Fanfic su attori > Tom Hiddleston
Segui la storia  |       
Autore: _Recneps    16/07/2021    0 recensioni
[...] i suoi occhi celesti vagano fino a quando due sguardi che non hanno nulla di accidentale s’incrociano, incastrandosi in una muta intesa che ha ancora il sapore di amara testardaggine, sfrontata rabbia e velenoso orgoglio. Ma ci vogliono soltanto pochi secondi prima che entrambi capiscano di aver nuovamente messo in gioco le reciproche difese, la stoltezza che nega a ciascuno di vedere la realtà dell’altro e le confortevoli forme d’astio con cui sventare ogni possibilità di intima comunicazione. Bastano pochi secondi in più, un eccesso di tentennamento da parte di entrambi e la concreta incapacità a tornare sulle proprie strade: uno schiocco spaventosamente chiaro. Tom vede Ris e Ris vede Tom. Non possono far altro che sciogliersi con una scarica di parole che non prenderanno mai forma, con un reciproco e silente perdono. Pensieri trattenuti, ma non abbastanza: iniziano a fluttuare in un che di sospeso di cui entrambi sentiranno, in un modo o nell’altro, la carezza di fumo.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo Sei

 
«Tua sorella ha insistito per parlarmi. Mi dispiace, non avrei dovuto ignorarti.»
Tom, immerso nella penombra della sua camera d’hotel e flebilmente illuminato dallo schermo del portatile, si chiede per quanto tempo ancora rimarrà pietrificato sotto lo sguardo color fumo di Jen.
Un’inaspettata bandiera bianca che accoglie con molto più timore di quanto vorrebbe ammettere, l’occasione per rassicurarla con fiumi di parole e promesse, instancabilmente cucite, scucite e ricucite nel corso quell’ultima settimana infernale. Un ottimo copione ora accartocciato ai piedi del suo letto, una recita da quattro soldi che non ha più la forza di correggere e riscrivere. La lascia lì, abbandonata tra i detriti di tutto ciò che non ha mai realmente sentito come suo.
«Tom? Va tutto bene?»
Torna a guardarla con occhi colpevoli e la scruta con un nodo in gola, come se non potesse sopportare l’idea di darle una risposta che non si aspetterebbe e che, in realtà, nemmeno si meriterebbe. E si chiede per quale motivo non sia in grado di prendersi cura di quella piccola realtà che hanno creato, perché sia così difficile trattenere quella bellezza totalmente disarmante tra le dita, un dono di materia celestiale di cui non è neanche degno e di cui non sa nemmeno essere grato. Perché non può semplicemente continuare a percorrere quella strada? Perfettamente asfaltata, nessuna curva, nessuna pioggia, nessuna nebbia.
«Senti, so che mi sono comportata da bambina testarda, so che non avrei dovuto fare altro che parlarti e lasciare che mi spiegassi. Ma ti prego, mettiamoci tutto alle spalle.»
Jen sospira e si passa una mano tra i lunghi capelli biondi, saettando con gli occhi a destra e manca, alla ricerca delle parole giuste da dire per poterlo smuovere almeno un briciolo.
«E poi mi sei mancato, Sherlock.»
I suoi denti, perfettamente bianchi e perfettamente schierati, stringono il labbro inferiore in un’espressione con cui spera di addolcirlo, con cui sa con assoluta certezza di poterlo sciogliere.
E, tuttavia, Tom riesce ad aggrapparsi ad un minimo particolare, ad una piccola nota stonata, l’unica in quel quadretto che ogni notte lo sommerge di sensi di colpa, raddrizzandolo con un colpo di frusta senza perdere tempo, prima che possa inoltrarsi per altre vie; forse più accidentate, probabilmente meno sicure, certamente più imprevedibili.
«Perché Sherlock, Jen?»
Pronuncia quelle parole come se non ne avesse pienamente il controllo, come friabile sabbia stretta tra le dita.
Il cipiglio della ragazza non lo sorprende, così come i cenni con cui lo incoraggia ad ammettere di star solo scherzando. Eppure, per quanto ridicola quella domanda possa suonare, Tom sa che non le vorrebbe chiedere nient’altro.
Jen si lascia scappare una risata nervosa.
«Uhm, fammi pensare. Perché sei un perfetto gentleman inglese e… non so, mi è venuto naturale. Come mai me lo chiedi solo ora?»
