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Autore: Challenger    18/06/2021    0 recensioni
Siamo alla resa dei conti...
Genere: Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Sto parlando con te! Ci sei?!», Giacomo stava sventolando la sua enorme mano davanti la mia faccia. «Cosa? Io…, ma dove siamo?», dissi spaesato, mi sentivo come se avessi dormito profondamente per ore e mi fossi appena risvegliato. «Siamo nel mio ufficio, sei venuto a prendere i contratti che ho chiuso questo mese», era visibilmente alterato. «Ah», non seppi dire altro. «Senti…non ho tempo da perdere, ho molte cose da fare e i tuoi vuoti di memoria non sono in cima alla lista, perciò prendi i contratti e vattene», era stizzito eccome! Presi quei maledetti fogli e me ne andai senza proferire verbo. Mi sforzai di ricordare l’ultima cosa che avevo fatto: niente, buio totale. Dopo la festa di Martina è come se qualcun altro avesse vissuto la mia vita. Non ricordavo nulla degli ultimi tre giorni. La questione cominciava sul serio a preoccuparmi. * Scoprii, con fastidio, che quello stesso giorno toccava a me fare gli straordinari e non a Enrico. Ciò significava che sarei dovuto rimanere fino alle 20.30 in azienda. Che palle...!! La mattinata trascorse lentamente e all’ora di pranzo uscì con Stefano, Laura, Valeria e Sara. Andammo nel ristorante più vicino. Stava piovendo. Offrii a Laura il braccio e un passaggio sotto il mio ombrello, accettò. Sara aveva il suo; Valeria, in modo civettuolo, chiese a Stefano di farle da sostegno — aveva paura di scivolare a causa della pioggia, ah! «Mi sento al sicuro accanto a te! Gli uomini alti mi danno un senso di protezione», disse leziosa, stringendosi sempre più a lui. Povera illusa, se non fosse per il suo essere gentile, Stefano non la guarderebbe neppure. «Grazie madame, felice di farle da cavaliere», le rispose platealmente e quella giù a ridere come una sciocca. Puah! Il pranzo mi rimase sullo stomaco. Forse qualcosa mi aveva fatto male, probabilmente il vino. Appena rientrato il signor Mattei mi chiamò nel suo ufficio. «Sa dirmi cos’è questo?», sventolava un fascio di fogli nella mia direzione. Li guardai. «Sì. È il bilancio semestrale, perché?», alzando le spalle. «Perché? Perché è una schifezza! È tutto sbagliato!!», sbraitò. «Impossibile! Sono bravo nel mio lavoro, non faccio errori», gli risposi scocciato, lavoravo per lui da vent’anni e non avevo mai sbagliato! Pezzo di merda ingrato! «Quindi mi stai dando del bugiardo! Guarda tu stesso!!». Gli strappai dalle mani quei cazzo di fogli. Diedi a tutti una scorsa. Effettivamente non avevano senso, ma non potevo averli compilati io! Ne ero più che certo, non avrei mai potuto fare stupidi errori come quelli, anche se devo riconoscere che nell’ultimo periodo non ero più me stesso e probabilmente dovevo averli compilati in un momento di confusione. Chissà. Ma non potevo mostrami insicuro così dissi: «È uno scherzo?», li lanciai sulla scrivania «non sono stato io a scrivere quella roba». «E chi è stato?! Il fantasma formaggino?! È LA TUA SCRITTURA! Dovrei licenziarti!», era davvero furioso. Non potevo rischiare di farmi licenziare. «Posso rimediare, non la deluderò». «Sarà meglio». Enrico si propose di aiutarmi a riscrivere il maledetto bilancio — disse che qualche straordinario in più faceva comodo anche a lui. Era davvero un bravo ragazzo. Grazie a lui riuscì a terminare il lavoro in tempo. Lo mandai a casa, mi