Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: JohnHWatsonxx    03/06/2021    0 recensioni
Raccolta di one-shots Johnlock in cui ogni capitolo è ispirato da una canzone dell'album 'Plus' di Ed Sheeran
1. The A Team -Post!Reichenbach
2. Drunk -Uni!lock
3. U.N.I. -Uni!lock
4. Grade 8 -post quarta stagione, What If?
5. Wake Me Up -Soulmate!AU
6. Small Bump -What If 3x3 pre-slash (Tw: aborto)
7. This -post quarta stagione
8. The City -Post!Reichenbach
9. Lego House -kid!lock AU
10. You Need Me, I don't Need You -Retirement!lock
11. Kiss Me -post quarta stagione
12. Give Me Love -Post!Reichenbach
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
TW: aborto

Note: Small Bump è la canzone che mi ha messo più in difficoltà, perché non si pone a più interpretazioni, quindi la storia non poteva che prendere una direzione. Consiglio l’ascolto della canzone prima di leggere la storia, anche se non è necessario (in realtà voglio solo che più persone ascoltino questo capolavoro).

Small Bump


Nei sogni di quando era un giovane adulto, John Watson si vedeva medico, soldato, marito e padre, è sempre stato convinto di ciò che faceva e tutta la sua vita è girata intorno a quei quattro pilastri: l’università, l’esercito, Mary e il suo piccolo pancino che a malapena si intravedeva dalla maglietta.

Niente lo emozionava come il vedere sua moglie accarezzarsi il ventre mentre sorseggiava il suo tè nella loro piccola abitazione di periferia. Perché John Watson, nonostante tutto, era una persona semplice, che si accontentava facilmente: escludendo la sua dipendenza dall’adrenalina era un essere normale, di quelli che la mattina leggono tutto il giornale, che vanno al lavoro in bicicletta per tenersi in forma e tornano a casa dalla loro moglie stanchi ma col sorriso sulle labbra perché soddisfatti dalla loro quotidianità. E il piccolo (o la piccola) non poteva che essere il coronamento del suo sogno, delle sue aspettative di vita.

Se, girando per Londra, lo avessi visto, non avresti mai potuto dire che quell’uomo fosse triste perché per la tristezza, nella sua vita, non c’era spazio. Era felice come non lo era mai stato in quei tre anni.

Il ritorno di Sherlock aveva portato tanti cambiamenti tante emozioni contrastanti che non riusciva a comprendere, ma da quando era felice non c’era niente da capire, niente da fare se non sorridere con tutti, sorridere con Sherlock, anche quando non si faceva vedere per mesi e scompariva per un caso. John Watson poteva provare tante emozioni durante il giorno, ma quando tornava a casa e vedeva Mary al suo quarto mese di gravidanza accarezzarsi il ventre e sorridere persa nelle sue fantasie non c’era posto per niente eccetto l’amore.

Ma, John Watson doveva saperlo, la felicità è una casa di carte che cade facilmente, e ti lascia senza un tetto, senza certezze, senza amore non appena il vento arriva*.

Quella notte non riusciva a dormire, le coperte gli si arrotolavano intorno alle gambe mentre cercava di trovare la posizione più comoda per riposare. Accanto a lui Mary, stesa di un fianco, riposava beatamente, e John si incantò per un attimo nel vedere il suo petto alzarsi e abbassarsi regolarmente. Fu forse vedere sua moglie così calma che riuscì anch’egli a rilassarsi e a chiudere gli occhi. Durò molto poco, perché a quel punto fu lei a svegliarsi di colpo e a sedersi sul letto visibilmente agitata.

“John?” sussurrò, e il marito percepì chiaramente la disperazione nella sua voce.

