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Autore: Manto    26/07/2021    1 recensioni
❤ Terza classificata al contest "Favole di oggi – II edizione" indetto da Fiore di Cenere sul forum di EFP
(Sigma x Gogol')
Nelle profondità dei boschi del monte Hakone riposa un segreto che le leggende dicono non appartenere agli uomini, ma a una forza che li supera; ed esso tocca le anime e rintocca in esse, dando la spinta necessaria per seguire i propri desideri e la luce che palpita sotto il buio del dolore...
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Fyodor Dostoevsky, Nikolai Gogol, Sygma
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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{ II ◊ Saggio è Il Caduto, e Il Giovane }





Ormai è Ottobre inoltrato: le giornate sono così belle e le temperature tanto alte che anche le mura dell’Imperiale non riescono a disperdere il calore, di conseguenza seguire le lezioni non è così semplice.
Ogni tanto, specialmente al volgere della notte, Tokyo si ammanta con lacrime di pioggia e trasforma le sue strade, i palazzi e le finestre in grandi o minute schegge di cielo precipitato al suolo, dove i colori fioriscono nelle loro mille gradazioni e gli ombrelli diventano gli unici abitanti di un mondo diverso.
La stagione sta scivolando verso il proprio riposo, e con lei il primo anno di università ha già raggiunto e superato la sua metà.
All’inizio della settimana di lezioni, sul treno dell’andata, Sigma tiene stretto a sé il taccuino dove segna le impressioni; il silenzio e l’ambiente confortevole, così come il sole che fatica a sorgere, conciliano tutti i pensieri che desidera, che non si interrompono neppure all’arrivo a Tokyo.
La vita sembra esplosa, per lui, quasi che gli anni precedenti siano stati principalmente un bozzolo di preparazione per un grande volo, una stasi per immergerlo nel fiume di persone con cui incrocia regolarmente i passi o i respiri all’interno delle aule; a volte, le sensazioni e le parole sono così tante che il ragazzo deve fermarsi un istante e riprendere fiato, ma mai sotto emozioni negative. Anche la paura di dimenticare pare sempre più lontana, ora, e torna sporadicamente con brevi sogni privi d’importanza.
Le lezioni, gli studi nella Biblioteca Generale, tutto il mondo universitario lo tiene impegnato senza pressarlo; probabilmente perché lo ha atteso per anni e lo sta condividendo con le persone giuste? Non molte quelle con cui si sente in completa sintonia, ma così è naturale che sia: volti e voci che gli sono divenuti amici immediatamente, dopo poche ore di presenza all’Imperiale; persone come Dostoevskij, che si è accorto di seguire molto più di quanto immaginato, incontri che il caso ha voluto far accadere e dove nessuna delle due parti ha ceduto l’altra, per simpatia e istintiva comprensione ― unicamente così potrebbe spiegare il modo in cui ha conosciuto Atsushi Nakajima e la facilità con la quale si sono legati.
Forse è ancora presto per dirlo, eppure le ore passano così veloci e non si sente mai fuori posto in compagnia di queste conoscenze, come se fin da sempre sia stato destinato a raggiungerle; qualcosa dovrà pur contare.
«Ti stanno facendo crescere? Le esperienze che stai vivendo, le persone dalle quali corri ogni mattino, ti lasciano ciò che meriti?», gli chiede il padre adottivo ogni venerdì sera, alla fine di un’altra settimana e quando non c’è spazio per le illusioni, facendogli segno di seguirlo sul balcone della loro casa e mostrarsi al volto della luna.
E Sigma ha sempre la stessa risposta: parole che negli anni più difficili avevano perduto qualsiasi significato nell’apatia data da un dolore tanto diffuso e intenso da non farsi nemmeno percepire; pensieri che sente di poter condividere con la compagnia che frequenta all’Imperiale, e anche rivolgere a sé stesso.
Non è mai troppo tardi per considerarsi un po’ di più.