Il fatto è che Jen non sa nulla di lui, così come lui non sa nulla di lei, e la verità è che vivono entrambi nella fretta di tessere la custodia di velluto di una perfetta storia d’amore, senza rendersi conto di averla lasciata vuota. La trappola sta proprio lì: nella cecità di entrambi, nella codardia di Tom e nelle ingenue speranze di Jen, forse alimentate dalla paura di non essere ancora riuscita a trovare il suo posto tra le braccia di qualcuno.
L’unica cosa certa, che Tom non è più in grado di liquidare con sorrisi sforzati e una quotidiana dose di logorante biasimo per sé stesso, è lo stridio che si forma nel momento in cui i loro mondi arrivano a cozzare tra di loro. E la verità è che non ha nemmeno mai provato a creare l’incastro perfetto, che si è lasciato trascinare dall’incedere degli eventi fino a quel famoso terzo mese, sfidato dall’accumularsi delle prime perplessità e dall’assenza di una svolta che non poteva non insospettirlo.
«Non so, non penso di esserci mai sentito. Insomma, uno Sherlock.»
Dare voce alle sue folli elucubrazioni è una sensazione strana e, tuttavia, sorprendentemente liberatoria.
Non sa perché, ma la sua incalzante angoscia sembra tacere e con lei il ronzio che lo tiene sveglio quasi ogni notte.
Jen lo guarda come se si stesse domandando se non sia semplicemente un sogno, se quello con cui sta parlando sia realmente Tom Hiddleston, il suo Sherlock, o uno sconosciuto.
Tom, in quel momento, sa di non essere altro che Tom. Per la prima volta, non veste gli abiti di un estraneo: nessun Sherlock e sicuramente nulla dell’Hiddleston stampato a lettere cubitali sull’ennesima rivista.
È il Tom che si arrabbia, che mette in discussioni le sue scelte, che legittima le sue frustrazioni, che ascolta i suoi bisogni, che si permette di accogliere la propria tristezza, che non condanna quello che potrebbe mandare in aria intraprendendo strade che molti non gli consiglierebbero. Il Tom che avrebbe scelto di mettere in pausa la sua carriera cinematografica per gettarsi nella parte di quell’opera teatrale a Londra; il Tom che avrebbe mandato al diavolo la sua ex dopo aver scoperto del tradimento; il Tom che avrebbe fatto uno strappo alla regola per accompagnare sua sorella in quel viaggio in Thailandia; il Tom che non avrebbe avuto paura di confessare a Jen, dopo sole due settimane di frequentazione, che forse sarebbero dovuti rimanere amici; il Tom che si sarebbe limitato a rispondere con un “vaffanculo” a tutte le domande scomode sulla sua vita sentimentale: “Non pensi che sia Jen quella giusta? Insomma, matrimonio e figli non possono aspettare per sempre”; il Tom che non avrebbe sacrificato di partecipare alla maratona di beneficienza organizzata da Westminster, il suo nido, per l’ennesima cena tutta forma e niente sostanza di alcuni suoi colleghi, gli stessi che non era mai riuscito a mandare giù e che s’imponeva di trattare con guanti di seta.
«Tom, ci sentiamo domani? Devo veramente correre a lavoro.»
Non è vero, non deve andarsene da nessuna parte. A Londra sono le sette di lunedì mattina e Jen, il lunedì mattina, non lavora. Ma Tom fa finta di niente. Sa perché vuole interrompere quella conversazione, entrambi lo sanno. Hanno una limpida immagine di quello che sarà l’epilogo di quelle loro videochiamate notturne, dei messaggi che diventeranno sempre più sporadici e sempre più poveri, trasformandosi in una mera trattativa tra due pseudo-sconosciuti.
Nessuno dei due ha il coraggio di dare forma a quei pensieri, nessuno dei due ha le forze ed entrambi se lo riconoscono a vicenda. Non servono le parole, solo un paio di sguardi bassi che si evitano e le dita che fremono per poter chiudere la chiamata con un paio di clic, impazienti di poter tornare nei rispettivi rifugi. Rifugi che, evidentemente, nessuno di loro riconosce nelle braccia e nelle rassicurazioni dell’altro.
«A domani, Jen.»
 
 
 
È domenica sera, Atlanta piange e Ris scende di un gradino la sofferta scalinata della sua risalita.
Bruce ha altro a cui pensare e, soprattutto, da tempo ha abbassato la guardia.
