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Autore: BabaYagaIsBack    07/06/2021    0 recensioni
Vol. 2
In un corridoio d'ospedale, con il cuore incapace di placarsi, Jay si rende conto di come sia facile incasinare tutto. Mentre si aggrappa con ferocia alla speranza comprende che a Jace è bastato partire, a Seth confessarle il suo amore e a lei lasciare un messaggio in segreteria. Nulla più. I sensi di colpa allora iniziano a lambirle le caviglie, ancorandosi nella carne dei polpacci, e d'improvviso si scopre incapace d'affrontare ciò che le si prospetta davanti.
Impaurita e confusa, Jay arranca tra i rapporti logorati dalle sciocchezze tenute segrete. Fugge senza meta da coloro che fino a quel momento aveva creduto di non poter perdere, obbligandoli infine a levarsi le maschere - da quelle più sottili a quelle più pesanti.
Genere: Generale, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: Lemon | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
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Chapter four
§ Not strong enough §
part three

 

"Cut open my heart
Right at the scar

Listen up
Gonna do what I'm told
Go where I'm told
And listen up
Take a shot in the rain
One for the pain
Listen up
I tried all the way"

- Wait for me, King of Leon

 

Caroline non risponde. Più resto in attesa su una linea telefonica che sembra suonare a vuoto, più mi chiedo se e quando vedrà le mie chiamate. Sono al terzo tentativo per adesso, ma le ho anche inviato un messaggio per essere sicura che sappia che l'ho cercata. Ho bisogno di una spalla su cui appoggiare la tempia, una mano che lenta mi scivoli tra i capelli accarezzandomi la nuca. Ho bisogno di liberarmi dal peso che mi opprime e lei potrebbe essere l'unica a riuscire a sorreggere questo male con me. O almeno questo è quello che credo. Jace ha già dimostrato di essere la persona sbagliata al momento, Liz invece non può capire e Seth... beh, con lui c'è ancora un invalicabile muro invisibile che ci divide, una barriera di cose non dette, di timore e chissà cos'altro. Ed io volontariamente ho deciso di non confrontarmi con lui anche se so che c'è, che è lì in attesa di una mia mossa, di capire. Lo ha scritto in quel messaggio che conservo gelosamente e che ogni tanto rileggo nell'intimità della mia stanza nascondomi sotto le lenzuola in cui, solo qualche settimana fa, abbiamo dormito insieme. Ogni tanto mi pare persino di cogliere il suo profumo tra le pieghe del cotone e quando succede mi ci aggrappo nella flebile speranza di ritrovare lui. Ma non è il giusto. Non lo sarà fin quando non avrò sistemato tutto il resto.

Mentre Londra mi scorre accanto, veloce e caotica come sempre, poggio le dita sul vetro gelido del finestrino. Ho preso un autobus diretto dove non dovrei andare, ho morso le labbra tanto da farle sanguinare e ogni volta che ci passo sopra la lingua sento un bruciore lieve scuotermi, eppure non smetto. Ritmicamente torno a torturarmi come una tossica che consapevolmente si fa del male cercando l'ebbrezza di una dose - magari così facendo arriverà il momento in cui riuscirò a prendere coscienza della realtà, a reagire ed essere forte a sufficienza d'affrontare i miei demoni.

Socchiudo le palpebre e sento le tempie pulsare.

Forse Caroline è agli allenamenti di danza, constato provando a ricordare gli impegni segnati sulla sua agenda. Oppure ha accompagnato la madre e la sorella da qualche parte; in fin dei conti ora che la scuola è finita non ha molte scuse per evitarsi gli impegni familiari, così ciclicamente ci finisce in mezzo. Inoltre, visto che io sono in questa condizione di autocommiserazione e disperazione, chiusa in me stessa come mai prima, le sue vie di fuga si sono ridotte all'osso.
Deglutendo questa consapevolezza ritorno a guardare il panorama al di là del vetro. Non riconosco questi edifici, i negozi che passano svelti uno dopo l'altro; non riesco a dare un nome alle strade, eppure so di essere vicina. Me lo sento nelle membra nonostante abbia smesso di contare le fermate dal momento in cui il mio culo si è spostato dal sedile della metro a quello su cui mi trovo adesso, di certo più comodo ma non meno lercio.
Stanca sposto lo sguardo sullo schermo led che torreggia sopra la testa dei passeggeri.

Ancora tre stop.
Solo tre stop.