… E ovviamente, a equilibrare ogni momento fin troppo perfetto c’è la sua appropriata nota fuori dal coro ― in questo caso, abbastanza alta da far venire il mal di testa: l’assoluto protagonista del Club di Teatro[1], la persona più insondabile e inarrestabile che abbia mai incontrato, capace di divenire così assurda e priva di limiti da far perdere il controllo anche agli altri; il suo esatto opposto, si divertono a dire in molti, che risponde al nome di Nikolai Gogol’.
Il Giullare, come lo chiamano in tono non sempre benevolo, che difficilmente si lascia sfuggire l’occasione di punzecchiare chi gli sta accanto, quasi abbia piacere a infastidire e allontanare chi tenta un contatto con lui, e faccia di tutto per portare la gente a questa decisione.
Non c’è una regola né un legame, con lui; eppure, come un bizzarro tassello che stravolge l’intero mosaico del reale, Sigma lo ha conosciuto proprio in un’occasione dove il distacco è l’ultima cosa che ha ricevuto: è stata la mano di Nikolai la prima a tendersi per aiutarlo ad alzarsi dopo aver sbattuto malamente il naso contro il pavimento della Biblioteca Generale, e quel giorno sempre la sua mano si è mostrata pronta a ogni necessità. Un dettaglio che suona come una rarità, se si guarda a quanto è successo nelle settimane successive: di certo non c’è alcun bisogno di segnare sul taccuino il giorno in cui lui e Nikolai hanno rischiato di essere cacciati dall’aula di Letteratura Giapponese perché quest’ultimo ha avuto la fantastica idea di mettersi a fare colazione davanti al professore ― e a spartire la colpa con lui ―, o del caos che il giovane ha seminato negli spazi destinati al Club di Teatro, quasi sia passata una tromba d’aria.
Un intero pomeriggio di riordino è stato a malapena sufficiente per riparare a quello scenario di guerra, il quale ha rischiato di essere successivamente vanificato dalla discussione esplosa tra lui e Nikolai quando questi ha provato a fargli indossare un vestito da sposa, una scena a cui solamente l’infinita pazienza di Dostoevskij è riuscita a porre un freno senza che si cadesse nella violenza fisica. A distanza di mesi, ogni qualvolta si trovino insieme e con Fyodor, non mancano i momenti in cui Gogol’ ancora lo punzecchia per questo e Sigma ribatte a tono e con la promessa che prima o poi gli ritornerà ogni cosa, vestito da sposa compreso; ciò che tuttavia non dice, preferendo tenerlo nel cuore, è come una parte del suo animo invidi l’assoluta capacità di Nikolai di svincolarsi dalle leggi per decidere da sé, la voglia di essere totalmente libero e la caparbietà con cui persegue tali obiettivi.
Nell’Imperiale non girano solamente commenti riguardo al caos che Gogol’ porta o sullo spettacolo che va preparando insieme a una compagnia teatrale di Tokyo: si mormora anche di eventi più intimi, tristi e profondi, che hanno scatenato la determinazione di strappare le radici che lo possano legare agli altri e di cui le cicatrici su tutto il corpo sono una testimonianza concreta. Un’altra prova di magistrale finzione, o i sussurri sanno bene cosa vanno dicendo?
Sigma non si lascia sfuggire nulla né con il diretto interessato né con Fyodor, ma dubita di poter mai capire, lui che quelle radici sicure le ha desiderate e pregate per anni con tutta la disperazione di una persona smarrita.
Ciò che ha un senso, un posto e un motivo per il suo animo, quello di Gogol’ sembra ripudiarlo: è con loro, intento a parlare ininterrottamente di tutto ciò che gli passa per la mente ― o così sembra ―, e al medesimo tempo altrove, già lontano e al di là delle forze di ognuno; irraggiungibile e per questo felice, schermato e protetto grazie alla rottura di qualsiasi vincolo.
E ai quesiti di una simile anima, difficilmente la sua potrebbe rispondere.
 


 

La prima volta che Sigma inizia a mutare le proprie convinzioni, è una notte di metà Novembre.