E nonostante tutti quei passi avanti, Ris si ritrova improvvisamente prosciugata. Si guarda intorno alla ricerca di un appiglio e non vede che nebbia. E Bruce non è lì a tenderle una mano, non è lì a raccoglierla dalla sua miseria. Non c’è più nessuno a spingerla verso l’alto: non può che fare affidamento su sé stessa, cercando briciole di pane lungo un sentiero di petrolio.
La verità è che Bruce c’è, è ancora lì, ma Ris è acciecata e non può che essere preda di un nero irrazionale. La cera è colata e nessun lume è in grado di orientarla. La paura soffia fredda e lei torna ad essere un feto indifeso.
Ci ha provato: ha conficcato unghie e denti in quel presente, cercando di non lasciarsi trascinare da un antico vortice di deliziosa autodistruzione. E alla fine, dopo una notte rannicchiata ai piedi del letto in un pianto silenzioso, Ris ha mollato la presa. Un terrore primordiale – mai realmente scomparso – è tornato in superficie con la prepotenza di un’eruzione, fondendo la sua armatura in una viscida sostanza rovente, appiccicosa come l’angoscia da sempre respirata e che ora la opprime come quella notte, come i primi passi dopo quella disfatta, le prima cadute, i primi lividi, le prime lacrime di Bruce, la sua prima confessione: “lasciami andare, lasciami morire.”
Bruce non le aveva mai dato retta, testardo come un mulo. L’aveva osservata rincorrere la sua guglia infernale come un corpo a digiuno in cerca di cibo, in cerca del vuoto con cui sfamare quella paura viscerale.
Aveva pianto in silenzio per così tante notti, distrutto al pensiero di non poter far niente per quella sofferenza, quasi arreso all’idea di non poterla salvare.
E alla fine, qualcosa di dolce, carezzevole e luminoso come i raggi che filtrano tra la chioma rigogliosa di un acero si era infiltrato tra le crepe di quell’anima frammentata, fortificandola e offrendole l’energia necessaria per non crollare nuovamente a pezzi. La cura di un semplice uomo l’aveva risollevata, l’aveva distratta dall’amore che non era in grado di provare per sé stessa, l’aveva portata a stringere un patto con la parte più corrotta dei suoi pensieri: Bruce non avrebbe sofferto a causa sua, l’avrebbe reso fiero, sarebbe andata avanti per lui, si sarebbe concessa di vivere l’unica forma di amore che avrebbe mai potuto ricevere.
Aveva placato la sua fame di silenzio, si era arrampicata sulla parete scivolosa di quella voragine nero petrolio, si era issata con le ultime forze rimaste, avvertendo la piacevole brezza di un cielo pulito soffiarle sul viso martoriato. Si era rotolata tra l’erba verde, esausta. Era riuscita a ridere per la prima volta.
Da lì aveva lasciato che Bruce accelerasse il passo, la gettasse nella vita senza permetterle una sola volta di guardare oltre le sue spalle e sporgersi ancora verso il basso. Era nato un amore senza definizioni, senza canoni, senza limiti: l’unica ragione per cui Ris aveva accettato di sopravvivere così a lungo, l’unica bellezza che era in grado di vedere in quel mondo, l’unico appiglio in una realtà che altrimenti avrebbe ripudiato con tutta sé stessa e che l’avrebbe terrorizzata, spingendola nuovamente sul fondo della voragine. Il velo con cui aveva nascosto l’angoscia, la vulnerabilità e l’abulia a cui era stata condannata nell’esatto istante della sua resurrezione. Mai realmente scomparse, semplicemente tenute a bada da un mosaico di confortevoli momenti.
E, tuttavia, non erano state le sue mani a tessere quel velo, non era lei ad averne il controllo. Era stato Bruce.
Lei non aveva mai messo nulla di suo nella costruzione di quel fragile palliativo, si era semplicemente limitata ad accogliere il bene di un’altra anima, convinta che potesse bastare, che in quel modo non avrebbe dovuto riesumare le forze per trasformarsi nel motore della sua stessa resistenza.
La verità è che si era illusa di poter vivere di quell’immobile realtà per sempre, lei e i suoi punti fermi.
E la verità è che le parole di Bruce hanno stracciato quel velo, permettendo al marciume sottostante di prendere nuovamente il sopravvento.
La verità è che ora un timore antico sfigura tutto ciò che di bello ha avuto la possibilità di vivere in quei cinque anni, privandola di ogni appiglio.
