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Autore: MaxB    13/07/2021    4 recensioni
Questa è una storia che ho iniziato a scrivere dopo aver finito di leggere il secondo volume, quando ancora doveva uscire il terzo.
La considero una prosecuzione della storia originale come se il terzo libro non esistesse, e narra quindi delle vicende familiari che si sono succedute dopo la fine de Gli scomparsi di Chiardiluna, con leggere modifiche alla trama.
Sostanzialmente, Thorn e Ofelia saranno alle prese con la vita quotidiana da coppia sposata, cercando di capirsi, vivere insieme e prendere confidenza l'uno con l'altra.
E con un inaspettato desiderio di Ofelia...
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ciao a tuttiiiii! Il capitolo non è molto lungo, lo ammetto, ma credo che concluda degnamente la vacanza su Anima.
Dal prossimo capitolo ci sarà qualche novità e il ritorno alla normalità.
Per coloro che stanno aspettando un altro capitolo di Into the deep non ho molte buone notizie. Non ho scritto nulla di nulla e ultimamente ho poco tempo per continuare questa ff, a cui vorrei dare la piorità per riuscire a finirla, prima o poi xD
Grazie mille a tutti in anticipo, per la vostra costanza, e a presto!


Capitolo 35

Il giorno dopo, la pioggia costrinse gli animisti in casa. Per Ofelia fu un sollievo, perché significava pochi intimi a casa di sua madre. I parenti davvero stretti. Quindi si strinsero nel soggiorno della sua casa d'infanzia tutti i vacanzieri del Polo, la zia Roseline e il prozio, le gemelle, Hector con la moglie e Agata con la famiglia.
I pochi intimi ammontavano a ventitré, cosa che strappò a Thorn un commento borbottante su quanto fosse improprio l'uso del termine “pochi” quando riferito a più di una decina di persone.
Durante quel mese di vacanze avevano fatto davvero tante cose, svolto attività ludiche che avevano divertito e distratto i bambini, aiutandoli a socializzare e a fare nuove esperienze. Ma la giornata preferita di Ofelia in assoluto fu quella, l'ultima prima della partenza. Nell'aria, fin dal mattino, si respirava la malinconia che precedeva la partenza, ma dopo pochi minuti di sguardi bassi e sospiri Renard batté le mani, asserendo che non potevano in alcun modo concludere in quel modo la visita.
Così tirarono fuori tutti i giochi di società possibili e immaginabili, le carte, stuzzichini che Sophie e Agata a testa sfornavano uno dietro l'altro, vecchie foto, cartoline, e disegni di quando erano piccoli. Gli scoppi di risa di Renard spesso interrompevano tutte le altre conversazioni, fragorosi come dei tuoni, ma strappavano un sorriso a tutti. Il prozio sproloquiò con Thorn di politica e differenze sociali del Polo, argomento che stava particolarmente a cuore al primo e che il secondo conosceva a menadito.
Ofelia non poté fare a meno di notare ancora una volta le somiglianze fra Thorn e il prozio, entrambi burberi di primo acchito, ma con una sensibilità unica. Bastava solo prendersi la briga di conoscerli a fondo.
Ofelia parlò soprattutto con Hector e le gemelle, mentre con il prozio si limitò spesso a stare in silenzio, seduta a contatto con lui: bastava quello, si erano già detti tutto e aggiungere altro sarebbe stato superfluo.
Entrambi rimasero sorpresi però quando Thorn si schiarì la voce, chiaro segno che stava per dire qualcosa che non rientrava propriamente nelle sue corde, o che lo metteva a disagio.
- Abbiamo diciassette camere in più nella nostra dimora, al Polo. Sarete il benvenuto ogni qualvolta vogliate venire.
Se l’ospitalità lo sorprese, il prozio non lo diede a vedere. Invece, emise un piccolo sbuffo. - Immagino che l'invito si estenda a tutti i parenti, no?