Qualche giorno prima, il ripasso serale del ragazzo viene interrotto dallo squillo del telefono e dal display illuminato dal numero di Fyodor, con una chiamata in entrata; tre minuti e non molte parole dopo, lo stesso cellulare viene posato sul tavolo e il cuore di Sigma si trova a battere per l’agitazione emozionata che segue il contatto con una persona stimata o a una notizia che ha il potere di rivoluzionare ogni piano: in questo caso, per entrambi i motivi perché il ragazzo è appena stato invitato a uno dei più attesi concerti di musica classica della capitale, con Dostoevskij e senza nessun altro ― un momento unicamente per loro due. Qualcosa che non avrebbe potuto rifiutare nemmeno volendo, ergo la mano trema leggermente nel registrare la data sul calendario e poco sopra l’appunto che rammenta lo spettacolo di Gogol’, finalmente pronto a essere mostrato, segnato a due settimane dopo.
Lo sguardo si posa su entrambe le note con un misto di felicità e attesa; una sensazione che lo accompagna al giorno dopo, quando le dita prendono il biglietto da quelle di Fyodor e il tempo rallenta un poco la sua corsa.
Forse il sole straordinariamente caldo e forte per essere novembrino, unito all’eccitazione del momento e ai tanti discorsi, eventi e momenti che si intrecciano durante il giorno, nasconde un elemento che dovrebbe essere notato subito; ma l’abbaglio del non detto è più potente di quello del mezzogiorno, e allora tocca lasciar scendere le tenebre e far sì che la luna sciolga le illusioni.
Alla fine la sera tanto desiderata arriva, a dir la verità nemmeno così lentamente come Sigma ha temuto. Tokyo è calma, quietata dal freddo che ha già il sapore dell’inverno, e quando il ragazzo raggiunge la sua meta ha appena il tempo di guardare la facciata dal gusto occidentale del teatro che ospita il concerto, che un istante dopo Dostoevskij è al suo fianco con un’espressione serena e lo scintillio della città negli occhi viola.
Come spesso accade, Sigma si trova ben presto a pendere dalle sue labbra mentre, in attesa che lo spettacolo inizi, il compagno gli racconta la storia del teatro e insieme discutono sulle ultime lezioni all’Imperiale; così che arrivano senza accorgersene al momento che il sipario si alzi, nell’aria già le prime, delicate note che annunciano l’inizio del trionfo.
«Al giorno in cui potremo salire su un simile palco anche noi», è l’ultima cosa che Fyodor sussurra con un mezzo sorriso e come a un brindisi.
«Non ci siamo già, nel nostro piccolo?», è la risposta spontanea di Sigma, alla quale l’altro replica socchiudendo gli occhi e allargando la smorfia con aria soddisfatta. Dostoevskij non potrebbe essere più rilassato e in pace, riconosce Sigma, il quale lo guarda con un lieve sorriso mentre mentalmente lo ringrazia un’ennesima volta per quella che sicuramente sarà una serata meravigliosa.
Il primo attacco di archi gli dà la conferma di ciò e gli incolla la schiena alla poltroncina, catturandogli immediatamente la mente in una danza melodiosa che non lascia scampo; il respiro si blocca così come tutte le attività e i sensi del corpo che non siano il battito del cuore e l’udito, tanto che quando la prima ora di concerto giunge al termine e i musicisti concedono agli ascoltatori e a sé stessi una breve pausa, Sigma ha la sensazione di essere rimasto in apnea fino a tale istante. Da parte propria, Fyodor non gli risparmia occhiate divertite e si allunga verso di lui per dirgli parole che per lo più finiscono perdute, per poi lasciare il proprio posto e allontanarsi un istante, facendo sì che il ragazzo riprenda tutto il respiro di cui ha bisogno.
Una volta calmatosi e approfittando della pausa, quasi Sigma cade in un altro incanto mentre alza il capo per guardarsi intorno e ammirare i ricchi riccioli di marmo, gli affreschi chiari e le statue di gusto classico che adornano il teatro, così lontani da ciò a cui è abituato e tuttavia apprezzabili. «Gogol’-san…», mormora all’improvviso e mentre è concentrato nei suoi pensieri, quasi per caso; perché in questi si è intrufolata la buffa immaginazione di cosa farebbe l’eccentrica energia del ragazzo se si trovasse chiusa in quel luogo così raffinato, e lui non può fare a meno di ridere un poco all’idea per quella che sarebbe sicuramente una scena memorabile.