sarei preoccupato io di tornare dal pezzo di merda per riconsegnare il lavoro sistemato. Mi girava la testa. Sbandavo da una parte all’altra, i contorni erano sfumati, come avvolti dalla nebbia, i colori alterati. “TI STO ASPETTANDO”… “LA TUA FINE È VICINA”… Oh no…quella voce infernale…era di nuovo nella mia testa! Quello spettro girava intorno a quello che doveva essere il mio corpo, ma non riuscivo a sentirlo come tale…avevo caldo...sudavo…stavo per svenire…quella voce sibilava nelle mie orecchie, le sentivo sanguinare… «BASTA!! BASTAAAA!! SMETTILAAAA, ESCI DALLA MIA TESTAAAAA!!!», gridavo fortissimo nella speranza di sovrastare quel suono agghiacciante che mi faceva accapponare la pelle. Il bastardo si fermò al mio fianco, poggiò la mano cadaverica sulla mia spalla; sussurrava, sentivo il suo alito infuocato e putrido sul collo. In un impeto di rabbia mi voltai e lo afferrai per quello sporco abito nero, e con tutto il fiato che avevo nei polmoni gli sputai tutto il mio veleno: «LASCIAMI IN PACE! LASCIAMI IN PACEEEEE MALEDETTO FIGLIO DI PUTTANAAAAA!!! TI DISTRUGGERÒ, TE LO GIUROOOOO!!!!», lo gettai a terra e lo presi a calci, non so dove o se lo stessi colpendo, ma ero ormai diventato una furia inarrestabile!! «FERMO! FERMO! MA CHE FAI?! MARCO FERMATI O LO AMMAZZI!!», qualcuno gridava, qualcun altro mi afferrò da dietro immobilizzandomi. «LASCIATEMI, FINALMENTE HO PRESO LO STRONZO CHE MI PERSEGUITA DA MESI!!», scalciavo nel tentativo di liberami dalla stretta possente. Sentii due mani calde e morbide che mi afferravano con dolcezza il viso, d’un tratto tutto tornò alla normalità. I contorni tornavano a delinearsi, le pareti e i mobili riprendevano il loro colore originale. Davanti a me c’era Laura. Mi stava dicendo qualcosa ma non riuscivo a sentirla, le orecchie erano ovattate. Stefano mi tratteneva. Era più alto e più forte di me. «Marco stai bene? Cosa ti è preso?», Laura mi guardava preoccupata; il suono della sua voce era più gradevole di un coro angelico. «Questa è l’ultima goccia! SEI LICENZIATO! PRENDI LE TUE COSE E VATTENE!», Mattei era fuori di sé dalla rabbia, aveva il volto paonazzo e le vene stavano per esplodere tanto erano gonfie. Non capivo cosa stesse accadendo. Ero parecchio disorientato. «Che ti aveva fatto quel povero ragazzo per meritarsi un trattamento simile?», mi chiese Laura sconvolta. «Ma di chi stai parlando?», ero frastornato. «Portatelo lontano da qui, prima che faccia del male a qualcun altro! Via! SEI LICENZIATO, PERDIO!», stavolta Mattei faceva sul serio. Stefano allentò la presa. Abbassai lo sguardo: Enrico era sdraiato a terra con il viso pieno di sangue. Mio dio, che avevo fatto? «ENRICO, ENRICO! NO, NO TI PREGO, ENRICO NO!!», lo imploravo di non morire. Supplicavo un qualunque dio di salvare quel povero ragazzo. Non se lo meritava. Cazzo!! Non doveva essere lì!! Lo avevo mandato a casa. Perché era rimasto?! Stefano mi trascinò via mentre invocavo ancora il nome di Enrico. Tutti ormai mi considerano un pazzo furioso; nessuno si fidava più di me; avevano paura di me, nessuno mi difese. La mia reputazione era andata a farsi fottere per sempre. «Che cazzo ho fatto? Che cazzo ho fatto?», ripetevo mentre le lacrime scorrevano copiose. «Non è colpa di nessuno. Enrico si trovava nel luogo sbagliato al momento sbagliato», eravamo nell’ufficio di Stefano, il quale cercava di alleviare le mie pene. «È solo colpa mia! Non dovevo permettergli di aiutarmi, dovevo