era stata assassinata in seguito a una cospirazione ordita solo pochi giorni dopo il suo insediamento. Era una vicenda nota, ma io... ero cresciuto per le strade. Non ero mai andato a scuola e non ero aggiornato sui fatti dell'occidente. A malapena sapevo che c'era un continente lì, dove regnava mia madre. Preso dalla rabbia cieca per esser stato sottratto di uno dei beni più grandi su questa terra (l'amore di una madre), partii meditando la vendetta. Ma scoprii che il re che sedeva sul trono, un vecchio storpio di nome Brandon, poco o nulla aveva avuto a che fare con la cospirazione che aveva per sempre detronizzato la famiglia Targaryen dal soglio dell'occidente. Il suo vecchio Primo Cavaliere, Tyrion Lannister, era morto. Partii allora verso le nevi perenni del nord, dove si trovava esiliato Jon Snow, l'uomo che aveva sollevato la propria lama su mia madre e che era fratellastro del re. Trovai morto anche lui, da poco. Ma Jon Snow aveva una sorella, ancora viva, anche lei partecipe della congiura. Le sue tracce erano sparite navigando verso l'occidente. Raggiunsi così il terzo continente, quello che neanche voi westerosi fino a poco fa conoscevate. Seppi lì che anche Arya Stark era morta a nord, nei pressi di un grande vulcano. Ma trovai qualcos'altro: una nuova ragione di vita. Un incantesimo. Un incantesimo antico ed oscuro cui, quasi inavvertitamente, mi legai per sempre. Lessi il libro di Cair Dedalos: le sue formule, le sue promesse; e liberai i Sette Maghi dell'Origine, da quel momento costretti a servirmi grazie al sigillo che custodisco gelosamente penzolante sul mio collo. Pagai con il mio aspetto fisico, oltre che con parte della mia energia magica, quell'avvenuto legame. È da allora che un occhio di drago infesta la mia faccia. E scaglie e spine fioriscono in parte della mia schiena e del mio braccio». Il re si concesse una breve pausa; poi riprese con più enfasi: «Decisi di servirmi di Cair Dedalos per conquistare il trono che era stato di mia madre. Per rimettere i Targaryen sul trono di spade, come è giusto che sia. In verità liberai solo sei maghi, uno si trovava già in condizione di libertà. Non so spiegarmelo, ma la sua potestà violava l'incantesimo. Certo non avrebbe potuto agire contro la mia diretta volontà, e quando di recente la sua natura magica ha lasciato questo mondo, io l'ho avvertito come se fosse parte di me, come con tutti gli altri miei servi. Ma rimase celato fino dall'inizio. Così non fecero gli altri sei Manti, che mi servirono. Incuriosito da storie ancestrali di draghi dell'origine in grado di parlare, in qualche modo genitori della stessa umanità, ne cercai qualcuno, con il fine di sfruttarne l'amicizia o, eventualmente, il potenziale. La superiorità magica dei Sei Manti, contro quella di creature millenarie ma ormai le cui energie erano ormai fiaccate, mi consentivano buone speranze. Anzi, fu principalmente questo a giustificare la mia impresa. Ci vollero secoli per trovarne una soltanto e molti altri per sconfiggerla e altri tanti per riuscire comunque a sottometterla e a farne un'arma. Ma alla fine, riuscii a crearmi un mio esercito e dunque, dopo una serie di malcelate alleanze con politici dell'occidente, tutti spinti dai loro più ciechi e personali interessi, conquistai Roccia del Re»

«Uccidendo mio fratello»

«Un crimine necessario, purtroppo. Non avevo nulla contro di lui, come puoi immaginare: non lo conoscevo. Era solo l'uomo sbagliato nel posto sbagliato al momento sbagliato», qui Hana pianse e Gabryaerys provò a metterci una pietosa pezza: «Doveva essere un bravo fratello, se ancora lo piangi così. Io non ho mai avuto un parente per cui piangere a questo modo»

«E quel Sir Bastian...? Non mi hai detto essere tuo fratello?»