«Credo che il concerto sarebbe stato gradito anche da lui», esordisce Fyodor, che forse ha sentito tutto o forse ha indovinato il soggetto del suo silenzio, in quell’esatto istante e mentre riprende il suo posto, «gli è sempre piaciuta la musica classica. I suoi impegni hanno deciso altrimenti.»
«Domani avremo parecchio da raccontargli, allora», risponde l’altro, leggermente tremante nel tono a causa della sorpresa e domandandosi quanto effettivamente abbia parlato a bassa voce.
«Di certo è ancora sveglio… sentiremo dopo com’è andato il suo spettacolo.»
Il suo spettacolo.
Sigma rimane immobile, come fulminato, per poi volgersi lentamente verso l’altro. Ancor prima che questi lo guardi, sa di essere impallidito. «Spettacolo?»
Un cenno d’assenso contenuto e neutro.
«Ma… se è della Commedia degli Errori[2] che stai parlando, io credevo… credevo che avesse luogo tra due settimane.»
Dostoevskij incurva appena le labbra; e sotto il ghigno che va oscillando tra il pietismo e qualcosa di più ombroso, Sigma sente un piccolo nodo chiudergli la gola con la fastidiosa sensazione del disagio.
«Forse qualcuno si è dimenticato di dirti che è stato anticipato a stasera?»
Sigma non replica immediatamente e si volge a guardare innanzi a sé, al sipario ancora calato. La scomoda sensazione aumenta e a essa si aggiunge anche un pungolo sottile che inizia a tormentargli il petto e il ventre con ferocia crescente. «Ci teneva moltissimo, ce ne ha parlato per ore e ore.»
«Se è per la sua performance che temi, sono sicuro che sarà andato meravigliosamente anche senza noi a sostenerlo, contando la sua bravura.»
«Non è questo, Dostoevskij-san…» Una breve pausa, dentro alla quale nasce un pensiero rapido come una freccia. Assomiglia a un sussurro che solamente l’istinto può far nascere. «Da quando lo sapevi? Del cambio di data, intendo.»
«Hmm? Mi ha avvertito lui stesso una settimana fa, prima che t’invitassi.»
Prima d’invitarmi. Non ha rinunciato a questa serata per l’amico di una vita. «Eppure stasera siamo qui…», è la replica dal tono leggermente stridulo che Sigma non riesce a trattenere e che non ha desiderio di tacere.
Lo sguardo che Fyodor gli dona passa da imperturbabile a gelido, quale quello che si rivolge a un bambino che ha detto parole inappropriate; ma prima che venga data una risposta, l’intervallo ha termine, il sipario si alza nuovamente e il concerto ricomincia.
Subito la Suite No. 1 di Bach riempie l’intero teatro della magia di una musica sapientemente eseguita e trasporta i presenti nella realtà che questi preferiscono, ma per Sigma l’idillio della prima ora è andato in frantumi e la malia non lo riesce più a rapire: anche se volesse respingerli in un angolo, non potrebbe non sentire il nodo e il pungolo divenire così fastidiosi da mozzargli il respiro, la serenità della sera incrinata sotto il rimorso e quella che considera una colpa anche sua. Non avrebbe mai creduto di pensarlo, un giorno, ma ora non fa che andare da Nikolai con la mente e chiedersi che cosa lo trattenga al suo posto,  per quale motivo non stia attraversando mezza Tokyo in preda a una corsa folle che gli permetta, anche se in vergognoso ritardo, di piombare nel luogo dove si sta tenendo lo spettacolo e di assistere sì agli ultimi minuti, ma di esserci.
Esserci, come quella mano tesa verso di lui che non ha chiesto nulla in cambio.
«Scusami. Grazie per questa sera.»