Thorn non riuscì a trattenere una smorfia, e la sua muta risposta fece sorridere lievemente lo zio. Ofelia invece si coprì con la sciarpa per nascondere l’espressione commossa. L’idea che Thorn e il prozio andassero così d’accordo da indurre suo marito ad invitare il vecchio zio in casa loro a suo piacimento le scaldava il cuore. Era come se finalmente i suoi due mondi di appartenenza si fossero congiunti, e fosse stato costruito un ponte tra le due arche. Con Thorn e il prozio che si incontravano, lei non avrebbe dovuto rinunciare né alle sue origini né al suo avvenire: li avrebbe vissuti insieme.
- Be’, se mi dite che presso il vostro castello c’è meno rumore di quello che c’è in questa casa di festaioli, accetterò volentieri.
Thorn lanciò un’occhiata bieca a Renard, che scoppiò a ridere di gusto proprio in quel momento, e ad Archibald, che si era messo a russare sonoramente stravaccato su una poltrona. Le gemelle lo guardavano ridendo, cercando di non svegliarlo ma al contempo provando a farlo.
- Diciamo che c’è più spazio, è dunque più facile trovare silenzio.
Il prozio annuì seriamente. – Ci conto. E tu, figliola? Non mi vuoi? Mi induce a farmi qualche domanda il fatto che sia stato proprio tuo marito ad invitarmi, al posto tuo. Mi chiedo da dove tu sia venuta fuori, talvolta, con quel tuo carattere che poco si accorda a questa famiglia.
Ofelia scosse la testa. – Pensavo che non vi sareste mai e poi mai separato dal vostro museo. Ma ovviamente siete il benvenuto quando volete, per quanto volete.
- Perché lui lo inviti e me no? – si intromise Hector proprio al momento sbagliato.
In un casuale e del tutto inopportuno momento di silenzio generale, tutti udirono la domanda petulante di Hector. Quello che esplose subito dopo fu un boato risentito di persone che volevano essere invitate a loro volta e inventavano priorità immaginarie basate sulla parentela e la quantità di tempo trascorsa insieme rispetto agli altri. Agata arrivò ad urlare che aveva comprato per Ofelia più vestiti che per chiunque altro, quindi doveva aver la precedenza sull’ospitalità. Beatrice ribatté che Ofelia non si era mai messa nemmeno una calza di quelle che le aveva comprato, e Agata lanciò un’occhiata offesa e drammaticamente sconvolta ad Ofelia.
Sospirando, guardò il prozio: - Ora capite perché non vi ho invitato?
Il prozio si mise a borbottare come una ciminiera.
 
Subito dopo il sonnellino pomeridiano, Sophie si mise a servire il tè. I bambini giocavano placidamente sul grande tappeto al centro del soggiorno, solo cugini stretti per quella giornata: Vittoria, Serena e Balder, i figli di Agata. Un gioco di carte molto semplice di cui Serena cercava di spiegare il funzionamento anche al fratello: coppie di carte. Bisognava cercare le carte uguali all’interno del mazzo, ricordandosi la loro posizione in modo tale da battere gli altri. Inutile dire che Serena surclassava di gran lunga gli altri cugini, che spesso sbuffavano e la accusavano di imbrogliare. Lei da parte sua rimaneva imperturbabile, ma quando si voltava a guardare lei e Thorn ogni volta che vinceva, Ofelia leggeva un certo orgoglio nel suo sguardo, la soddisfazione di aver vinto. In quello era decisamente diversa da Thorn. Balder invece, oltre a non capire il gioco, disturbava tutti tentando di mangiarsi le carte, che avevano lo stesso colore delle caramelle che il nonno ogni tanto gli passava.
Alla fine, stanchi di essere battuti senza possibilità di vittoria, i cugini proposero un altro gioco. Ofelia vedeva già da qualche minuto Serena che strizzava gli occhi e scuoteva la testa, come a voler scacciare qualche pensiero o qualcosa che le dava fastidio. Non diede molta importanza alla cosa, almeno finché la bambina non lasciò cadere i dadi con cui stavano facendo un gioco da tavolo, non per lanciarli, ma come se le avessero scottato la mano. Si porto le dita alle tempie, facendo pressione, poi scosse nuovamente la testa e batté le palpebre per mettere a fuoco.