La verità è che è domenica sera, Atlanta piange e Ris non scende nessuno gradino: l’intera scalinata crolla sotto i suoi piedi.
Solleva il cappuccio della felpa nonostante sia ormai fradicia.
Si infila nel familiare vicolo e raggiunge una porticina mezza scassata, entrando.
L’odore di fumo e di sudore la investe con prepotenza; la musica, invece, le arriva attutita, separata da quell’antro di miseria.
Brent – carnagione color ebano e un metro e novanta di muscoli – è abbandonato svogliatamente contro lo stipite della seconda entrata, pronto a mandare al diavolo qualsiasi ospite indesiderato. Ris riconosce il vorticare di voci oltre le sue spalle, l’atmosfera cha ha più volte fatto da teatro alle sue disfatte.
L’uomo la guarda avvicinarsi con un cipiglio e nel momento in cui abbassa il cappuccio strabuzza gli occhi. Passano solo frazioni di secondo prima che una smorfia furente gli sfiguri il volto: «No, vattene. Ora.»
Nulla di sorprendente, Ris non poteva realmente aspettarsi altro.
«Fammi parlare con Rick.»
Brent scoppia in una risata, non riuscendo comunque a innescare il minimo guizzo nei lineamenti glaciali della ragazza.
«Rick ti manderebbe fuori a calci in culo. Quindi, sii saggia per una volta: testa bassa e via prima che qualche risentito possa mandarti all’ospedale.»
«Come potrebbe esserci qualcuno di risentito? Li ho fatti vincere tutti. I soldi non piacciono più?»
L’uomo scuote la testa e le intima nuovamente di andare.
Ris fa un passo avanti e in quel preciso istante la porta alle spalle di Brent si spalanca, vomitando un ragazzetto tatuato con occhi tremendamente arrossati. Rotola ai piedi di Ris, spinto da un Rick furente.
«Brent mi spieghi che cazzo ci fa un sedicenne strafatto nel mio locale? Stai perdendo le fottute diottrie?» lo rimprovera senza minimamente fare caso alla ragazza lì in piedi, statuaria. «E tu, piccolo infame, pensaci due volte prima di scatenare una rissa da quattro soldi per la tua merda.»
Punta un dito all’adolescente ancora raggomitolato ai piedi di Ris, prima di ricevere un ringhio e un “vaffanculo” che preludono la sua claudicante uscita.
Solo in quel momento, dopo aver seguito con occhi iracondi la fuga del malcapitato, Rick sembra finalmente realizzare di trovarsi al cospetto di una vecchia conoscenza. E che vecchia conoscenza.
Il volto emaciato si apre in un ghigno decisamente divertito: «Il ritorno del figliol prodigo. Come stai piccola Morales?»
Tutti, in realtà, sanno che Ris non è una Morales; tutti, tuttavia, la conoscono come la prima cadetta Morales.
E lei, che ha gettato qualsiasi residuo della famiglia Stevenson nel primo dei gironi infernali, non si è mai lamentata, sentendosi, al contrario, incredibilmente orgogliosa. Come se finalmente l’unico legame di sangue che avrebbe voluto condividere avesse finalmente trovato legittimazione.
«Saltiamo i convenevoli. Sai perché sono qui, lasciami entrare.»
«Te lo scordi», interviene nuovamente Brent incrociando le braccia al petto. Rick affila uno sguardo incuriosito, afferrando la spalla del suo caro vecchio amico per farlo indietreggiare.
«Ho sentito che il mio fratellino ha davvero fatto un buon lavoro in questi ultimi anni», considera studiandola con lentezza, «e anche che bazzichi nel Dojo di Kade Reeves. Sai cosa vuole dire presentarti qui come allieva del Dojo?»
«Fratellastro», puntualizza Ris con un ringhio.
Rick sorride affilato, alzando le mani in un segno di resa. La incita comunque a rispondere.
Ris sa cosa significa: addio Dojo, addio Kade.
«Ripeto: fammi entrare.»
E quando scorge gli angoli di quelle labbra sottili incurvarsi in una mezzaluna sghemba, Ris sa di aver letteralmente venduto l’anima al diavolo.
«Conosco un paio di scapestrate che farebbero i salti di gioia a sentire il nome Morales.»
Le tende una mano: «Ma questa volta niente trucchetti, voglio vederti combattere così come combatti sul ring patinato della pecora nera della famiglia.»
Come se fosse Bruce, poi, la pecora nera della famiglia.
Ris tentenna, ma accetta la fredda presa di Rick.