Forse Caroline è con Misha, valuto tornando a riflettere sugli impegni della mia migliore amica. Già, direi che è una possibilità più che plausibile, quindi perché non ci ho riflettuto prima?
Nuovamente alzo il cellulare davanti al viso, apro la rubrica e scorro tra tutti i contatti fino ad arrivare a quello della ragazza che una volta era la mia nemesi.
Posso chiamare lei, penso. Posso chiederle di Caro, farmela passare e supplicarla di venirmi a prendere prima di fare una sciocchezza - o piuttosto farmi supportare in caso non sia una decisione tanto ridicola - così pigio sull'icona verde accanto al suo nome e mi porto poi il telefono all'orecchio.
Ho lo stomaco stretto in una morsa lieve, l'agitazione mi attanaglia in quel suo modo quasi familiare, eppure non ho alcuna idea del motivo per cui sia così nervosa.

Il suo telefono suona una volta.
Lo fa ancora.

Probabilmente non risponderà nemmeno lei, soprattutto se sono insieme. E come biasimarle? Solo qualche settimana fa lo avrei fatto anche io. Con Seth al mio fianco scordavo l'esistenza di ogni cosa e persona, anche quelle più importanti.
Di certo quelle due staranno passeggiando in qualche via affollata della City, oppure staranno guardando un film in qualche cinema di periferia. C'è anche la possibilità che stiano scopando a casa di Misha, al sicuro dalle critiche della madre di Caro e sopra lenzuola che costano più del mio intero guardaroba. Me le immagino strette l'una all'altra a sfiorarsi e ridere come il giorno in cui le ho beccate nei bagni della Saint Jeremy, eppure so che non dovrei. Ciò che fanno insieme dopotutto non è affar mio.

Un altro squillo si sussegue ai precedenti e involontariamente mi viene da pensare che sì, staranno certamente scopando su quelle lenzuola costose.

Ancora una volta mi mordo le labbra e il sapore del sangue mi pizzica la punta della lingua. Sono stata una sciocca a credere che avrei trovato conforto con tanta facilità, in fin dei conti la giornata era già iniziata male e non sarebbe mai potuta migliorare.

«Jay?»
La voce della mia coscienza mi chiama, così mi prendo la fronte con la mano libera. So già cosa vuole dirmi: "Jay? Non credi di essere un po' troppo pessimista?" No. Assolutamente. Se fossi davvero pessimista penserei a qualcosa che al momento non voglio nemmeno concepire, distruggerei la calma apparente in cui galleggio valutando gli scenari più avvilenti. L'ho già fatto e ogni volta mi sono ritrovata schiacciata tra le acque di un mare scuro fatto di colpa e dolore.
«Jay, ci sei?»
No. Anche se il corpo è qui la mente è altrove, si è persa da qualche parte nel deserto che sento vivermi dentro.
«Raven, se è uno scherzo vengo a prenderti per i capelli, mi hai capita?» Corrugo le sopracciglia. No, questa non è affatto la voce della mia coscienza, questa è... «M-Misha?»
«No, la fata turchina. Chi cavolo dovrei essere, scusa?»
Quasi mi sento sollevata nel sapere che è lei.
«Hai ragione. Io... mi spiace, ero distratta.» Passandomi una mano sul viso premo appena le dita intorno al mento. Devo ritrovare un minimo di lucidità, mi dico, non posso perdere coscienza di ciò che mi circonda con così tanta facilità. Sappiamo tutti che potrei finire con il fare qualcosa di pericoloso, come attraversare la strada senza guardare, se non mi do una svegliata. «Ti chiamavo per sapere se Caroline è con te.»
Dall'altro capo della cornetta sento sbuffare: «Vorrei che fosse così, credimi, ma purtroppo è alla gara di nuoto della sorellina.»
«Oh...» mi sfugge di bocca prima ancora che possa rendermene conto, e il silenzio che ne segue è pesante, si riempie della sua confusione e del mio rammarico.
«Avevi bisogno di lei?»
Mi lecco il taglio sulle labbra. Come previsto questa giornata sta andando di male in peggio.
«No, fa nulla, tranquilla. Mi arrangio.»
Ancora silenzio, stavolta però appare diverso. Non so quali sensazioni lo stiano colmando e a dire il vero è faticoso prestargli la giusta attenzione, così torno a stringere la pelle del mento. Non voglio pensare più del necessario, mi costa troppo. A dire il vero non devo pensare più del minimo indispensabile per non farmi investire, altrimenti potrei dire qualcosa di stupido, fare qualcosa di sbagliato. Dovrei limitarmi a salutare Misha e riattaccare, dopotutto ho chiamato per sapere di Caroline, per parlare con la mia migliore amica - e se lei non c'è è inutile che io disturbi una persona che di certo ha di meglio da fare che stare al telefono con me, così schiudo nuovamente le labbra, ma prima che possa biascicare un "ciao" lei mi precede.
«Dove sei?» La sua voce d'improvviso spacca il filone sottile dei miei pensieri, mi coglie alla sprovvista. Sento il cuore gonfiarsi insieme al petto, gli occhi bruciare. Perché d'un tratto mi viene da piangere?
Deglutisco provando a rimandare ciò che pare inevitabile. «Sul 70» le rispondo con un'innocenza disarmante, quasi lei possa capire dove sia diretta, quale tratta questa linea copra e perché io la stia percorrendo, eppure, sorprendentemente, lo fa. Nonostante il mio scetticismo Misha mi prende in contropiede.
«Che stai andando a fare là? Quante fermate ti mancano?» Sa davvero la tratta di questo autobus? Oppure per lei è così semplice leggermi nella mente? Forse la realtà dei fatti è che non me ne sono mai accorta, ma a differenza di tutti gli altri lei è quella che mi ha studiata di più, che mi conosce meglio.