Un principio di miopia?
- Thorn? - chiamò Ofelia, sporgendosi sul divano dove stavano bevendo il tè, verso il marito.
Thorn non si mosse di un millimetro, spostò solo lo sguardo verso di lei. Alto com'era, Ofelia se ne accorse solo perché le sembrò di notare un bagliore metallico tra le palpebre semichiuse.
Ofelia perse per un istante l'uso della parola. Cosa poteva dirgli che non sembrasse sciocco? Che aveva paura che a Serena stesse peggiorando la vista?
- Può essere che... la vista di Serena...?
Thorn si volse verso la figlia, senza lasciarla concludere. Anche perché Ofelia non sembrava molto in grado di concludere la frase.
- Serena.
Fedele a se stesso, solitamente Thorn non chiamava le persone, ordinava la loro presenza.
Serena si alzò subito, obbediente come sempre. - Sì papà? - chiese candidamente posizionandosi di fronte a lui.
Thorn le prese il viso tra le mani con decisione e delicatezza al tempo stesso. Le controllò gli occhi, le fece fare qualche esercizio che Ofelia conosceva fin troppo bene dato il suo problema, e poi le chiese di leggere o individuare con precisione alcuni oggetti lontani. Data la vista perfetta di Thorn, Ofelia si chiese quando esattamente avesse imparato tutti quei dettagli tipici degli esami oculistici. Suo marito non smetteva mai di sorprenderla. In ogni caso, Ofelia stessa, nonostante l'aiuto degli occhiali, aveva difficoltà a distinguere bene alcuni oggetti. Serena invece lesse e descrisse tutto perfettamente: sembrava che avesse una vista eccellente. Anche un po' di più, avrebbe detto Thorn.
- Perché tutte queste cose? - domandò Serena, perplessa.
- Ti sei messa le mani sulle tempie prima, e strizzavi gli occhi. Hai difficoltà a vederci?
Serena scosse la testa.
- Mal di testa?
Di nuovo, Serena negò. Però parve esitare.
- C'è qualcosa che non va? - le chiese nuovamente Ofelia, per una volta grata del trambusto che li circondava; garantiva loro un po' di intimità, perché ognuno era concentrato sulle proprie questioni.
Ad eccezione del prozio, che era accanto a loro e seguiva il dialogo con malcelato interesse.
Serena aggrottò la fronte. - Ora no, ma prima... ero confusa.
Quando una bambina di quattro anni e mezzo diceva di essere confusa c'era ben poco di comprensibile.
- Eri confusa - ripeté Thorn, come se fosse lui quello confuso. - Definisci questa confusione.
Serena mise una manina sulla gamba del papà, come per sostenersi mentre pensava, e la ritrasse di scatto, spalcando gli occhi. - Ancola! - esclamò.
Ofelia si sporse verso di lei, ma prima che potesse aprire bocca Serena le aveva gettato le braccia al collo e si era avvinghiata a lei. Sotto lo sguardo indagatore di Thorn, Ofelia se la mise in grembo e le accarezzò i capelli fini e morbidi come piume. - Ancora cosa, Serena?
- Ho... sentito delle cose strane, mamma. Nella testa. Sono confusa - ripeté, come se non sapesse spiegarsi meglio.
Al pari di Thorn, anche il prozio aggrottò le sopracciglia.
- Ti senti ancora così ora, Serena? - le domandò, intromettendosi pacatamente.
A Thorn non parve dare fastidio. Serena ci rifletté, poi negò cautamente con la testa.
Il prozio prese dalla tasca della giacca un fazzolettino inamidato e glielo porse. - Prendi questo.
Serena, che era obbediente come poche, lo strinse tra le dita sottili. Subito strinse nuovamente gli occhi, corrugando tutta la fronte.
- Ancora - disse solo, scandendo perfettamente la parola, r compresa.
Il prozio le tolse gentilmente il fazzolettino dalla mano. - Dicci quando passa la confusione.