«Sì, beh... non come piangi tu per il tuo, ma certo il suo tradimento mi ha ferito molto. Mi piace pensare che, dopo di te e mio figlio, lui è stata la persona cui ho tenuto di più. Ma non era mio fratello, in senso stretto»

«E chi allora?»

«C'è stato un momento, dopo un particolarmente duro confronto con la draghessa... che ella scosse talmente tanto la mia entità magica da farmi regredire. Per fortuna non persi dei Manti, ma... d'improvviso ridivenni ragazzino e per tutto un lungo periodo non fui più in grado di fare magie. In verità, nemmeno adesso sono abile come un tempo. Mi riesce bene il teletrasporto e poco altro, ma senza i maghi di Cair Dedalos... sarei finito. Anche contro uno Yashua qualsivoglia. Lui è giovane, e la magia è da poco sorta in lui. La mia situazione non è la stessa. Dunque, ti dicevo, in un villaggio non distante dai pressi dello scontro, viveva questa famiglia di piccoli commercianti. Ero di nuovo nell'Essos, poco lontano da Myr. Loro mi aprirono la porta della loro casa, nonostante fossi deforme e con le vesti stracciate. Condivisero il loro poco cibo e il loro poco bere con me. E sostanzialmente mi crebbero insieme al loro unico figlio, Bastian. Dal quale non mi sono mai più separato, fino ad oggi. Puoi comprendere quanto mi bruci che abbia scelto di sostenere un altro re, ma... io credo che lo perdonerei in ogni caso»

«Beh, ora sei tu a capire come mi senta io quando parli di Axelion...»

«Ti comprendo benissimo. E mi far star male, sapere che questo ti faccia stare male. Ma preservare la nostra, ormai comune, linea di sangue è un compito che sempre più sta risultando gravoso, molto più di quanto immaginassi. Conquistare il trono è stato facile rispetto a quanto è difficile mantenerlo. E non parlo solo di Constant, quello è il nemico più evidente e vicino. Ce ne sono altri di mutevoli e striscianti. Il primo, è questa schermaglia tra culti religiosi: se si rimane passivi, ad osservare – come tu suggerisci – potrebbe finire che la cosa ci scoppi tra le mani, risultando poi ingovernabile. Un secondo è molto lontano, eppure molto potente. Quando decenni or sono mi avventurai alla ricerca di ciò che rimaneva dei draghi dell'origine, m'imbattei in uno di costoro... diverso per indole dagli altri. Uno che pensava che il mondo andasse purificato dall'umanità. Egli cercò di servirsi di me come una pedina, ma poi io tradii le sue aspettative, visto che mai i nostri progetti erano seriamente stati comuni. Da allora so che mi considera suo nemico e mi dà la caccia. Ho mandato il mio schiavo demone dei ghiacci alla sua ricerca, con l'ordine di sbarazzarsi di lui. Ma da diverse settimane di Xenorus e del suo falcone gigante s'è perduta ogni traccia magica. Alleviare il proprio potere, in modo da risultare impercettibile da altre creature in grado di maneggiare l'arcano, è una pratica che potrebbe aver scelto di realizzare da solo, proprio per non farsi rintracciare dal drago a sua volta, ma... puoi immaginare quanto la cosa mi desti non pochi pensieri. E poi c'è Baelish, nascosto da qualche parte in oriente. Abbiamo sempre suo figlio prigioniero, ma lui ha il mio demone delle fiamme e... probabilmente neanche lui ha idea di che ascendente dispone su di me»

«Che cosa vuol dire?»

«La vita dei Sette Manti è legata alla mia, da quando detengo il sigillo di Cair Dedalos. Io non posso morire, se prima non muoiono loro Sette»

«E loro sono... mortali?»