“Portami in ospedale”

*

Alle due di notte il pronto soccorso era vuoto e silenzioso, e solo John occupava una di quelle sedie rosse di plastica tanto scomode. Non gli avevano detto niente, non lo avevano fatto entrare, non sapeva cosa stesse succedendo e più tempo passava più l’ansia cresceva. Non aveva avvertito nessuno, ma sapeva con certezza che Sherlock sarebbe arrivato, perché aveva visto la telecamera della strada seguire la loro macchina fino a che non avevano voltato l’angolo. Con la storia di Magnussen, Mycroft aveva deciso di aumentare il livello di sicurezza per evitare che finisse di nuovo affumicato come l’ultima volta e per la prima volta era grato di dover essere controllato dai servizi inglesi: non era riuscito a chiamarlo ma in quel momento più di altri aveva bisogno di averlo accanto, di poter vedere qualcuno di familiare in quella sala così asettica.

Come se fosse stato richiamato dai pensieri del dottore, Sherlock Holmes apparì da dietro le porte automatiche. Aveva il suo fidato cappotto che gli copriva il corpo e che nascondeva una tuta usurata e piena di macchie strane su cui John non voleva approfondire. Ai piedi aveva delle scarpe da ginnastica grigie -le stesse con cui lo aveva trovato giusto la settimana prima in quel covo di drogati-. Tutto della sua figura voleva urlare sciattezza, ma era il viso ciò che colpì il medico di più: aveva gli occhi assonnati e piccoli, le labbra gonfie e i segni del cuscino stampati sulla guancia destra; i suoi capelli, solitamente tenuti in ordine con del gel, in quel momento assomigliavano a un nido, senza un senso, sparati in aria come se avesse deciso di giocare con l’elettricità.

Sherlock stava dormendo, e la cosa sorprese parecchio John, che lo aveva visto dormire otto ore di seguito solo quando Irene Adler lo aveva drogato. Girò di poco lo sguardo, per trovare quello del medico, e si guardarono. È una delle cose che John preferisce del suo migliore amico: silenzio, puro e semplice, complesso e dannato, che nasconde tutto ciò che le parole non sanno dimostrare. Perché Sherlock è sempre stato così, dal primo giorno che si sono conosciuti e John rimane convinto che tutti i suoi difetti passano in secondo piano quando sono insieme perché si completano e si annullano contemporaneamente, è una sensazione che mai aveva conosciuto, prima di Sherlock, e che aveva ritrovato solo in Mary e in quella vita che stava costruendo da pochi mesi.

“John" sussurrò il più alto, sedendosi accanto a lui.

E fu l'unica parola che riuscì a dire, perché in quel momento li raggiunse il medico del pronto soccorso, tutto trasandato, con la mascherina chirurgica che gli copriva la bocca ma non il naso. I due amici scattarono in piedi come due molle in tensione, aspettando di ricevere qualsiasi notizia. Tutto dell’aspetto del dottore gridava brutte notizie: gli occhi tristi, le spalle incurante, le mani che si muovevano nervose nelle tasche di quel camice bianco che gli stava troppo largo. John aveva già capito ancora prima che il dottore riuscisse a formulare la frase.

“Sua moglie ha subito un aborto spontaneo. Lei sta bene, ma ora ha bisogno di riposare, non c’è niente che voi possiate fare qui. Mi dispiace”

Sherlock sospirò accanto a lui, ma non si mosse mentre guardava il suo amico scivolare lentamente sulla sedia, improvvisamente pesante di tutte le peggiori cattiverie del mondo.
John lo sapeva. C’erano poche probabilità, ma in qualità di medico conosceva le percentuali ed era consapevole che non tutte le gravidanze arrivano a termine. Lo sapeva, lo aveva studiato, ma non ci aveva voluto pensare, in quei quattro mesi di felicità, perché non voleva distruggersi quella bolla di positività che si era costruito e alla fine ci aveva pensato la vita a farlo per lui.

Si vietò di piangere, ma per il tremore alle mani non poteva farci niente. Lo notò nel momento in cui se le portò al viso per nascondere il dolore al mondo intero, prima di avere il coraggio di alzare lo sguardo verso Sherlock, ancora in piedi, vicino a lui.