Serena impiegò quasi un minuto a rilassarsi, secondi durante i quali fu strettamente osservata dai genitori. Ofelia aveva una mezza idea su cosa stesse accadendo, ma le sembrava impossibile. Troppo presto. Troppo... travolgente. Veder crescere una creaturina che era il perfetto miscuglio di lei e Thorn le lasciava una strana, calda sensazione dentro. Serena, e Balder, li avevano generati loro. E Serena, oltre alla memoria del padre, aveva preso...
Lettura - sancì il prozio, dando voce alle sue elucubrazioni. - Serena è una lettrice. Non è addestrata, non sa nemmeno cosa sia in grado di fare, pertanto percepisce gli stati d'animo altrui e i loro pensieri come una sorta di confusione, una traccia che le rimane nella mente ma non riesce ad afferrare.
Voltandosi per guardare Thorn, ad Ofelia parve di scorgere nei suoi occhi un'emozione che non aveva mai colto in lui: fascino, interesse, ammirazione. Molto in profondità, ovviamente, dato che il suo volto era una maschera di ghiaccio come al solito, ma l'attenzione con cui scrutava Serena e ascoltava il prozio era innegabile.
- Cosa bisogna fare perché affini questo potere? - domandò glacialmente, facendo girare alcune teste.
- Aiutarla a capire, spiegarle come meditare ed entrare in contatto con i sentimenti altrui, mostrarle come comprenderli e concentrarsi per discernerli. Soprattutto, però, aiutarla a non rimanerne sopraffatta. Quello che una persona pensa in un dato momento può essere molto intenso e lasciarti dentro una traccia quasi indelebile, se non si impara a vivere l’esperienza con distacco. In questo, nipote mia - mormorò il prozio dando una pacca affettuosa alla mano di Ofelia, - tu sei indubbiamente la migliore insegnante. Io ho solo conoscenze teoriche, tu sei la migliore lettrice di Anima.
Ofelia si sentì in imbarazzo di fronte a quei complimenti. Sapeva bene di essere un’ottima lettrice, Artemide stessa le aveva consegnato un premio per un concorso che aveva vinto a mani basse. Sentirselo dire da una persona severa e meticolosa come il prozio, però, faceva apparire tutto sotto una luce diversa, come se fosse un’abilità incredibilmente ardita e impossibile. Un po’ come se fosse stato Thorn stesso a complimentarsi, cosa che forse era avvenuta una o due volte soltanto da quando lo aveva conosciuto. Erano parole che valevano più di qualsiasi gesto o discorso, e Ofelia cercò di non arrossire.
- Cominceremo appena tornate al Polo. Devo però cercarle dei guanti, lì non ne fabbricano.
Ofelia cominciò a mordicchiare la cucitura dei suoi, di guanti, in preda all’ansia. La sciarpa si allungò nervosamente, attorcigliandosi al braccio sottile di Serena, che pareva non capire, ma stava in educato silenzio. Non potevano partire senza guanti, per un lettore era impossibile arrivare a fine giornata senza impazzire, con le mani nude che leggevano, assorbivano le emozioni altrui in modo vorticoso e disparato. Ma non potevano nemmeno rimandare la partenza, riorganizzare il viaggio sarebbe stato un bel calvario.
Il prozio dovette leggerle la preoccupazione in volto, perché mormorò: - Ne ho un paio io, non crucciarti.
- Come? – replicò lei, sbigottita. – Ha le mani così piccole, vorrei che avesse un paio di guanti comodi dato che dovrà conviverci per…
- Ne ho un paio io – ripeté il prozio, questa volta con più decisione.