mandarlo a casa terminato il turno», sbiascicavo inconsolabile. Dovevo andarmene da lì. Non ne potevo più stare in quel posto di merda. «Ho bisogno di andare a casa, potresti accompagnarmi tu?». «Certo che sì! Dai, andiamo». Stefano stava per chiudere la porta quando notai un particolare. Qualcosa non quadrava, ma nello stato in cui mi trovavo non riuscivo a capire cosa. Passai una nottataccia, tra il pensiero di Enrico e le varie allucinazioni non riuscii a chiudere occhio. Ero uno straccio, non mi reggevo in piedi, barcollavo per tutta casa. Seduto sul divano cercavo di riordinare i pensieri, quando ebbi un flash. Il particolare nell’ufficio di Stefano era un ombrello rosso, proprio come quello che aveva l’uomo insieme a Laura! No…non poteva essere…non lui. Era assurdo! Stefano era il tipo più tranquillo e pacifico che avessi mai incontrato, non poteva essere lui. Dovevo indagare per escludere questa ipotesi paradossale. * «Che ci fai tu qui? Il capo non ti aveva buttato fuori?», mi schernì Giacomo quando mi vide entrare nell’azienda. «Già, ma devo prendere le mie cose», gli risposi a tono. «Non saresti dovuto tornare», era un avvertimento? Bah, chissenefrega, al diavolo lui e tutti gli altri. Visto che ero lì, presi per davvero le mie cose, poi passai da Stefano. Non c’era. Meglio, avrei potuto dare un’occhiata approfondita. Rovistai ovunque, ma niente. Quel cazzo di ombrello non c’era. Non capisco perché fossi così sorpreso. Insomma…era una bella notizia, no? Significava che Stefano non c’entrava nulla con tutta quella storia. «Ehi! Giacomo mi aveva detto che eri qui, ma non credevo dicesse sul serio. A proposito, perché sei nel mio ufficio?», il suo tono non mi piaceva, mi accusava di qualcosa forse? «Ehm…stavo cercando te. Sono passato a prendere le mie cose e con la scusa volevo salutarti e chiederti notizie di Enrico», provai a sorridergli. Mi disse che a quel poveretto avevo procurato un trauma cranico. Gli avevo rotto il naso, la mascella e diverse costole. Era in coma farmacologico. Mi sentivo terribilmente in colpa. Me ne andai. Stefano mi aveva liquidato con freddezza e la cosa non mi piacque affatto. Una volta fuori alzai lo sguardo verso la sua finestra, stava discutendo con Giacomo, chissà per quale altro dramma. * Presi a seguire Stefano non appena usciva dall’ufficio. Per giorni non accadde nulla, almeno credo, le mie sempre più frequenti visioni allucinogene mi davano il tormento. La realtà era alterata e la fantasia diventava reale. Cazzo! Facevo davvero fatica a distinguerle a volte! Non ne potevo più!! Una sera, però, gli sforzi furono ripagati! Stefano era in compagnia di Laura e avevamo un comportamento molto sospetto: si guardavano spesso le spalle e bisbigliavano agitati. Li pedinai per un po’. Si incontrarono con dei tipi loschi. Le loro facce, infatti, non promettevano nulla di buono. Erano facce aggressive, brutali, qualcuno aveva anche degli strani tatuaggi. Che ci facevano un sempliciotto e una donna sofisticata con quei gorilla? Li spiavo da dietro un angolo buio, attento a non fare alcun rumore. Il tizio più grosso aprì il portabagagli di un’auto e con forza sovraumana sollevò…un corpo! CAZZO! Stefano e Laura avevano pagato per ammazzare qualcuno?! NO! IMPOSSIBILE! Laura a malapena parlava con Stefano! Non potevano essere complici di un atto così disumano!! Era forse un’altra allucinazione? Sinceramente questa volta speravo proprio di sì! Seguitavo a