Ringraziò Dio, il dottor Watson, nell’avere Sherlock Holmes come migliore amico: chiunque con un briciolo di stupidità in quel momento avrebbe pronunciato qualche frase fatta sul come era dispiaciuto da quella terribile perdita; lui no. Lui era rimasto in silenzio, senza il minimo rumore si era seduto accanto a lui e aveva avvicinato il suo mignolo destro alla mano di John, muovendo il dito sul dorso per pochi secondi prima di allontanarsi. Era il suo modo strano e perfetto di dire tutte le cose giuste del mondo. “Mi dispiace” e ancora dopo “sono qui”, e poi ancora “non ti lascio solo”.

E John decise di credergli, nonostante tutti i loro trascorsi, nonostante il dolore e la paura.

John Watson gli diede tutta la sua fiducia.

Quando Mary, la mattina dopo, si svegliò, percepì di essersi svuotata di tutto: la sua bambina, in primis, le sue emozioni, poi. Non aveva ancora metabolizzato, tanto che le sue mani vagavano confusamente sul suo ventre, accarezzando l’idea di un futuro ormai sfumato, lontano. Non voleva vedere nessuno, mai più: né le sue amiche, né Janette, né, tantomeno, suo marito, di cui percepiva i passi nervosi al di fuori della stanza. Si accorse che zoppicava leggermente, come quando era appena tornato dalla guerra, come se la morte della loro figlia, lui la vedesse come una caduta in campo, un altro commilitone da aggiungere alla lista, un altro +1.

Questo pensiero la fece infuriare, ma dovette trattenersi quando sentì entrare un’infermiera. La donna le diede il buongiorno, e si avvicinò per cambiarle la flebo.

“Mi scusi” disse allora Mary “qui fuori ci dovrebbe essere un uomo basso, biondo e nervoso”
“Si, non sta fermo da quando è arrivato, un’ora e mezza fa” le rispose la ragazza, accennando un sorriso debole, di cortesia.

“Lo mandi via” chiese allora la signora Watson, quasi supplicandola. “lo porti via e faccia in modo che non torni mai più”.

***

Nei sogni dei quando era un giovane adulto John Watson si immaginava felice. Lo era stato, per quattro splendidi mesi. E poi il mondo gli era crollato addosso.

Non vedeva sua moglie da due mesi, dal quel giorno in cui un’infermiera alta e slanciata lo aveva costretto ad andarsene, intimandogli di non tornare mai più. Ma lui è un uomo testardo, incapace di comprendere quando accecato dal dolore, e ogni giorno, per una settimana, si era presentato in ospedale, solo per essere cacciato ancora, e ancora, e ancora. Il sesto giorno la vide, Mary, sua moglie, seduta sul letto che gli dava le spalle, troppo impegnata a guardare fuori per accorgersi che qualcuno la stava osservando dal vetro della porta. John quel giorno aveva portato dei fiori, come se una pianta colorata potesse servire a qualcosa, a sistemare una situazione ormai compromessa. E pensò di entrare, posare quelle rose da qualche parte e poi scappare, ma il suo piano venne bloccato da due fattori. Il primo, la sua coscienza: se sua moglie non voleva vederlo forse era perché la sua visita avrebbe potuto farle più male di quanto già ne stesse sopportando, cosa che John poteva condividere e accettare senza comprenderlo appieno. Il secondo, la stessa infermiera alta e slanciata era comparsa dietro di lui, costringendolo ad allontanarsi nuovamente.

Quindi erano due mesi che non vedeva Mary. Due mesi affogati in bicchieri di whiskey alle due di notte sulla sua poltrona di Baker Street; due mesi di monotonia, fatta di ambulatorio e sguardi pieni di pietà da parte di tutti (tranne Sherlock, mai di Sherlock); due mesi di lettere e documenti da firmare per il divorzio che la sua –ormai- ex moglie aveva chiesto. Scartoffie, incontri con l’avvocato, bambini urlanti, spari sul muro, alcol, sbornia e poi punto e a capo. Ogni giorno, per sessanta giorni.