Quella durezza la indusse a chiedersi come mai il prozio possedesse un paio di guanti da lettore taglia bambina. Certo, era stato lui a procurarle la sua prima coppia di guanti, di sicuro sapeva dove reperirli, però…
Però, ora che ci pensava, effettivamente i suoi guanti lei non li aveva più trovati. Ofelia non era una persona nostalgica, ma su alcuni possessi non transigeva: la sua sciarpa, ovviamente, gli stivaletti preferiti, un paraorecchie che le aveva cucito Agata da piccola e che era orrendo, pigro e costantemente addormentato, ma era stato il primo dono di Agata e lei se n'era affezionata... e il primo paio di guanti. Aveva pianto quando sua mamma le aveva dato quelli nuovi, anni prima, quando i suoi primi guantini erano diventati troppo stretti per lei. Sophie non era stata tanto paziente al riguardo, e quando Ofelia aveva stretto i pugni per non separarsene glieli aveva quasi strappati di dosso. Si era rassegnata ai guanti nuovi, così poco familiari, ma aveva sperato almeno di poter conservare il paio da cui si era appena separata.
Invece non li aveva più trovati, e insistere con la madre e cercare di far valere la sua posizione non era servito a nulla. Era stato quello, a sette anni, il periodo in cui aveva capito che contro la volontà di sua madre poteva fare ben poco. E l'aveva sempre incolpata di averglieli sottratti nonostante lei avesse più volte ripetuto di non averli.
Sophie era tante cose, molte delle quali non proprio piacevoli, ma l'onestà era il suo pregio più grande. Non mentiva nemmeno quando sarebbe stato educato farlo, era franca nei momenti in cui sarebbe servito forse un po' di tatto in più.
Se lei non aveva i guanti...
- Ce li avete voi, vero?
Il prozio distolse lo sguardo.
- Zio? - lo incalzò pacatamente Ofelia. - I miei primi guanti. Li avete voi, non è vero?
Il prozio sospirò, più mortificato dall'essere stato scoperto che irritato per quelle domande pressanti.
- Sì - borbottò, infastidito.
- Perché? Li ho cercati per anni. Potevate dirmi che li avevate voi, ve li avrei lasciati sicuramente, ma almeno mi sarei messa il cuore in pace.
Il prozio sembrò quasi dispiaciuto. - Volevo... li ho tenuti come ricordo. Sapevo che saresti diventata la più brava lettrice in circolazione, era evidente. Non solo per via della manifestazione così evidente e precoce del tuo potere, ma soprattutto perché io ti avevo già inquadrata.
Thorn era immobile come una statua di fianco a lei, attento come uno sparviero, e Serena, in braccio suo, ascoltava il pro-prozio rapita, memorizzando ogni sospiro, con le mani posate sul collo della mamma per non toccare nessun oggetto.
- Tua madre pensava che fossi una bambina ostinata e difficile, che fossero questi i motivi per cui facevi fatica ad interagire con le altre pesti e stavi sempre da sola. Non si rendeva conto che in realtà eri già indipendente, che non avevi bisogno di nessuno perché stavi bene con te stessa e con quello che ti circondava, e quella che scambiava per ostinazione era in realtà determinazione. Eri sicura di te, eri sicura di ciò che volevi. Bastava essere abbastanza acuti per capirlo, invece che cercare di trasformarti in ciò che volevano gli altri. Era palese che con la tua volontà saresti andata lontano, e che concentrandoti e applicandoti nel coltivare il tuo dono saresti diventata infallibile.
Ofelia sentì le lacrime pungerle gli occhi, le lenti divennero di uno sfumato azzurrino commosso. Era raro sentire parole così affettuose da parte del prozio, ma quello che l'aveva colpita era che lui avesse conservato il suo primo paio di guanti. E ora, dopo esserseli tenuti per tutto quel tempo, voleva cederli a Serena.
A disagio, il prozio borbottò sotto i baffi e annunciò che sarebbe andato a casa a prenderli. Sparì con l'ombrello sotto la pioggia prima che Ofelia potesse aggiungere qualcosa.
Thorn non disse nulla, e tantomeno la figlia, che sembrava preoccupata. Allora, contro ogni previsione, con un lungo e freddo dito lui le accarezzò la guancia morbida. - La mamma ti insegnerà come fare.
Serena annuì, poi sorrise, grata di quelle parole che non erano proprio il massimo del conforto, ma provenendo da Thorn erano preziose quanto un complimento.