Fyodor non mostra alcuna espressione quando Sigma, incapace di restare lì un istante di più, si alza e gli sussurra il suo arrivederci, ma questi non ha il tempo di interessarsene: è già uscito dal teatro… e immediatamente si è anche fermato, frenato dalla figura di Gogol’ che, con ancora il trucco di scena sul volto, li sta attendendo a qualche metro dell’entrata con l’adrenalina dello spettacolo che continua a scorrergli nel sangue. Girato di spalle, questi si accorge di Sigma solamente quando il ragazzo gli sfiora un braccio e lo saluta con una smorfia che non sa nascondere l’amarezza che prova.
Da parte sua, Gogol’ lo accoglie con la consueta energia se non di più, tanto che nessuno potrebbe dire cosa lo trattenga dall’abbracciare l’altro; ma le sue dita paiono lingue di fuoco mentre sfiorano la fronte di Sigma, spostando i ciuffi che gli sono ricaduti davanti al viso. «Il concerto è stato così orrendo da toglierti tutto il colore dal corpo?», chiede il giovane con una risata leggera, non convinta, mentre assottiglia gli occhi e lo fissa più da vicino.
Sigma tace e abbassa il capo mordendosi le labbra, non sapendo come chiedere perdono né quanto diritto ne abbia.
Dopo qualche attimo di quello piccolo spazio vissuto solamente da loro due, entrambi percepiscono la presenza di Fyodor e del fiume di persone che lascia il teatro per la fine dell’evento; Gogol’ rivolge l’attenzione all’amico e Sigma indietreggia di un passo mentre li osserva salutarsi allegramente e nota il loro sguardo brillare di qualcosa che lui non possiede, e per qualche ragione questo accentua la sua sensazione di malessere tanto da spingerlo a declinare con gentili scuse ogni proposta per proseguire la serata da qualche parte, così che invece prende il treno più solitario e malinconico della sua vita.
Le sensazioni rimangono come un macigno appoggiato direttamente sulla bocca dello stomaco, nemmeno il sonno più profondo le allenta di un poco: l’oro degli occhi di Gogol’ le attizza ogni qual volta i loro sguardi s’incrocino davanti a Komababa, diventa sempre più difficile sostenerli.
Qualche giorno dopo gli eventi, Sigma non riesce più a trattenersi: ferma Nikolai e lo fa sedere sotto un albero di ginkgo, e le parole escono molto più facilmente di quanto prospettato dalla sua mente.
Per una volta, il sorriso di Gogol’ non è canzonatorio mentre questi fissa Sigma tormentarsi gli splendidi capelli, lunghi e chiari quanto i suoi, e attende che il ragazzo si liberi come il fiume delle sue parole e sveli il dispiacere per aver mancato alla prima del suo spettacolo. Non dubita neppure un attimo di quanto sente: Sigma lo vede da come lo ascolta. Tuttavia, Nikolai lo sorprende una volta ancora quando, finito di parlare, commenta con un innocente: «Ti sei torturato per giorni solamente per questo motivo?»
L’altro giovane rimane un attimo stupito, quindi china il capo. «… Ce ne hai parlato così tanto e tutti sanno quanto sei bravo a recitare; insomma, ero curioso di vederti.» Ma c’è qualcosa d’altro dietro alle sue reazioni, lo sa, anche se in quel momento non riesce a capire cosa sia.
Da parte sua, Gogol’ esplode in una risata sincera, gli prende due ciuffi di capelli e inizia a intrecciarli. «A dir la verità, fino a pochi minuti fa non ho mai creduto che avresti voluto esserci.» Una pausa, la voce che si abbassa di un poco. «Mi attendevo la presenza di Dos-kun, lui sì… ma il concerto faceva solamente una data, mentre noi della compagnia ripeteremo lo spettacolo altre volte. Non si è lasciato sfuggire l’occasione.»