Sento i muscoli del viso tendere con forza gli angoli della bocca verso il basso, piegarli in una smorfia che non vorrei assumere. L'arrivo delle lacrime è imminente, lo sento con l'appesantirsi del petto - ma non dovrebbe, non ora, non su un ammasso di latta pieno di sconosciuti o lontana da quello che è stato il mio rifugio negli ultimi giorni.

«Tre.»

Misha tace, soppesa le parole da dire arrivate a questo punto. Preferirei continuasse a parlare: se lo fa posso distrarmi, forse riuscirei a combattere meglio l'esigenza di singhiozzare. Lei però tutto questo non lo sa, così continua a restare in silenzio. Quasi certamente starà pensando a quanto sia patetica.

«Massimo mezz'ora e sono lì, okay?»
Alzo gli occhi al cielo, cerco di non lasciarmi sopraffare: «N-non preoccuparti, d-davvero. Non-»
«Ho detto che arrivo, chiaro?» il suo tono è deciso, non ammette repliche. Per un attimo è come se fossimo tornate tra i banchi delle aule che ci hanno viste crescere: «Chissà in che condizioni sei, santo cielo. Come minimo finisce che ti prendono per una paziente scappata dal reparto di psichiatria... Mi raccomando, Jay, aspettami alla fermata e non muoverti da lì finché non arrivo. Se non ti trovo ti mando a casa il conto del taxi, hai capito?»
Annuisco ignorando il fatto che lei non possa vedermi. Agito la testa svelta e mi copro la bocca con il palmo libero. Non so come dovrei reagire, forse sarebbe meglio ringraziarla e rifiutare questa sua gentilezza, eppure non ci riesco. Di gola non mi esce alcun suono.
«Jay?» Mi chiama ancora, forse per essere certa che l'abbia ascoltata. «Aspettami.»

 

***
 

Ed io lo faccio. Davanti ai cancelli del Queen Charlotte and Chelsea l'aspetto. Con il cuore stretto in gola, oppresso dalla mancanza di spazio per poter battere nella giusta maniera, osservo le finestrelle che danno sulla strada. Si assomigliano tutte, anche se alcune hanno le tende tirate e altre no. So di non essere dove lei mi ha detto di restare, però le gambe si sono mosse da sole. Non torno qui dalla mattina dopo l'incidente, eppure è come se non me ne fossi mai andata. In bocca sento ancora il sapore acido del vomito, sulle guance le lacrime secche.
Mordendomi il labbro osservo i rettangoli sulla facciata con il desiderio di potermi soffermare su uno di loro. Mi piacerebbe che gli occhi riuscissero a spiare oltre il vetro di ogni finestra per scorgere una sagoma familiare, un viso amico, uno sguardo a cui aggrapparmi con gioiosa disperazione, peccato che non abbia la più pallida idea di quale stanza sia quella di mio interesse. O meglio, ne conosco il numero, ma non so su quale piano si trovi, se sia nel lato sinistro o destro dell'edificio; magari dà addirittura sull'altra facciata e anche sforzandomi o scongiurando una qualche divinità superiore non riuscirei a trovare nulla.