Quando il prozio tornò, evitò di guardare in faccia Ofelia. Fece semplicemente indossare i guanti a Serena, spiegandole con quale particolare procedimento erano realizzati, a cosa servivano e che avrebbe dovuto portarli quasi sempre, togliendoli solo quando era strettamente necessario. Aggiunse anche che nessuno meglio di Ofelia poteva spiegarle quelle cose.
Ofelia guardò sua figlia che si rimirava i guanti, aprendo e chiudendo i pugni per saggiarne la pelle, mostrandoli poi con orgoglio a lei e a Thorn. Dubitava che Serena avesse capito con precisione cosa implicava il portare quei guanti, la ragione per cui avrebbe dovuto indossarli sempre. Ofelia ormai ne era abituata, non sentiva più il bisogno di toccare con la pelle nuda ciò che la circondava, ma aveva qualche reminiscenza del periodo iniziale, quando era avvenuto il cambiamento, cosa aveva significato. L'adattamento a toccare il mondo attraverso un'altra pelle.
Guardò Thorn, che fissava le mani della figlia con le sopracciglia aggrottate, e si chiese cosa stesse pensando. In lei si fece lentamente strada la consapevolezza della loro età che avanzava, del percorso che avevano intrapreso, del fatto che i loro figli stavano crescendo, sviluppandosi, acquisendo conoscenze e potenzialità. E loro erano parte di quel processo, elemento fondamentale nell'evoluzione del loro carattere.
Ofelia lasciò che Serena andasse a mostrare i suoi guanti a tutti, la osservò mentre ricominciava a giocare, senza più confusione in volto, prima stando attenta ai gesti che faceva e poi con naturalezza, come se i guanti fossero stati parte di lei da sempre.
Nostalgica, Ofelia accarezzò la sciarpa e allungò timidamente la mano per stringere brevemente quella di Thorn.
Non si sorprese quando lui, senza guardarla, ricambiò.
 
Per cena, l’ultima che avrebbero consumato insieme per quella vacanza, Sophie decise di preparare un pasto luculliano con l’aiuto di tutti. Ofelia era certa di aver preso qualche chilo durante quella vacanza, ma voleva avere la conferma da Thorn: grazie alla sua mente calcolatrice non le serviva alcun tipo di strumento di misurazione o peso. Era comodo avere un metronomo umano come marito, talvolta. A parte quando notava e annotava ogni singolo cambiamento fisico in lei, da un chilo in più ad uno in meno alla crescita mensile dei suoi capelli.
Sophie richiese la partecipazione di tutti nella preparazione del pasto: gli uomini lucidavano l’argenteria e apparecchiavano, le donne impastavano, e Thorn…
Si resero conto della sua utilità quando un misurino, contagiato dall’eccitazione di Sophie, cominciò ad oscillare facendo sempre scendere farina.
- Sciocco, sciocco, sciocco utensile! Questa ricetta richiede pre-ci-sio-ne - lo sgridò Agata, che non contribuiva a creare un clima tranquillo con il suo barcamenarsi a destra e a sinistra con le teglie in mano.
L'unica serafica e per nulla intaccata da quel caos era Berenilde, che osservava tutti come se fosse seduta su un trono. Le mancava solo il bocchino con la sigaretta e sarebbe stata una matrona perfetta.
- Non ci tengo proprio a far sfigurare le mie dote culinarie. O viene come dico io, o possiamo buttare tutto e digiunare!
Archibald alzò il calice di vino in risposta, come a far intendere che era d'accordo. O forse voleva solo dimostrare che, digiuno o no, le bevande non mancavano. Renard invece si fece leggermente pallido. Aveva scoperto di avere un vero e proprio debole per la cucina animista, e l'idea di non mangiare qualcosa di casereccio proprio prima della ripartenza gli causava una grande tristezza.
- Togliti quel broncio, sono io che devo mangiare per due - lo redarguì Gaela tra i denti.
Nel silenzio attonito e preoccupato che venne a crearsi mentre Sophie cercava nuovamente la giusta misura di farina, un'ombra le si avvicinò alle spalle.
- Quanti grammi ve ne servono? - domandò Thorn, glaciale e lapidario.