«Stasera ti tengo d’occhio io. Fai cazzate e ti sbatto fuori.»
 
 
 
«Quindi il mio intervento è stato assolutamente inutile?»
Tom incastra il telefono tra la spalla e il capo, sollevando con una mano il portabagagli della Cadillac.
«No, Emma. Non ho detto questo.»
«Ha inventato che doveva scapparsene a lavoro! Sicuramente la tua faccia da ebete non l’ha convinta.»
Tom alza gli occhi al cielo, afferra la cinghia del borsone e lo lascia cadere ai suoi piedi.
«Ti ripeto: ha detto che mi crede. Il problema non è questa stupida storiella del tradimento», confessa sospirando, «è che…non lo so, penso di aver capito alcune cose. E lei anche.»
Segue un momento di silenzio e Tom non è in grado di sentire altro che il sibilo di un vento freddo. Impreca tra i denti, realizzando di essere in ritardo per l’allenamento e di star facendo tutto il possibile per incoraggiare Ris a rendere il resto delle sessioni un reale e sanguinario inferno. Insomma, dopo la discussione di quel venerdì avrebbe fatto meglio a ponderare qualsiasi sua mossa. Quindici minuti di ritardo avrebbero portato solo ad un estenuante silenzio tombale e ad un paio di scene totalmente stravolte giusto per sbatterlo a tappeto.
Ed è tutto il giorno che pensa a come dovrebbe comportarsi. Dopotutto, lo deve proprio ammettere: le ha detto delle cose orribili, cose che poi si è reso conto di non pensare realmente. E alla fin fine, che cosa gli aveva fatto Ris? Gli aveva solo detto la sua verità, che poi, guarda caso, si era rivelata la stessa da lui profondamente temuta e repressa. Ma Tom, testardo come un mulo, non poteva proprio accettare che una semi-sconosciuta avesse colto ciò che nemmeno lui era in grado di vedere, o che forse preferiva semplicemente ignorare.
Si era infuriato, ostaggio della sua stessa vulnerabilità; si era esposto, credendo di poter scampare alle conseguenze di quella scelta.
Aveva apprezzato la silenziosa vicinanza di Ris, ritrovandosi quasi a sperare che la sera, dopo due ore di sfiancante allenamento, non lo lasciasse da solo con quel sacco da boxe e sorridendo con il capo basso quando la scorgeva allontanarsi verso la fermata del pullman. E poi eccolo a vomitarle addosso un ingiustificato disprezzo quando lei – con modi sicuramente scontrosi e saccenti, certamente irritanti e senza dubbio poco delicati – provava ad aprirgli gli occhi. Sì, era stato un codardo e sì, le avrebbe parlato. Le avrebbe chiesto scusa e le avrebbe proposto di cancellare tutto e tornare al confortevole – magari freddo –, meccanico e lineare rapporto dei primi giorni. Non avrebbe permesso alla sua vulnerabilità di creare terremoti in un luogo che ne sarebbe dovuto rimanere immune. Forse l’austera professionalità di Ris sarebbe servita a lasciare che tutto filasse senza intoppi; forse doveva semplicemente andare così.
Poco conta se tra le costole percepisce ancora il tremolio di quello sguardo, quello con cui, alla fine, si erano detti più parole di quante se ne sarebbero potuti scambiare in quindici ore di allenamento. Poco conta se proprio in quel frangente le aveva confessato di avere una paura fottuta, di sentirsi un’anima persa, di non aver mai pensato nessuna di quelle cattiverie. Poco conta se aveva cercato di farle capire, avvolti da un cielo nero e tetro, che si sbagliava: che lei sapeva amare, che la invidiava perché lui non sembrava proprio esserne in grado. Poco conta se lei, illuminata da un’aurea sconosciuta, aveva abbassato la sua schermaglia di indifferenza per fargli capire che l’aveva vista, quella sua anima ferita, per sussurrargli che non era solo, che anche se se lo fossero dimostrato in modi totalmente inopportuni e con parole assolutamente sbagliate, potevano comunque mantenere quella silenziosa e distaccata vicinanza, giusto per permettere che almeno gli angoli più intimi e invisibili ai loro stessi occhi potessero parlarsi con dolcezza. Poco importa se Tom alla fine non avrebbe trovato il coraggio di parlare e avrebbe sperato, anche quel lunedì sera, che lei non lo lasciasse da solo con il sacco da boxe in pelle rossa.