Sigma si porta le ginocchia al petto e le circonda le braccia, come se volesse chiudersi su sé stesso, e vi appoggia sopra il mento. «Avrei voluto sapere del cambio di data», sussurra, «ma è anche vero che io non ho più chiesto conferme o altro, né il motivo per cui non eri presente al concerto. Eppure spesso siamo solo noi tre, ma è come―»
Nikolai lo ferma con un gesto. «Facciamo così», esordisce con un piccolo ghigno sul volto e lo sguardo accesso da una luce nuova, «se ritieni di avermi fatto un torto, allora lo potrai espiare solamente se obbedirai a ciò che ti dirò. Ma niente vestiti da sposa ― non subito, almeno! Aaaah, no, questa non la dovevo dire!»
Sigma corruga la fronte e si adombra appena, sentendo un brivido freddo percorrergli la spina dorsale; non può finire bene, pensa ora come il giorno dopo, quando scende dal treno che lo ha portato a Tokyo e vede Nikolai venirgli incontro con aria sorniona, una piccola borsa nascosta dietro la schiena.
Sarà qualcosa di terribile…
… O forse no?

«Allora? Non sei semplicemente fantastico? Non che prima tu non lo fossi, ma guardati ora!»
Sigma continua a fissare la propria immagine nel piccolo specchio che Nikolai regge di fronte a lui, gli occhi spalancati e senza parole. Il bagno dell’ultimo piano dell’Imperiale, scomodo a tutti gli studenti e praticamente deserto per via delle lezioni, è un completo disastro e probabilmente impiegheranno ore a pulirlo, oltre a doverlo fare in fretta; ma per il momento nessuno dei due si cura del disordine, ora che l’attenzione di entrambi è posta su un gigantesco dettaglio nella figura di Sigma.
«Alloraaaaa?», incalza Nikolai mentre lascia lo specchio nelle mani dell’altro e si sposta alle sue spalle per osservarlo da ogni angolo, «modestamente, è un lavoro perfetto. Puoi toccarli se vuoi!»
Esitante, Sigma si passa una mano tra i capelli, che la tinta ha reso per metà argentei; l’altra metà esatta del capo, invece… l’altra metà è lilla, così come sono lilla i lavandini, l’intera persona di Gogol’ e l’asciugacapelli che questi tiene ancora in mano, sottratto al Club di Teatro. Inoltre, i ciuffi che porta davanti sono stati tagliati per buona parte della loro lunghezza in un’acconciatura che lo ha lasciato sorpreso.
Chissà cosa dovrà escogitare per celare quel cambiamento in università, per non parlare dell’espressione che farà suo padre non appena lo vedrà; ma non può non riconoscere che si piace. Oh sì, si piace davvero tanto, come fa comprendere a Nikolai appena si gira verso di lui e annuisce con convinzione, spingendo l’altro a esultare con la sua solita moderazione e accorgendosi subito che, dentro di sé e senza grande sorpresa, la reazione è la stessa.
Paiono al vertice della gloria, di un momento che è solamente per loro[3].

 


 

Evidentemente, le lancette dell’Orologio del Cielo girano ancora una volta per Sigma: così che neanche tanto tempo dopo, un venerdì sera di Dicembre, il cellulare inizia a squillare come impazzito e lo strappa forzatamente al sonno nel quale è caduto da poco. Un angolo dello schermo segna la mezzanotte, mentre tutto il resto dello spazio è lasciato al nome di Atsushi, il quale lampeggia come un allarme.
Il giovane risponde il più prontamente che può, meno assonnato che preoccupato. «Atsushi-kun?»
Una breve esitazione dall’altro capo della linea, poi la voce dell’amico che esplode: «Sono io. Mi dispiace disturbarti, davvero, ma ho trovato il tuo numero tra i suoi contatti preferiti, ed ecco… non ho pensato ad altro che a chiamare te e Dostoevskij-san, sono andato nel panico!»
La voce di Atsushi è carica di tensione e confusione, e Sigma si alza a sedere nel letto, allunga la mano libera come se potesse afferrare l’altro e stringerlo a sé in un abbraccio. «Che cos’è successo?» La sua voce esprime calma solo in apparenza, perché dentro di sé si è già destata l’agitazione e questa ha infiammato la paura di qualcosa di grave.
«Si tratta del ragazzo che è spesso con te», si sbriga a spiegare l’altro, «Nikolai Gogol’. Ecco, lui… insomma…»
«Atsushi, per favore, non tenermi sulle spine e parla chiaramente.»