Sembrava in procinto di cominciare un interrogatorio.
Sophie sussultò, facendo irritare ancora di più il misurino. La bilancia non era utile in quel caso.
- Thorn, non vi avevo visto. Vi pregherei di non aggredirmi più alle spalle in tale maniera sconveniente, mi avete rovinato tutte le misurazioni.
Impassibile, e per nulla impressionato da quei paroloni, Thorn rimarcò: - Quanti grammi vi servono?
Sophie trattenne a stento uno sbuffo, ma rispose: - Ventiquattro, ma...
Thorn allungò la mano per farsi dare il misurino, che Sophie fu costretta a cedergli, attonita. Thorn lo riempì tre volte per intero, travasandolo poi nella ciotola con le uova. Infine lo riempì una quarta volta, ma di poco, e lo aggiunse.
- Ventiquattro - sancì, facendosi da parte.
Sophie boccheggiava.
- Ne siete sicuro? - chiese Agata, sorpresa quanto la madre.
Sentendosi addosso gli occhi di tutti, Thorn si schiarì la voce e si fece ancora più imponente. - Quel misurino può contenere sette grammi di farina o altri cereali macinati se riempito con precisione fino al bordo. Ne ho contati tre, più tre grammi singoli, per un totale di ventiquattro.
Agata spalancò la bocca, ma fu Roseline, che battibeccava con un cucchiaio, ad esprimere il pensiero di tutti: - Com'è che ci avete sempre tenuto nascoste queste vostre doti?
Thorn si strinse nelle spalle, non in un'esibizione di falsa modestia, ma in un tentativo di distogliere da sé l'attenzione. Non rispose.
- Non ci ricordiamo quante melanzane servono per la parmigiana - si lamentarono in coro Beatrice, Domitilla ed Eleonora.
Thorn, senza battere ciglio, elencò come un libro di cucina tutti gli ingredienti che servivano, comprensivi di quantità adattate alla perfezione al numero di commensali e tempi di cottura.
- Ofelia, tuo marito si sente bene? - le chiese a mezza voce la zia Roseline, cercando di essere furtiva e non riuscendoci.
Archibald rise. - Una volta per dispetto ho chiuso l'intendente in uno sgabuzzino usato dalle cuoche di Chiardiluna. Quando l'hanno trovato, tre ore dopo, aveva letto tutti i ricettari.
Ofelia non sapeva se essere più impressionata dalla sempre sconvolgente conoscenza di Thorn in ogni materia o dalla cattiveria gratuita di Archibald. Il fatto che l'avessero trovato non implicava affatto che lui avesse semplificato le ricerche.
Impalato in mezzo al salone, Thorn sembrava più che mai un pezzo del mobilio della casa. Ma non fu così per molto, dato che sfruttarono subito la sua memoria e la sua mente analitica per controllare e supervisionare ogni cottura, ogni singola preparazione.
Nell’arco di pochi minuti Thorn divenne il nuovo chef: girava tra le signore per perfezionarne il lavoro, ripeteva ricette a memoria quando venivano chieste delucidazioni sull’uso di un certo ingrediente, bloccava qualcuno quando le misurazioni erano errate. L’unica cosa che non faceva era assaggiare, ma per il resto dirigeva la cucina come se in tutta la sua vita il suo lavoro fosse stato quello. E la cosa sconvolgente era che persino Sophie gli dava ascolto.
- Ora capisco come fa ad esser l’amministratore di tutte le province del Polo da solo. Un aiutante lo rallenterebbe. La sua memoria è talmente prodigiosa che se esercitasse le mie funzioni sarei considerato un inutile inetto, al suo confronto. Ma che dico, gli archivi stessi sarebbero superflui, con la sua memoria! – borbottò lo zio, infastidito. Non tanto dal dono di Thorn, quanto dal suo possibile essere inferiore a qualcuno nel suo lavoro.
Ofelia evitò di dirgli che la memoria di Thorn poteva addirittura essere passata ad eventuali parenti con lo stesso potere, creando un vero e proprio archivio vivente duraturo nel tempo e pressoché infallibile. Il prozio era già abbastanza abbacchiato.