«Abbiamo appurato che una certa fonte di energia magica, se ben utilizzata, può annientarne l'essenza, sì. Due di loro, il demone delle fonti e prima di lui quelli degli spiriti, non ci sono più. E io difatti sono più debole»

«C-che succederebbe se morissero tutti e sette?»

«Rimarrei da solo. Con la mia vita umana, e le mie potenzialità di stregone, mai più tornate ai fasti di un tempo, dal momento in cui ruppi il sigillo dal libro e me lo misi al collo. Ho voluto condividere con te tutta la mia storia. Le mie luci e le mie ombre, diletta. Le mie debolezze e i miei punti di forza. I miei piani, le mie aspettative, le mie delusioni, le mie preoccupazioni. Dunque voglio chiedertelo un'altra volta: questa mattina, al consiglio che mi vedeva impegnato con un importante giocatore dell'esercizio dei poteri di questa città, sei venuta per qualche motivo preciso?».

Era chiaro come quel discorso del re non poteva aver avuto altro esito se non stravolgere le opinioni della giovane regina: tutte quelle certezze con cui era entrata in quella sala del maniero, convinta di poter nascondere o meno i suoi sospetti sul piccolo pseudo Napoleon. Subito dopo che Gabryaerys smise di parlare, nella stanza esplose un silenzio fragorosissimo. Hana realizzò tutto assieme quello che fino a quel momento aveva voluto ignorare: suo marito d'altronde l'aveva detto fin dal primo inizio, in pubblica piazza, che era il figlio di Daenerys Targaryen, una donna vissuta migliaia e migliaia d'anni prima. Era sposata con un mostro magico la cui storia cominciava ai tempi delle grandi guerre per il Trono di Spade. Lì per lì, Hana sentì come di avere un mancamento, tanto fu vero che lo stesso Gabryaerys, un po' preoccupato, le sussurrò: «Mia cara... stai bene?». Lei non rispose: rimase ancora un po' in silenzio. Ebbe qualche dubbio se il re fosse preoccupato per lei o per il figlio che aveva in grembo. Forse entrambe le cose. Eppure, tutto quello che il Targaryen e Naharis millenario le aveva appena raccontato, doveva essere vero. Perché inventarsi tutte quelle storie? Per spaventarla? No: il re l'aveva messa alla prova; aveva messo alla prova la sua fiducia. Se le aveva raccontato tutto quello, era perché voleva fidarsi di lei. E lei non poteva tradirlo proprio ora: non conveniva a nessuno. Non a lui certamente, non al bambino che doveva nascere sicuramente e... in fondo, anche lei litigando con Gabryaerys, cosa avrebbe ottenuto? Una condizione di prigionia e poco altro. Lo aveva già concluso molto tempo prima: il suo posto, per il suo stesso interesse e per quello della sua famiglia, in quel momento non poteva essere che accanto a quello del re usurpatore che aveva assassinato suo fratello. Hana decise quindi, rapidamente, di sorvolare perfino su quella questione della religione, per quanto anche lì era sicura che avrebbe continuato a monitorare la situazione. Ma il re aveva bisogno di un innesto di fiducia da parte sua, e lei gli confessò quello per cui fin dall'inizio era entrata quel giorno in quella sala del castello. Le disse di tutti i suoi dubbi in merito allo pseudo Napoleon, e di conseguenza sulla condotta certamente non limpida di Lady Brimshey, ma soprattutto di Abigail Baratheon e Uryon di Worchester.