Avevano scelto la via breve: niente alimenti, nessuna cosa che potesse legarli ancora. Tagliare tutti i ponti, giusto? Per poter avere una vita nuova.
Quale vita, quale felicità, in uno scenario in cui il medico militare vedeva solo fallimenti?
Aveva sbagliato, di nuovo. Era colpa sua.

In un sorso di whiskey affogarono altri giorni, altri mesi. Altri bambini malati, altre vecchie ipocondriache, altre mamme opprimenti, altri uomini insolenti e killer incompetenti. Gli scivolava in gola come alcol di seconda mano, perché aveva fallito in ogni ruolo che aveva assunto: non abbastanza forte, non abbastanza bravo, non abbastanza intelligente, o apprensivo, o amorevole. Talmente spregevole che sua moglie non aveva voluto più vederlo.

Ma ogni tragedia aveva un’eccezione. La sua si chiamava Sherlock Holmes. Perché quando si addormentava sulla poltrona si risvegliava nel suo letto al piano superiore; quando voleva ubriacarsi trovava le bottiglie vuote nel lavandino; quando voleva un tè trovava il latte fresco nel frigorifero e il bollitore attaccato alla presa e la bustina della sua marca preferita nella sua tazza preferita. Perché Sherlock non lo guardava come facevano tutti gli altri, no. Lui lo guardava come se non ci fosse niente che non andava in John, lo guardava come si guardano gli amici, i migliori amici, i colleghi, i coinquilini, e non come si osservava un gatto agonizzante sul lato della strada.

***

La poltrona rossa gli teneva compagnia nei periodi più bui. Quella notte rientrava appieno nella categoria. C’erano mattinate in cui si svegliava, e la sua giornata era talmente piena che il suo cervello non riusciva a vagare nei pensieri negativi, quindi ci pensava la notte. Gli si susseguivano nella mente tutte le cose che durante il giorno aveva accantonato, e l’unico modo per fermare l’onda era bere, bere fino a stare male, bere fino a che neanche Dio avesse avuto più un senso. Ma in salotto c’era Sherlock, e John non aveva mai bevuto davanti a lui in quei mesi, aveva fatto di tutto per non dare altri motivi all’unica persona che gli era rimasta di andare via.

“Pensavo stessi dormendo” esordì il più alto, seduto sulla sua poltrona nera mentre passava la cera sull’archetto. Le sue mani erano delicate e precise nei movimenti, un trattamento che riservava solo al suo violino. John si chiese come sarebbe stato sentire quel tocco sulla sua pelle, ma troncò il pensiero sul nascere, andandosi a sedere al solito posto.

“Sai che non sto dormendo in questi mesi, Sherlock. Mi stavi aspettando” rispose John, carezzando il tessuto logoro della sua poltrona con le sue mani callose, trovando il movimento stranamente rilassante.

Il suo amico sospirò, posando archetto e cera nella custodia accanto a lui. “Hai affinato le tue tecniche di deduzione”

“Ho imparato per osmosi” ridacchiò leggermente il medico.

Calò il silenzio. Quella era probabilmente la prima volta in mesi che parlavano senza che ci fosse di mezzo un caso, o un cliente. Era piacevole, constatò John.

“Non c’è niente da bere dentro casa”
“Non avevo intenzione di bere davanti a te comunque”

Altro silenzio. Sherlock si stava torturando le dita, sicuramente trattenendosi dal dire qualcosa, come faceva ogni volta che John lo costringeva ad essere gentile.

“Puoi dirmi tutto quello che vuoi, Sherlock” dichiarò allora il dottore, accavallando le gambe. Sherlock seguì quel movimento con lo sguardo, improvvisamente ipnotizzato dalla figura del dottore: magro, troppo magro, col viso bianco, emaciato, e la stanchezza gli si leggeva sul viso, anche il più stupido tra gli stupidi se ne sarebbe accorto.