guardare, i miei occhi non si staccavano dalla scena, volevo essere sicuro che stesse accadendo sul serio. Lo sfortunato fu costretto in ginocchio, per fortuna non era ancora morto, solo stordito. Quello che aveva la faccia completamente tatuata — probabilmente il capo della gang — sfilò il cappuccio dalla testa dell’ostaggio. Non potevo crederci…non era un’anonima vittima…era…GIACOMO! La faccia lorda di sangue e lividi; era in una situazione di merda, ma il sorriso beffardo non lo aveva perso. Guardava dritto negli occhi Stefano, con disprezzo. «Sei patetico. Cos’è? Non sei abbastanza uomo da uccidermi tu stesso?», ghignò, poi: «sei un pisciasotto, vero? Ti servivano le tue balie per farmi questo, senza di loro non mi avresti nemmeno sfiorato con un dito! Né tu né quella puttana che ti porti dietro!!», rise sguaiatamente. Non avevo mai visto Stefano così: il suo sguardo era vuoto, puntava gli occhi su Giacomo, in mano l’ombrello rosso pronto ad essere usato come un attizzatoio rovente da infilzare nel petto di quel povero sciagurato. Non emetteva suono, la mascella contratta. Faceva davvero paura, era inquietante. Ripensai alla prima volta che lo vidi…fin da subito mi diede i brividi, ora capisco il perché. «Non ho mai sopportato la tua arroganza e volgarità. Sei sempre stato una merda e da merda te ne andrai», il viso di Stefano era diventato una maschera deforme, la sua risata era stridula. Prese a picchiare selvaggiamente Giacomo. Gli sgherri guardavano la scena soddisfatti, Laura era immobile e impassibile al massacro. Quell’atto fu talmente improvviso che ebbi un sussulto che mi costò caro! Colpii una maledetta lattina che avevo in mezzo ai piedi. Cazzo, non mi ero accorto che era lì!! Quel demonio alzò lo sguardo su di me: «PRENDETELOOOOO!!!» strillò fuori di sé. Cominciai a correre a più non posso, ma inciampi e mi piombò addosso come un falco il tizio palestrato. Era la fine! Dopotutto l’ombra aveva ragione…la mia fine era vicina. «Guarda, guarda chi abbiamo qui…il piccolo allucinato», mi sbeffeggiò. Giacomo era riverso a terra con la testa fracassata. Anche se la mia vita stava andando a puttane ci tenevo ancora alla mia pelle, decisi di supplicare. «Ti prego…non uccidermi…non…non ho visto niente, in fondo sono solo un povero pazzo, no?», tentai di sdrammatizzare. «Oh, sei veramente un illuso…sei arrivato al momento giusto invece. Verrai accusato tu dell’omicidio di questo avido bastardo, io, come sempre, ne uscirò pulito come il culetto di un bambino», il suo ghigno era orribile. Come poteva una persona gentile e tranquilla come lui diventare un mostro simile? «Cosa? Non ci crederà nessuno! Non avevo motivo di ucciderlo!». «Beh, non avevi motivo di pestare nemmeno Enrico, eppure ora è all’ospedale per colpa tua». «Laura! Ti prego! Tu non puoi farmi questo!», la supplicai di farlo ragionare e di aiutarmi in quella situazione. «Non hai ancora capito, vero? Tu eri il capro espiatorio perfetto. Giacomo aveva alzato troppo la testa, doveva pagare! Secondo te, come ho fatto ad ottenere il lavoro? Abbiamo pagato qualcuno per far sembrare quello di Gianni un incidente. Stefano ha suggerito il mio nome a Mattei e da lì abbiamo orchestrato tutto a dovere», lo disse senza batter ciglio, senza anima, senza rimorso. «No, non ci credo! Tu non sei così!!», ero sull’orlo di una crisi di nervi. Riprese Stefano: «il primo passo è stato facile. Dovevo tenerti sulle spine, spingerti all’esaurimento. Qui