«Lui non sta bene, Sigma, affatto. Dovevamo partecipare alla festa in casa di un amico in comune, ci doveva essere anche Dostoevskij-san: ma Gogol’-san si è presentato da solo e ubriaco. Ora si è rinchiuso in bagno, ha bloccato la porta e non risponde a nessuno. Non sappiamo cosa fare e abbiamo paura…
Siamo qui a Yokohama, non tanto distanti da te.»
Sigma chiude gli occhi per un solo momento, per calmare la tempesta di sensazioni e parole che è appena giunta ad annegargli la mente: parole sagge, che gli hanno dato coraggio quando ne ha avuto bisogno, hanno la meglio sulle altre ancor prima che il ragazzo veda il padre apparire sulla porta della camera.
Lo sai? Quando vedi qualcuno in difficoltà, puoi fare una sola cosa: andare a riprenderlo anche in fondo all’Inferno. Perché le persone devono essere recuperate dall’estremo dell’abisso, non si può abbandonarle.
E lui sa ciò che deve fare, come una conoscenza rimasta sempre dentro di lui, mentre i suoi occhi incrociano quelli dell’adulto e tra loro s’instaura un dialogo silenzioso, che non manca l’obiettivo.
Con un cenno del capo, l’uomo acconsente a tutto ciò che Sigma gli dice e niente più trattiene il ragazzo. «Va bene. Dammi l’indirizzo, sarò lì il prima possibile.» Una pausa. «E, Atsushi… anche se non so quanto questo servirà, fammi parlare con lui. Non chiudere la chiamata: fai scivolare il cellulare sotto la porta del bagno, e spera con me.»


 
 

Le lancette corrono e divengono inafferrabili, si fanno dolorose: picchiano con forza secondi e minuti, lanciandosi nel futuro come cavalli impazziti, quasi che da quel moto veloce dipenda la loro vita, e non le gioie e le occasioni di chi ne ascolta l’interminabile ticchettio.
Corrono, lo sa, anche se nei paraggi non c’è alcun orologio: e probabilmente è l’ennesima farsa, la finzione che gioca con colui che è abituato a fingere, come è anche un’illusione lo specchio storto, dalla geometria non ben inquadrabile in una forma nota, che rimanda l’espressione di un folle. Le nocche fanno male; non una goccia è scivolata giù dalle dita, il vetro ha resistito e così la carne, ma il pulsare che l’attraversa è tanto reale e intenso da far stridere i denti.
Che cosa c’è che non va? Chiede lo sguardo, fisso e vitreo, mentre continua a osservare il volto che occupa la superficie riflettente, che cos’è cambiato rispetto al solito?
Per l’ennesima volta, Nikolai si sciacqua il viso nel lavandino, quindi torna a fissarsi. A teatro si insegna a esprimere le emozioni al meglio e a trattenerle; si impara a dire la verità, a nasconderla, a essere chi si è, a uscire dai propri limiti e diventare un’altra persona. Ci si abitua a sopportare, a prevedere, a parlare e districare e pensare, ad affrontare la vita nelle sue sfaccettature.
Quello che lui non ha ancora ben appreso, però, è a comprendere dove finiscano le sue stesse bugie e dove possa affidarsi a ciò che è reale; a liberarsi dalle sue costrizioni e non continuare a cadere là dove fa sempre più male.
Tutto il corpo duole: dalle mani che afferrano il bianco lavandino come un appiglio disperato, alle spalle contratte e alla bocca stirata in un ghigno che vorrebbe essere una risata per sé e gli altri, ma è solamente grottesco e tragico.
Grottesco, paradossale, insondabile come ciò che si crede di lui, come ciò che non è lui: bugia e finzione giungono fino a un certo punto, dopodiché si tocca la comprensione; e a quel punto il suo carnefice ci è arrivato da un pezzo.
Non si troverebbe lì, altrimenti.