 

 

 

Ora che anche Lord Baelish se n'era andato, salutato quella stessa mattina con tutti gli onori dovuti a un potente alleato, Lord Goldsmith poteva considerare la sua capitale Braavos finalmente libera da tutti coloro che vi avevano bivaccato per lungo tempo. Loackland se n'era andato il pomeriggio precedente, ormai annoiato data l'assenza del suo nemico preferito, Gaholla, che invece – a sua volta – erano già due settimane che aveva lasciato la città del titano. Prima di tutti, comunque, se n'erano andati quei “capitani coraggiosi”, in qualche modo capeggiati dal giovane elefantino Banfred Panecha, che prima s'erano avventurati alla ricerca del cadavere del drago, e adesso avevano deciso d'incontrarsi (non si sa perché) con Lady Saestrya della Casa Martell. Dietro a tutto ciò, ci doveva naturalmente essere lo zampino non tanto degli stessi Gaholla, troppo poco raffinati per un piano del genere, quanto di quell'arringa-folle che altro non era l'ex Tribuno Garhel Sawela. Per tutto il tempo della permanenza degli ospiti alla sua capitale, Goldsmith si era sforzato di non darlo a vedere con nessuno, né amici e né nemici, ma considerava Sawela la spina nel fianco più profonda che in quel momento potesse avere. Era chiaro che fosse lui l'ispiratore di molto di ciò cui spessissimo il Lord della tigre era stato in quei recenti giorni fortemente contrario. Tutta quella fazione di allarmisti, che giustamente avevano visto la morte in faccia ed erano caduti a Marrah Canckubhia, nonostante continuassero ad agire dissennatamente come chi ha subito un grave trauma, in realtà – di fatto – avevano perduto. Avevano gettato il panico per quel problema della guerra contro il drago, ma la guerra era stata vinta. Perché continuarsi a fasciare dunque ferite che non c'erano? Ora che tutto doveva ritornare alla normalità, loro continuavano con quella presunta emergenza, gridando e strepitando che bisognasse allearsi con l'occidente. Era difficile non pensare che dietro non ci fosse quella “rivoluzione popolare” per cui Sawela tutta la vita aveva combattuto. Goldsmith seriamente pensava che quel tipo di illazioni non gli venissero dalla sua condizione di uomo più ricco e potente dell'Essos, bensì dall'evidenza dei fatti: il drago, per quanto ne sapevano, era morto o gravemente ferito. La sua minaccia poteva dunque essere considerata conclusa, la guerra contro di lui terminata. Cosa poteva dunque spingere mai un gruppo di apolidi ex potenti e famosi dell'oriente, ad incontrare un'aperta ribelle dell'occidente, se non il fine ultimo di cospirare contro lo status quo, che in occidente significava “trono di spade” e in oriente “banca di Braavos”? Davvero si aspettavano un appoggio basato sulle loro previsioni a dir poco apocalittiche e fantasiose?

In tutti i modi che aveva, Goldsmith aveva tentato di mettere ogni suo ingombrante bastone tra le ruote di Panecha, Sawela e gli altri, ma alla fine quelli avevano deciso per conto loro e a lui non sarebbe rimasta che la carta dell'assassinio. Non che non fosse nelle sue possibilità, e non che non ci avesse pensato: il suo alleato e, un po' petulante, amico Loackland gli aveva suggerita quella strategia più di una volta e non con poca enfasi. Loackland era più “uno dalla lama facile”. Ma Goldsmith si reputava un politico illuminato: uno che non ricorreva alla violenza, a meno che non fosse l'ultimissima spiaggia. Un nemico, era molto meglio indebolirlo con una guerra fiscale: lo riducevi alla fame, senza che se ne accorgesse, mentre continuava a stringerti la mano. E il caso in questione era in effetti uno di quelli in cui – in conclusione – il Lord di Braavos pensò che fosse bene non intervenire: una banda di ribelli, più o meno convinti, più o meno dichiarati: che facessero quello che gli pareva, un domani sarebbero stati schiacciati da un esercito, e non da un sicario. Ora, Lord Goldsmith aveva mille altre idee e pensieri per la testa: ricostruire la città, nel suo morale e nelle sue fondamenta, dopo la guerra contro il drago sarebbe stata un'operazione meno semplice di quanto un governante di poca esperienza avrebbe mai detto. Sarebbe stato lungo e sfibrante, e forse Lord Goldsmith non sarebbe neanche sopravvissuto per concluderlo. Aveva ormai compiuto sessant'anni, anche se sapeva di dimostrarne meno: era un uomo asciutto e piacente, pure se brizzolato e non più nero come un tizzone. E sessant'anni erano tanti, per i tempi che stavano vivendo.