Fa paura.
Ho paura, che forse è diverso.

I ricordi e le ansie di quella notte mi attanagliano, si premono al collo come mani che vogliono soffocarmi, uccidermi, schiacciare quel fottuto cuore che ho in gola fino a farlo esplodere.

Me lo meriterei.

E chissà se anche Charlie la pensa così. Chissà se sta bene, ora. Chissà se vorrà ancora vedermi, parlarmi, abbracciarmi.

«Cosa non ti è chiaro del "aspettami alla fermata"?»
Mi volto anche se a fatica. Vedo Misha McCoy avanzare lungo il marciapiede con i capelli rossi che svolazzano ai lati del cappuccio della felpa. Non sembra lei. Con quei vestiti così sportivi e il viso privo di trucco ha ben poco della ragazza con cui ho avuto a che fare per tutti questi anni, eppure non c'è dubbio che sia lei. Il modo in cui arriccia la bocca, le falcate decise, quello sguardo indispettito che stranamente non mi innervosisce, ma piuttosto mi conforta. Grazie a dio è qui.
Tiro gli angoli della bocca nonostante dubiti ne esca un sorriso convincente: «Scusami» e a dispetto di quanto mi sarei aspettata, la sua espressione si addolcisce. Ad ogni passo in meno che ci separa la sua faccia si fa meno truce, i suoi occhi languidi.
«Stai aspettando da tanto?»
Scuoto la testa. Siamo una di fronte all'altra e ci fissiamo come pochissime volte abbiamo fatto prima - e più i secondi si sommano, amalgamandosi con il silenzio che ci circonda, più sento gli occhi bruciare, tentare di tradirmi ancora.
Merda, mi lascio sfuggire tra un pensiero e l'altro maledicendomi per tanta inettitudine. Non posso mettermi a piangere ora, non alla mercè di... Mi umetto le labbra, poi discosto lo sguardo. Non lo so nemmeno io da chi o cosa stia cercando di nascondermi; semplicemente voglio evitare di crollare adesso, di farlo senza potermi poi rifugiare in un posto sicuro.
Tipo camera mia o il letto di Seth. Tipo tra le braccia di Benton.

«Perchè sei venuta qui?» Con le mani in tasca e la testa piegata da un lato, Misha mi guarda dritta in viso quasi stia cercando di aprirmi il cranio e capire quali pensieri vi si trovino dentro. Si rattristerebbe nello scoprire che c'è solo timore?
Alzo le spalle e stringo i pugni. Ancora una volta provo a cercare tra le finestre dell'ospedale un segno, una sagoma conosciuta; ciò che trovo però non è diverso da prima.
Quanto vorrei vederti, Benton. Eppure non ho il coraggio di oltrepassare il perimetro di questo nauseante ospedale, le mie gambe non hanno la forza di muoversi verso la reception e, ancor meno, la mia voce ha la sfacciataggine di pronunciare il tuo nome.
«Perchè è colpa mia» confesso d'improvviso, forse nemmeno rendendomene conto. È più una risposta a me stessa, alla codardia che mi blocca, ma nel momento in cui mi sfuggono queste parole di bocca sento la pressione sul cuore allentarsi appena. Già, non riesco ad andare da lui perché lo temo, perché tremo alla sola idea che possa non volermi più al suo fianco.

«Come?»
Non le rispondo e nemmeno riporto l'attenzione su di lei. Non voglio sapere cosa le passa per la mente. «Jay, che intendi dire?»
Sospiro: «Esattamente quello che ho detto.»
Misha muove un passo. Sento lo scricchiolio delle sue suole sull'asfalto e con la coda dell'occhio la noto avvicinarsi.
«Jane...» so che vorrebbe dire qualcosa di consolatorio, so che vorrebbe placare ciò che mi fa stare male, ma nulla può farlo. Nulla a parte Charlie, quella stessa persona che non ho le palle di incontrare.
Perché sono una codarda colpevole. Una stupida immatura.