«Quindi il mio intervento è stato realmente inutile! Non hai pensato di avvertire la tua cara sorellina? Che ne so io che finalmente ti sei svegliato e hai capito che con Jen non vai da nessuna parte!»
Tom si riscuote, non rendendosi nemmeno conto di aver macinato tutti quei metri e di aver ignorato buona parte del discorso di sua sorella.
Ma una cosa è certa: come al solito, Emma lo rimprovera e, come al solito, Emma sa più cose di quante ne potrebbe sapere lui stesso. E Tom, come al solito, si contorce in un cipiglio e boccheggia, spazientito: «Contestualizza, sorellina. Contestualizza.»
«Oh andiamo, hai presenta la scintilla? Insomma, quella cosa scoppiettante, viva, accecante, inebriante? Ecco, pensi di averla mai vissuta con Jen? Perché se vuoi il mio punto di vista, penso che ci sia molta più chimica tra la mia aspirapolvere e i batuffoli di pelo di Whiskey.»
Whiskey è il gatto di Emma; Whiskey odia Tom; Tom cerca di farsi amare da quattro anni e ogni Natale si conclude con un bel graffio pulsante appena sotto l’occhio.
«Da quanto lo pensi?»
«Diciamo che fingere una broncopolmonite per rinunciare a due intere giornate in un cottage da spezzare il fiato si è rivelato un indizio fondamentale. E insomma, ogni volta che ti chiedo come procede rispondi con lo stesso entusiasmo della voce metallica del casello autostradale.»
Tom sospira e si passa una mano sul volto.
«Senti, mi sono sempre trovato bene con lei. Qualche volta mancano giusto gli argomenti, ma avanti, non si costruisce qualcosa in due giorni. Pensavo servisse solo un po’ di tempo, però…Cristo, non lo so Emma, ok? Non lo so.»
«E quindi ora cosa pensi di fare?»
Tom si volta con espressione sconsolata verso il portone dello studio 3, ormai a pochi metri di distanza.
«Per ora so solo che mi farò massacrare da una venticinquenne tutta furia e poca etica. Quando stasera crollerò a letto forse ci penserò, forse no.»
«Non puoi lasciare le cose in sospeso, lo sai.»
«Da quando, comunque, ti ho assunto come guida morale?»
«Sono tua sorella: è la mia seconda professione dopo quella di tentatrice infernale.»
Tom non trattiene un sorriso mentre abbandona il gelo di quella serata alle sue spalle e s’infila nello stabile. Fa per salutare Emma, ma prima che possa dire qualsiasi cosa la sua voce squillante lo blocca: «Oh, e Tom, per la venticinquenne che ti pesta come una furia, che ne dici di portarmela a Londra al termine delle riprese? Lei sì che merita tutta la mia ammirazione.»
Tom non risponde neanche, chiude la chiamata e si fa scappare una risata quando è sicuro che Emma ormai non possa più sentirlo.
Infila il telefono nel borsone e si volta, inspirando profondamente. Cristo, perché è così agitato?
Michael è a un passo da lui e gli lascia una pacca sulla spalla, ma prima di superarlo si ferma e gli rivolge uno sguardo che Tom – può giurarlo su qualsiasi cosa al mondo – non gli ha mai visto addosso.
C’è qualcosa d’invisibile che gli fa perdere un battito.
Le dita di Michael tamburellano sul tessuto della maglia di Tom, tentennando.
Tom, con un semplice sguardo e un paio d’occhi confusi e leggermente intimoriti, lo sollecita a dire almeno una parola.
«Senti», inizia il suo collega guardandosi attorno in difficoltà, «non fare domande. Semplicemente, non farle.»
Aggrotta le sopracciglia e afferra il polso di Michael non appena capisce che lo lascerà lì impalato senza spiegazioni. Gli occhi glaciali dell’attore incrociano i suoi e accenna un tenue sorriso.
Ma che diavolo sta succedendo?
Lo guarda uscire dal portone e fionda lo sguardo sul pavimento, come se le sue scarpe avessero le risposte a quella matassa di silenzi.
Si volta e si dirige verso il centro della palestra. Riconosce il tatami, il quadrante centrale, il materasso per le cadute, l’attrezzatura, il borsone di Ris abbandonato in un punto indefinito e lei, che esce lentamente dal bagno poco lontano, proprio accanto alle spalliere sul lato sinistro.