Da qualche mese ormai Goldsmith meditava di lasciare tutto a suo figlio – il quale pareva non vedere l'ora – per ritirarsi nelle sue residenze di vacanza. Baelish, alleato di una vita, con il quale i Goldsmith avevano pure di recente recuperato un vecchio legame di cuginanza, gliel'aveva detto fin prima di partire: ®vieni da me ospite per un periodo, a prendere un po' del freddo che ti meriti». Solo che Baelish viveva una situazione complessa: diversamente da lui, non aveva risolto tutte le questioni “marziali” che lo riguardavano: dei veri e propri grattacapi. In occidente c'era come una sorta di guerra silenziosa ancora in corso, perché il fresco re era uno straniero – anche se con un nome apparentemente importante – e gli stranieri hanno sempre maggiori difficoltà ad imporre una nuova dinastia su un soglio regio o della grande aristocrazia che fosse. Conclusione: non c'era una vera e propria dichiarazione di guerra controfirmata, ma di fatto il Targaryen occupava Delta delle Acque – di storica competenza del Baelish – tenendo in ostaggio Baelish Jr., e il Lord dei fiumi e della Valle invece teneva, a quanto dicevano le voci di corridoio, un ostaggio a sua vola caro al re dell'occidente, rinchiuso in una torre segreta del Nido dell'Aquila. Brutte storie insomma; storie su cui, ove possibile, Goldsmith – che aveva, come detto, già i suoi grattacapi – avrebbe preferito non rimanere coinvolto. Se Baelish gliel'avesse chiesto ufficialmente, allora la loro tradizionale amicizia avrebbe imposto un intervento della tigre, portando quindi – dopo secolari anni di pace – il vero signore dell'oriente a scontrarsi contro il re sul Trono di Spade. Ma evidentemente per il momento Baelish aveva altre carte in mente da giocare: era un uomo astuto, come d'altronde la sua tradizione familiare non poteva che testimoniare.

Il nuovo progetto era dunque, per Lord Goldsmith, il seguente: avviare la ricostruzione e attendere ancora il tempo minimo perché quel lavoro si consolidasse. Dopodiché mollare tutto al figlio primogenito e, perché no?, concedersi quella benemerita lunga pausa, magari nello stesso occidente. Ma Lord Goldsmith non ebbe il tempo di fare nulla di tutto ciò.

Sorseggiando del vino, se ne stava nella balconata di uno dei suoi offici a riflettere su tutto quanto fin'ora esposto, in attesa che arrivasse un ospite. Fu in quel momento che il drago ritornò. O almeno: in un primo momento, Goldsmith pensò che fosse proprio lui, visto che si trattava di qualcosa di dimensioni titaniche che in volo si stava precipitosamente avvicinando al suo palazzo. Poi pensò a una sorta di allucinazione: era una roba grande quanto un drago, ma di uno strano verde trasparente. Il Lord poteva vedere attraverso di essa, il normale panorama che – immobile – di solito si stagliava davanti a quel suo ballatoio. Per un momento, Il Lord pensò che in qualche misura c'entrasse il vino, e si ritrovò a controllare incredulo il contenuto della sua coppa; problema: di solito lui era un bevitore più che navigato, non aveva le visioni da sbornia da quand'era un ragazzetto, e comunque prima di andare in sbornia, altro che una coppia di vino che ci voleva (ne aveva bevute una e mezza al massimo in quel momento)! No: quella cosa nel cielo c'era, e si stava avvicinando sempre di più, sempre di più... era come se scimmiottasse l'aspetto di un drago, ma non lo era. Era come l'anima di un drago, oppure un angelo, o qualcosa di simile.