«Sono stata io a supplicarlo di tornare a Londra» tremo. È la prima volta che lo dico ad alta voce, la prima in cui confesso ciò che tanto ho tentato di tenere segreto.
«M-mi mancava. Mi mancava da matti e... avevo bisogno di lui» la prima lacrima scende sempre lentamente, non so se qualcuno ci ha mai fatto caso; fa fatica ad emergere dagli occhi, a scavalcare gli argini delle ciglia per poi farsi strada lungo il viso. Ed io in questo momento sento la mia colare con inarrestabile timidezza sulla guancia. «Volevo che tornasse a casa per far smettere Seth e Jace di litigare, per fargli dire che nonostante tutto mi voleva ancora bene e che sarebbe rimasto per me. Con me!»
D'improvviso sono un fiume in piena, non riesco a fermarmi. Le parole escono di bocca una dopo l'altra, si fanno largo come uno tsunami. E che sia giusto o sbagliato poco m'interessa, devo dire queste cose a qualcuno, a una persona che so non mi tradirà - e Misha lo è.
«L'ho chiamato in lacrime quella sera, l'ho supplicato mentre mi aggrappavo alla porta di casa sua nella dannatissima speranza che si aprisse e allora lui si è messo in auto! Ha detto che sarebbe arrivato il prima possibile, capisci? Ha detto che dovevo solo aspettarlo, che sarebbe tornato da me e che dovevamo parlare e... e allora... e allora è successo!» Scoppio. Al pari di una bomba a orologeria i singhiozzi tuonano intorno a noi, scuotendomi sin nelle viscere. Sopraffatta dai singulti mi raggomitolo su me stessa senza alcuna dignità e piango, continuando probabilmente a biascicare frasi senza senso. «È colpa mia! È sempre colpa mia, dannazione! Se non lo avessi chiamato... se non lo avessi fatto sentire in dovere d-di tornare forse... forse non lo avrei... non lo avrei quasi... ammazzato!» Pigio i pugni sugli oggi, scuoto la testa. «Sono una persona orribile! Sono il rigetto del mondo! Dovevo esserci io in quell'auto, non lui! Charlie non... lui non si meritava il male che gli ho fatto. Con che presunzione posso desiderare di vederlo? Eh?! Con che coraggio posso volermi stringere a lui? Dopo quello che è successo, dopo ciò che ha subito per colpa mia dovrei... io dovrei...»
Il peso di un corpo che si schiaccia al mio mi fa tacere, sussultare. Il suo calore pare bruciarmi addosso nonostante gli strati di vestiti che separano il busto di lei dalla mia schiena. Misha mi stringe a sé con così tanta forza che quasi pare voglia inglobarmi, in modo da zittire il dolore. Non lo fa perché la sto imbarazzando, no. Non si comporterebbe a questo modo se il motivo fosse quello. Lo fa per me, perché sente ciò che mi dilania.

«Smettila, Raven.»
Ha la voce spezzata.
«Non azzardarti a dire simili scemenze» si preme a me con più trasporto, poi inizia a passarmi una mano tra i capelli, lungo la curva dell'elice fino alla nuca. «È stato un incidente, mi hai capita? Un fottutissimo incidente e nulla più. Tu non hai colpe e-» deglutisce, quasi faticasse a parlare: «e lui lo sa. Sa quanto ci tieni. Non potrebbe mai odiarti, okay? Mai.»
Agito la testa: «Sì, invece...sì, che può farlo. Gli ho fatto male così tante volte che anche io mi odio!»
La sento staccarsi, poi le due dita mi si premono in viso. Lo tira a sé costringendomi a guardarla in faccia e ciò che vedo è lo stesso sguardo furioso e deciso di quella volta.

«Ascoltami bene, Jay. Charlie ti vuole bene. Te ne vuole a tal punto da mettersi in viaggio nel cuore della notte solo per abbracciarti e dirti che va tutto bene. Chi altro lo farebbe?»
Continuo a piangere. Le lacrime cascano copiose, le bagnano le mani ma lei non fa una piega. Non le rispondo. Non so che dire. Così alla mia ennesima tirata di naso lei socchiude gli occhi poggiando la fronte alla mia: «Dimmi cosa vuoi che faccia per farti smettere, ti prego.»
Dovresti mettere a tacere ogni cosa, Misha. Dovresti spogliarmi di questo senso di colpa, degli errori, del dolore. Dovresti sfilarmi di testa i ricordi, metterli in una giara e nasconderli. Dovresti farmi smettere di essere la ragazza che sono, quella che ha distrutto tutta la sua vita e si è trascinata dietro le persone a cui più voleva bene.

«Fammi sparire» sussurro con la bocca impastata dal pianto - e lei, senza più alzare lo sguardo su di me, annuisce.
«Okay.»


 
   
 
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