è entrata in gioco lei», la indicò: «nessuno può resistere al fascino sublime di Laura, soprattutto uno schifoso donnaiolo come te. Il secondo è stato ancora più facile, mettere LSD nel tuo caffè sotto forma di zollette di zucchero. Hai tante dipendenze che quasi mi dispiace sia stato così semplice ingannarti! Il resto è venuto con sé. Grazie alle tue visioni tutti hanno visto quanto fossi squilibrato e picchiare Enrico è stato un colpo di fortuna!», rideva di gusto mentre lo diceva. Maledetto figlio di puttana. Zoccola traditrice. «Perché lo hai fatto? Perché lo hai ucciso? Che ti aveva fatto?», cercavo di temporeggiare nella speranza che qualcuno di paesaggio vedesse tutto e chiamasse la polizia. «Vedi Marco, io sono l’erede di un capo mafioso. Mio padre ha voluto che crescessi “in incognito”, cosicché potessi operare indisturbato. Giacomo era un mio cliente abituale — la mia famiglia commercia droga — e ha ficcanasato un po’ troppo nei miei affari; ha alzato la testa, mi ricattava…non potevo permetterglielo oltre. Aveva perfino capito che ti stavo drogando! Tu eri la pedina perfetta e la recita di mia moglie è stata impeccabile», MOGLIE?!?! Da non credere. Mi avevano fatto fesso. Mi ero fatto ingannare da queste due viscide merde e quell’abietto di Giacomo non mi aveva detto nulla! Ero quasi contento che fosse morto! «Andrete entrambi all’inferno, bastardi!!», gli gridai in faccia, in risposta ebbi un pugno sulla bocca. Mi picchiarono, lasciandomi mezzo vivo e mezzo morto. Si dileguarono in fretta al suono delle sirene della polizia. Non capivo nulla, i rumori si confondevano, quasi certamente persi i sensi. «Signore…? Signore mi sente? Accidenti! Dobbiamo fare in fretta o lo perderemo!», era la voce di una donna giovane, sui trenta, trentacinque forse? Non saprei – so solo che era una donna giovane dai capelli castani – è l’ultimo ricordo prima di svenire di nuovo in ambulanza. Mi chiamo Marco Pastrani, ho 42 anni, vivo in Via dei Mille 107 e sono un ordinario impiegato d’ufficio. Vi chiederete cosa ci fa un uomo comune come me in un vicolo malfamato, semplice: sono testimone di un omicidio. * Mi risvegliai in ospedale, la testa pesante e confusa, provai a stropicciarmi gli occhi, ma non potevo: le manette legavano le mani al letto. Urlai. Entrò un’infermiera, le chiesi per quale motivo ero ammanettato, ma quella non rispose. Entrò un poliziotto e un medico. Il poliziotto mi dichiarò in arresto. Stefano aveva ragione, sarei andato dentro per omicidio. Un omicidio commesso da lui, non da me!! Provai a spiegare la situazione ma non servì a nulla. Il medico confermò che ero un drogato pericoloso. Non sarei andato in prigione, ma in manicomio. Urlare, gridare, sbraitare la mia innocenza non servì a nulla, se non a farmi sembrare ancor più fuori di testa! Le allucinazioni non mi davano tregua; erano aumentate e si erano amplificate dopo l’omicidio. * Marco venne trasferito in una cella d’isolamento e stretto nella morsa della camicia di forza, era diventato ingestibile: malmenava e tormentava gli altri ospiti della struttura. Vedere un giovane, con ancora tutta la vita davanti, finire in quel modo — litigare e prendere a testate le pareti della cella — era straziante, ma era l’unico modo per tenerlo al sicuro da Stefano. Laura guardò per l’ultima volta, impietosita, dalla grata della porta imbottita, il suo vero amore.
   
 
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