Il terrore divenne poi infinitamente più grande, non appena Goldsmith ebbe modo di accorgersi che la creatura non fosse affatto eterea. Precipitò con rombante frastuono vicinissimo a lui, aggrappandosi ad una torre con gli “artigli” e facendo cadere un po' di mattonelle e calcinacci. Dunque rivolse il proprio “muso” proprio verso di lui e con voce cavernosa e satanica disse: «I capi del Consiglio di guerra di Braavos». Fu a metà tra un'affermazione e una domanda. Per un brevissimo istante, Lord Goldsmith ebbe anche il dubbio su cosa rispondere: “Sì?” era ciò che la creatura stava cercando? Sempre se quella fosse stata una domanda...

Non lo era. La creatura non attese oltre. Ad ulteriore conferma che di qualcosa di un po' palpabile fosse fatta, non attendendo una vera e propria risposta, lo strano angelo aprì le proprie fauci e liberò fuoco di drago. Fuoco di drago vero. Ridusse Goldsmith e tutto ciò che lo circondava, in poco tempo, a un concentrato di carbone polveroso. Dunque il “drago di spirito”, quella magia evocata dal vero drago Requiem, si spense, scomparendo nel nulla. Ma Lord Goldsmith, il Lord della Tigre, signore della città-banca di Braavos, questo non ebbe alcuna maniera di verificarlo.

 

 

 

Il congedo con Elthon Applegate e i suoi scudieri avvenne al tramonto davanti a un crocevia che più chiaro non avrebbe potuto essere: dal sentiero a destra avrebbero preso i cavalieri del nord, per tornare ad Alberocasa e continuare a predisporre la loro guerra di liberazione dagli occupanti Willoughby. Dal sentiero a sinistra avrebbero preso Daniel e il vecchio Terwyn, alla volta della montagna più alta del mondo. Lì il principe Piromante avrebbe rivisto, nel suo mondo di dimensione incorporea, la creatura che già una volta gli aveva conferito parte delle proprie energie e poteri sotto forma di lezioni di vita: Pyra era il suo nome, e in quale legame si trovasse con Terwyn stesso o col drago Nidhogg, il vero e primo maestro del fuoco che Daniel aveva avuto, questo non era chiaro. Ai cavalieri dell'albero di mele, Daniel era consapevole che doveva molto: se anche Elthon e i suoi avessero agito per l'interesse di far sì che il principe mantenesse la propria promessa di tornare a combattere al loro fianco per liberare l'altipiano che era loro capitale, comunque il fatto stava che loro lo avevano liberato da una condizione di prigionia, niente meno che mettendosi in movimento da una distanza eccezionale. Tutto per salvare lui: e Daniel non poteva che essergliene grato. Ecco perché un vago senso di colpa colpì il principe quando per l'ultima volta strinse la mano del cavaliere del nord, dai capelli lunghi e biondi e gli occhi cerulei. D'altro canto, era pure vero che il vecchio Terwyn aveva esercitato una non minore pressione su di lui, quando più volte gli aveva ripetuto che l'energia di Pyra non sarebbe durata per sempre; anzi, che si sarebbe presto estinta. E inoltre, come se non bastasse, nonostante tutti questi pensieri, era una e una soltanto l'immagine che il principe non riusciva a cancellare dalla propria mente: quella di Licyane, ancora prigioniera a Forte Terrore, mentre lui – libero – si trovava a ragionare serenamente su quale sentiero della vita fosse meglio da percorrere. Daniel dovette fare un sforzo per rimuovere momentaneamente il pensiero di Licyane dalla sua mente, e concentrarlo su ciò che in quel momento aveva la priorità: un congedo quanto più solenne e rispettoso nei confronti dell'amico Sir Elthon e dei suoi uomini. Alla fine avvenne, con la solita solenne promessa – da parte del principe di Cowain – di recarsi quando possibile ad Alberocasa per aiutare gli Applegate a sfrattare i Willoughby. E con “quando possibile”, Elthon intendeva: “non appena conclusi quegli strani addestramenti sul cucuzzolo della montagna che il principe doveva fare”. Daniel era un po' meno inflessibile in merito a questa definizione, anche se pure lui reputava importante quell'affare: non è che la guerra poteva rimandarsi per sempre.