- Per questo voi siete migliore di lui nel vostro lavoro: lui non fa nessuno sforzo, mentre voi ci mettete passione e impegno. Per Thorn sarebbe troppo facile.
Lo zio bofonchiò ancora, ma sembrava più compiaciuto e meno riottoso di prima. – Secondo il tuo ragionamento, però, chiunque sarebbe migliore di lui come intendente, se basta solo l’impegno.
Ofelia pensò a quanto Thorn dovesse essere paziente e diplomatico con i cortigiani pomposi, viziati e ignoranti, a come viaggiava dappertutto senza mai lamentarsi, facendo le ore piccole e talvolta sacrificando la famiglia per quel lavoro ingrato.
Scosse la testa: - No, in quel caso no. Nessuno sarebbe migliore di Thorn come intendente.
Lo zio le lanciò un’occhiata misteriosa. – E come uomo?
Ofelia sorrise timidamente, senza rispondere.
A cena i complimenti furono tutti rivolti all’intendente, che rimase più in silenzio del solito e rispose solo con monosillabi o grugniti interpretabili a piacimento.
Ofelia poteva percepire il suo disagio, ma capì anche, nel corso della serata, che era un tipo di disagio che non aveva mai sperimentato prima, un disagio piacevole: quello che scaturiva dall’essere al centro dell’attenzione e, per una volta, apprezzato e lodato per qualcosa che era in grado di fare.
Dubitava che al Polo qualcuno gli avesse mai fatto i complimenti per qualcosa, specialmente per come svolgeva il suo lavoro. Di solito chi era incorruttibile e integerrimo come lui, soprattutto nella sua posizione, non godeva di stima da parte di chi era disposto a pagare per avere favori. E se fosse sceso a compromessi avrebbe scontentato tutti gli altri abitanti indifesi, che avrebbero visto governare i ricchi e i nobili solo per una questione di potere e soldi.
Insomma, al Polo qualsiasi cosa avesse fatto sarebbe stata criticata o malvista, tanto più dato il suo retaggio e la sua nascita fuori dal matrimonio. Su Anima invece veniva accolto senza pregiudizi.
Ofelia apprezzò immensamente quella cena, e seppe che anche Thorn lo aveva fatto quando ringraziò a denti stretti Sophie per il pasto. La tavola piombò nel silenzio quando accadde, un silenzio imbarazzato che parve durare per un tempo incalcolabile. Alla fine Sophie annuì, per una volta non tronfia e orgogliosa ma imbarazzata, come se non si sentisse del tutto degna di quel ringraziamento dato il contributo non indifferente di Thorn, e Renard si alzò per prendere dalla credenza una bottiglia di liquore particolarmente forte. L’anta in vetro, rinomatamente scontrosa, non brontolò, anch’essa sorpresa. Renard si versò una dose forse troppo generosa di liquore prima di passarlo al prozio e proporre un brindisi.
- All’intendente e alle sue capacità.
Alzarono tutti il bicchiere, compresa Serena, divertita da quel gioco. Rigido di fronte a tutte quelle occhiate, statuario e altero come un ritratto, Thorn alzò il bicchiere a sua volta e ingollò il goccio di vino che Ofelia gli aveva versato durante la cena. Tutti lo imitarono, ridacchiando e ricominciando a parlare subito dopo. Ofelia invece guardò Thorn con fin troppa insistenza, e quando lui finalmente incrociò il suo sguardo, quasi per sbaglio, capì perché evitava il contatto visivo con lei: nei suoi occhi, seppur per un istante brevissimo, Ofelia notò dell’orgoglio. Orgoglio per se stesso.
Thorn non era fiero di quel che provava, ma Ofelia lo era. Fiera di lui, fiera di ciò che sapeva fare, e anche fiera di aver contribuito a far crescere in lui un minimo accenno di autostima.
Sapendo di essere osservata con la coda dell’occhio da Thorn, alzò nuovamente il bicchiere nella sua direzione e bevve sorridendo.
  
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