“Stai male” disse solo il detective, abbandonando tutta la sua genialità in un angolo della sua mente.
“Si, è vero” rispose John.

“Ma non vuoi stare meglio”
“Anche questo è vero”

“Perché?”

John sentì i polmoni svuotarsi tutto d’un tratto, come se il mondo non avesse più l’aria e il vuoto avesse preso il sopravvento. Perché? Era una semplice domanda di cui non aveva mai pensato di inventarsi una risposta. Lo aveva fatto con “Come stai?”, a cui rispondeva sempre “bene”. Ma Sherlock sapeva perfettamente dove colpire. Aveva semplicemente aspettato.

“Me lo merito, tutto questo dolore” la voce tremò leggermente, le lacrime spingevano sotto gli occhi per poter uscire, ma John Watson non aveva pianto quella notte in ospedale e non aveva intenzione di farlo sei mesi dopo “so che è irrazionale, ma sento che tutto questo sia dipeso da me. Forse ho messo troppo sale nell’insalata, oppure non dovevo comprare quel tè che non le piaceva. O forse ero semplicemente io”

“John-“ eccola, la pietà, per la prima volta nella voce del suo migliore amico.

“No, non farlo –lo interruppe, agitandosi- non avere pietà di me ti prego. Sei l’unico a trattarmi normalmente da quando… non farlo”

John si passò le mani sul viso, mentre una singola lacrima rigava il suo volto. Non era stato abbastanza forte, anche nel trattenersi di fronte a una singola goccia d’acqua salata. Non era capace a fare niente. Fallito.

“Non hai fallito, John. Non ti rendi conto di quello che sei. Sei un uomo straordinario: riesci a sopportare me ventiquattro ore su ventiquattro. Sei stato un ottimo marito, saresti stato un ottimo padre. Non addossarti la colpa di ciò che non puoi controllare”

“Non ci riesco!” urlò improvvisamente John, scattando in piedi. “Non riesco a non pensare e ogni singolo errore che ho fatto, Sherlock, non riesco a controllare la mia mente. Non sono così intelligente, non sono abbastanza per niente, tantomeno per essere un padre, un marito… -sospirò, distrutto- tuo amico. Non lo vedi? Perché non lo vedi?”

“Perché non sei così” rispose Sherlock, assorbendo le urla del suo migliore amico.

Quattro parole. E la corazza di John crollò. Le lacrime cominciarono a scendere copiose, nonostante gli occhi fossero spalancati, intenti ad intrecciarsi a quelli di Sherlock.

“Non sei così” ripeté il detective, alzandosi in piedi.

Fece il primo passo verso di lui, lentamente, e quando vide che John non indietreggiò, accorciò la distanza, e in un secondo gli avvolse le braccia intorno al suo corpo.

Di tutti gli abbracci che si erano dati, quello era forse il più intenso, il più vero. John si sentì scivolare di dosso tutta la tensione, la tristezza, il peso del mondo, dalle sue spalle verso terra, mentre Sherlock lo sosteneva con il suo corpo. Le lacrime gli annebbiavano la vista e la mente era occupata da tutte le sensazioni stupende che quel contatto gli aveva procurato. Era dal giorno del suo matrimonio che non sentiva quel tipo di felicità, quella che ti blocca in piedi davanti all’altare e ti impedisce di muoverti.

Sherlock lo stava ancora abbracciando, quando spostò il viso in modo tale che la sua bocca sfiorasse l’orecchio del dottore.

“Non sei solo –gli sussurrò- non lo sei mai stato”



*il vento è un riferimento a Eurus
N.d.A.: questa canzone mi ha dato del filo da torcere. Non sono familiare con gli aborti, per mia fortuna, quindi ho preferito non descrivere il dolore di Mary, ma piuttosto quello di John, che si avvicina al dolore per un lutto, mischiato a un po' di sindrome del sopravvissuto. Diciamo che sono uscita dalla mia comfort zone. Spero vi piaccia!
-A

 
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: JohnHWatsonxx