Con il cuore sempre pesante, e mai leggero da quando aveva lasciato la bibliotecaria al suo destino con l'orso del nord, il principe quindi prese il suo sentiero a sinistra e di lì, dopo un paio di giorni, raggiunse la piccola e spopolata Dunwark: l'ultimo minuscolo centro abitato prima della neve senza fine e della montagna più aspra. Per la seconda volta nella sua vita, Daniel affittò quindi due piccole cavalcature, due onagri dalle orecchie lunghe: gli unici in grado di inerpicarsi tra i sentieri del Monte Cabuk senza scivolare giù, o fare scivolare gli uomini che avevano sulla groppa. Inoltre, sempre per la seconda volta nella vita, Daniel s'avventurò lungo quel tragitto in compagnia di un “vecchio” amico; vecchio in due sensi: di età sicuramente, ma anche amico da tanto tempo. Nel primo caso, si era trattato di Sir Cordell di Villaranza, un uomo che da sempre aveva bazzicato la corte di re Lionel, e che dunque in qualche modo a Daniel l'aveva persino veduto crescere. Ora, invece, c'era quel Terwyn Lannister, un'entità che – per quanto ormai conosciuta da tempo – a Daniel rimaneva in parte misteriosa. Quanti anni aveva quel vecchio piccolo e curvo? Cento? Duecento? Mille? Ogni cosa poteva essere plausibile. Inoltre, Terwyn era legato al potere magico dei luoghi in cui per tutto quel tempo aveva vissuto. Per un primo momento, Daniel aveva pensato che il suo potere fosse stato legato al drago Nidhogg e che quindi, morto Nidhogg – come era morto nei ghiacci perenni del confine del mondo, oltre l'Ultima Porta – anche Terwyn a poco a poco sarebbe andato “spegnendosi”. Forse era così, ma lo stava facendo assai lentamente, rispetto a quanto Daniel aveva immaginato. Tanto lentamente, da non render visibile quell'invecchiamento a occhio umano.

La Grande Quercia, il luogo dove si trovavano la baita di Terwyn e, poco oltre, l'antro di Nidhogg – dove Daniel aveva sempre trovato anche Pyra – era un luogo che, per chi era in grado di intercettarla, trasudava magia. Una magia antichissima, di cui lo stesso Daniel non era in grado in verità di rintracciare ogni segreto, collegare ogni strano fenomeno ad un altro: l'origine dei suoi poteri e di quelli di Nidhogg; le porte ancestrali che non potevano esser state fabbricate da mani umane; la natura del piccolo Terwyn o della fata danzante che appariva dentro un paiolo e vi trascinava dentro anche lo stesso principe di Cowain: Pyra per l'appunto. Ma il momento dell'importante incontro della continuazione della “lezione” che Daniel aveva ancora da apprendere, non venne subito all'arrivo dei due amici al capanno dove da sempre risiedeva il più vecchio fra loro. Giunsero infatti alla baita che era sera inoltrata: prepararono una cena frugale con quello che la montagna e gli stipi mezzi vuoti di Terwyn avevano da offrire, e si misero a letto. Lì, nonostante la spossatezza che solo una scalata così in alto poteva portare, il vecchio decise di avviare un confronto con il giovanotto. Cominciò domandandogli: «Principe, stai dormendo?»

«No, Terwyn»

«C'è una cosa che, prima di domani, ho pensato di dirti...»

«Ti ascolto»

«Tu lo sai: la magia... la nostra magia, muta costantemente. Non nasce, non muore... si sposta»

«Uhm... sì, allora?»