Indossa una felpa pesante con il cappuccio sollevato e lui continua ad avanzare. La segue incuriosito, convinto che ci sia qualcosa che non va. Si avvicina a lei, ora ferma al grande materasso, chinata alla ricerca di qualcosa. Estrae una bottiglietta d’acqua e continua a ignorarlo mentre si scola tutto il contenuto e lui lascia cadere il borsone sulla panchina di ferro. Se ne sta lì fermo a fissare il suo profilo in attesa che lo degni di un saluto.
«Avanti, andiamo», bisbiglia tenuemente chiudendo la cerniera della sua sacca. Il cappuccio le cade, i capelli raccolti sono appiccicati alla base del collo e il suo respiro è molto più affannato del solito. La sente sospirare spazientita e frustrata appena prima di voltarsi completamente verso di lui: «Cos’è? Oggi si gioca alle belle statuine?»
Tom, tuttavia, non ha la forza di rispondere.
Perde decisamente più di un battito e sente le sue labbra schiudersi leggermente, incapace di razionalizzare quello che i suoi occhi si ritrovano ad esaminare accompagnati da un nodo alla gola e un pugno allo stomaco.
Ris, dal canto suo, è pronta a reggere tutto quello. Lo è da una giornata intera, in realtà.
Continua a maledirsi dal primo minuto di quel lunedì mattina: la faccia Ris, cazzo, proteggi sempre la faccia.
Kade, fortunatamente, si era fatto vivo solo per messaggio prima ancora che albeggiasse, avvertendola che si sarebbe dovuta addossare l’intero programma del giorno e che avrebbe fatto meglio a sperare che ai pieni alti non avessero preso decisioni drastiche sulla sceneggiatura. La maggior parte degli allievi di quel giorno, poi, si era semplicemente tramutata in una muta statua. Come se poi fosse realmente una novità con Ris attorno.
Solo Michael, fino a quel momento, aveva cercato di farla parlare e lei, come da manuale, gli aveva propinato una manciata di cazzate senza capo né coda. Michael, in realtà, non aveva fatto altro che lasciarle credere di esserci cascato.
Ma Tom, lì in piedi con due occhi che non la abbondonando nemmeno per una frazione di secondo, non può proprio ignorare il livido sullo zigomo e il labbro spaccato, non può proprio evitare di percorrere ogni centimetro di quel volto con cura e meticolosità. E per la prima volta, Tom sente la mancanza di quella fredda e saccente espressione, di quelle labbra costantemente premute in una dura linea di intransigenza. Una linea, tuttavia, piacevolmente armoniosa e rosea come un bocciolo: nessun taglio, nessun livido e nessuna traccia di sangue raffermo a sfigurarla.
«Senti, togliti quell’espressione dalla faccia. Gli allenamenti di boxe possono finire anche molto peggio.»
Gli volta le spalle e si allontana.
Tom rimane lì impalato.
Allenamenti di boxe un cazzo.
 
 
 
Nonostante percepisca ogni singolo legamento supplicarla di fermarsi, Ris accoglie con paradossale sollievo quella dolorosa stanchezza. Tom non ha ancora proferito parola, ma quel silenzio è così distante dal timore di chi, prima di lui, si era ritrovato nella stessa scomoda posizione. Gli sguardi bassi che l’avevano graziata vengono sostituiti ora da un paio di occhi marini che non hanno la minima intenzione di ignorare e declassare quell’evidente menzogna. Ris continua imperterrita a impartire dritte e comandi, fingendo di non soffrire quella tremenda pressione e di non essere minimamente sfiorata da quell’estranea attenzione. Non riesce a guardarlo in viso, ad essere sfrontata come al solito, a lasciarsi scivolare addosso sguardi e pensieri che non siano i propri. Si sente braccata, scoperta nonostante lo spesso strato di cotone e poliestere che nasconde le sue debolezze e la sua follia. Stanata.
Per la prima volta, Ris non è in grado di sorreggere il suo muro d’indifferenza. Per la prima volta, Ris è tanto debole da non poter armarsi dell’astio con cui assicurarsi la distanza dei curiosi, la distanza di chi, in quel momento, arretrerebbe solo di fronte a un attacco diretto, spietato e irreparabile. Si ritrova a sperare che, confinata in quella nuova – e dolorosamente vecchia – fragilità sommessa, Tom percepisca la sua supplica e si mantenga qualche passo indietro. Non ha la forza di trasformarsi nella Lama che è; ha a disposizione solo una fioca preghiera, sussurrata nel silenzio in attesa che venga ascoltata. E nonostante possa ancora coltivare la speranza che Tom non s’infiltri come disinfettante in quelle ferite, dall’altra parte nutre una ferma consapevolezza: lui sa, sa e non ha intenzione di fingere il contrario.