«Niente, dico che è un principio che devi sempre tener presente. Quando accadono cose che non ti spieghi, una delle domande fondamentali – da Piromante – che devi porti è: cosa è cambiato? Come si è trasformato? Dove è finito ciò che prima era qui? Perché... da qualche parte si trova sicuramente»

«Stai... stai parlando di Nidhogg per caso?»

«Di Nidhogg, di Pyra, di me stesso, degli allievi che negli anni il drago ha avuto e... quindi anche di te»

«Non so se ti sto proprio seguendo, Terwyn»

«Prima che il drago morisse...io non ero così. Io non ero... chi sono ora»

«Sì, di questo mi sono accorto»

«Beh, quando Pyra concluderà con te la sua lezione... neanche tu sarai chi sei adesso. A questo, devi essere preparato»

«Non è che perderò... i miei ricordi?»

«No, puoi stare tranquillo. Perderai tutto, meno che quello, giovane Lannister. Tutto meno che quello. E ora, buonanotte»

«Buona... notte» balbettò Daniel, un po' confuso. Sapeva bene che quello che gli stava capitando, da mesi, era di per se stesso enigmatico. La magia, e tutto ciò che essa comportava, non era un fenomeno facile da spiegare, né da comprendere. E quel discorso, prima di dormire, che Terwyn gli aveva fatto corroborava questa tesi. Certo, Daniel si confuse e odiò trovarsi temporaneamente in quello stato di confusione. Ma aveva imparato a tollerare il mistero. Tutto sopra quella maledetta montagna, da sempre, era misterioso: che lui lo gradisse o meno.

L'indomani mattina, dopo una buona colazione – molto meno frugale della cena precedente – visto che Terwyn possedeva una cantina nascosta con salumi e formaggi la cui esistenza rivelò solo per l'occasione, Daniel e il vecchio, di bastoni muniti, si avviarono alla volta della cosiddetta Grande Quercia, la quale – all'inizio sì – era l'albero più grande che Daniel avesse mai veduto, la cui fine sostanzialmente era impossibile da vedersi insieme con l'inizio, ma i cui rami e radici poi finivano per incrociarsi col resto della struttura naturale di quei luoghi: pareti rocciose ammantate di neve all'inizio e poi a un certo punto, nascostissime, le immense porte magiche intarsiate dell'antro del drago. Le porte si aprirono non appena Daniel e Terwyn arrivarono, nessuna strana formula proveniente dal nulla questa volta, solo semplicemente: la magia. Era come se la caverna stessa li stesse attendendo. Quindi venne il momento del paiolo, attorno al quale il principe Piromante si dispose, come Terwyn Lannister gli disse. Dopodiché accadde qualcosa che non era avvenuta la prima volta: il vecchio – che d'altro canto non era mai stato lì dentro insieme a Daniel: si era sempre fermato alla sua capanna – cominciò ad appoggiarsi con le mani alle pareti dell'antro, pronunciando formule a Daniel sconosciute, e che comunque quest'ultimo dubitava sarebbe stato in grado di replicare. Suoni gutturali, più che vere e proprie parole, che fuoriuscivano dal petto del vecchio per espandersi nell'eco provocato dal cuore della montagna. Dapprincipio, furono come sussurri: asserzioni sottovoce. Ma via via divennero sempre più forti, e l'aria cominciò a rarefarsi. Daniel avvertì del malessere, anche se non sapeva dire che cosa esattamente gli facesse male: la testa? L'anima, forse? Fu costretto ad appoggiarsi al paiolo. I suoni di Terwyn divennero urla. E Daniel chiuse gli occhi, e cadde. Giù, sempre più, nel fondo del pentolone. Quando ritornò il silenzio, venne anche il buio. Lui riaprì gli occhi, ma lo stesso non fu in grado di vedere alcunché. All'improvviso: un fuoco, una fiamma allungata. Era Pyra, la donna infuocata che risiedeva nel paiolo, e che lentamente gli venne in contro. Disse semplicemente: «Preparati, Daniel di Lannister, per la tua seconda lezione. La tua seconda prova del fuoco».

   
 
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