Sa che le sue giustificazioni, tessute con fragile brina, non sono altro che inconsistenti fili di fumo. E gli basta solo quello per impuntarsi a non lasciare che il suo sguardo la abbandoni, a permettere che una premura spaventosamente naturale si palesi in maniera così sfacciata nelle pieghe del suo viso, a ripiegare su insulsi escamotage per costringerla a rallentare il passo e fermarsi molto più spesso del solito.
Per l’ennesima volta Tom finge di non ricordarsi una sequenza e Ris sospira mantenendo lo sguardo basso, limitandosi semplicemente a ripetere i movimenti con lentezza, istruendolo con tremante calma.
Tom non dice niente, eppure fa così tanto. Tanto da farla imbestialire. Vorrebbe solo urlargli che sta bene, che può reggere quelle due ore di allenamento, che non le è successo niente, che è abituata, che lei vuole e desidera ardentemente che il suo corpo sia il suo stesso martire, che l’unico modo con cui potrebbe aiutarla è dandole modo di lavorare con i soliti ritmi, nella speranza che a fine giornata non possa far altro che trascinarsi a casa senza poter pensare a nulla se non al dolore fisico.
Eppure, non ha la forza di rimproverargli proprio nulla. La muta e invisibile cura che le riserva non è qualcosa con cui Ris è in grado di misurarsi e, a dir la verità, è una novità che la spaventa, che la rende fragile, gettandola in un territorio sconosciuto.
Lancia uno sguardo all’orologio appeso e si rende conto che manca ancora mezz’ora.
No, sente di non poter resistere. Deve andarsene e cercare rifugio.
Tom è a pochi passi da lei, si sta passando l’asciugamano sulla fronte ed è pronto a tornare in posizione.
«Senti, per stasera direi che va bene così», farfuglia senza guardarlo, «e comunque sarebbe inutile iniziare ora qualcosa di nuovo.»
Si passa entrambe le mani sul volto arrossato, rendendosi conto di quanto sia effettivamente accaldata. Qualcosa le suggerisce che potrebbe tranquillamente svenire da un momento all’altro.
Si avvicina al suo borsone, fermandosi inevitabilmente accanto a Tom. Mentre rimette a posto le sue cose realizza di star tremando e di aver disperato bisogno di un sorso d’acqua, ma la bottiglietta vuota la guarda con scherno dal fondo della sua sacca. Impreca sottovoce e cerca di darsi una mossa. Tom si siede sulla panca e la osserva dal basso, con cautela e al tempo stesso disarmante intensità. È come se volesse farla parlare, come se la supplicasse di ricambiare quello sguardo, giusto per farle capire che non deve rimanere vittima del suo silenzio e dei suoi mostri. A Ris, tuttavia, non interessa smezzare la sua sofferenza, non le interessa nemmeno che se ne curi: se solo potesse realmente farsi annientare, forse allora troverebbe la pace e il nulla che ha sempre agognato.
Chiude la cerniera del borsone con dita malferme e non riesce a far nulla per mascherare l’affanno insolito del suo respiro. Una mano si tende sotto i suoi occhi: dita curate stringono una bottiglietta d’acqua.
Occhi nocciola sferzanti di verde si sollevano automaticamente, fermandosi sui lineamenti gentili di Tom. La incita ad accettare quel banale gesto. Dopotutto, Ris sta letteralmente morendo di sete.
Sospira e afferra la bottiglietta.
«Quindi stasera mi tocca fingermi un pugile esperto senza che nessuno mi guardi come se stessi catturando farfalle con un retino», le sussurra lasciando che una schiera di denti bianchissimi e perfetti faccia capolino tra labbra rosee e sottili.
Ris prende l’ultimo sorso e prima di restituirgli la bottiglia alza quasi impercettibilmente l’angolo della bocca verso l’alto.
Si infila il borsone a tracolla e tentenna, guardando la parete di fronte a sé.
«Ci vediamo domani, Tom.»
Abbassa velocemente lo sguardo, giusto per vederlo piegare il capo di lato e fare un sorriso amaro.
«A domani, Ris.»
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su attori > Tom Hiddleston / Vai alla pagina dell'autore: _Recneps