Perché Fyodor ha scelto lui? Se l’è chiesto fin da subito: Fyodor, con la sua mente splendida e troppo sottile per essere parte non solo della norma, ma di qualsiasi realtà; Fyodor che nei suoi profondi occhi viola riflette verità che non fa cogliere da nessuno che non sia sé stesso, e ciò che condivide con gli altri sono le briciole della sua essenza. Eppure… eppure, con lui ha deciso di andare oltre, di tenerlo vicino a sé: per anni e anni, fin da bambini, ogni volta che il mondo ha mancato di comprendere la grandezza di Dostoevskij, in qualsiasi occasione questi abbia scoperto il vero volto delle persone, sono stati insieme come un punto fermo che non può cambiare, una certezza, un’unica cosa.
Così ha pensato; invece ― che senso ha nasconderselo ancora, prendersi in giro in maniera così crudele? ― è stato proprio lui il suo giocattolo preferito, il primo fra i pagliacci e il più pazzo e triste, secondo Fyodor meritevole di nessuna spiegazione che valga davvero. E se la farsa è stata messa in piedi fin dal primo momento in cui si sono conosciuti, è anche grazie a lui stesso che è potuta andare in scena.
Davvero, dopo aver visto il potere di quell’anima sulle persone, ha creduto di esserne immune? Di essere diverso, speciale, l’amata eccezione di qualcuno che considera solamente sé stesso e giudica con la sicurezza di un dio?
I fili che ha attaccato al corpo se li è messi da sé, ogni manovra che Dostoevskij gli ha fatto fare è stata consentita da lui. C’è voluto tanto, tanto tempo per cedere la bella illusione, perché anche questo è sempre stato nei piani di Fyodor: rivoltare le debolezze e le bugie, sfruttarle, perdonarle con la carità di chi sa di avere tutto il potere. E la domanda giusta che lui si deve porre è: Perché ho deciso di realizzare la verità? Perché non continuare a chiudere gli occhi e ignorare ancora una volta, pur di essere felice?
Felice, già. Sereni, in pace, possono esserlo solamente coloro che non hanno coscienza della gabbia che li tiene chiusi in un mondo di finzione, sicuri e protetti; ma per quanto ci abbia provato a costruire sbarre più spesse, nel suo caso nessuna di esse è mai bastata ad allontanarlo completamente dalla verità.
Proprio poche ore prima queste sono tutte cadute con la violenza di una condanna lapidaria e, a seguito del primo scontro veramente tale con Fyodor, parole amare sono uscite da una bocca colma di pietà come di superbia.
“Il mondo non può fare a meno di me, ma di te sì.
Tu non sei altro che cambiamento, sconnessione, divisione; tu che esci da ogni regola, non puoi far parte di nessuna realtà. Sei la parte buia di cui tutti hanno paura, sei un mostro.”
Gogol’ si scioglie la benda e fissa il proprio riflesso con entrambi gli occhi scoperti; qualche istante dopo, sta piangendo senza potersi trattenere. Per quanto ci provi non riesce a non vedersi frammentato, tremolante come porcellana appena andata in pezzi. Chi vuole più ingannare con la pretesa di distanza, di lontananza da ogni sentimento e coinvolgimento umano?
Può far calare il sipario, la finzione non può reggere oltre lo spettacolo. Con tante scuse da parte della direzione.
“Dovevi essere tu a morire, ricordalo.
Dovevi essere tu a morire.
Dovevi essere tu a morire.
Dovevi essere tu a morire…”
Non avrebbero potuto esistere parole migliori per spezzarlo e congelargli il cuore. Non sa se si merita quella crudeltà, ma è anche vero che ora come ora non è nemmeno in grado di pensare lucidamente.
Gogol’-san, sono io.
C’è una tempesta nell’aria: il suo odore penetra dalla finestra del bagno di una casa che non conosce, vince anche quello che gli impregna abiti e capelli, non sa razionalizzarlo né dire come lo trovi.
Gogol’-san… mi senti? Sto venendo da te.
Nikolai volta lentamente il capo, seguendo il suono di una voce che proviene da un punto non troppo lontano; una luce sorge dal centro del pavimento mentre un cellulare viene fatto scivolare sotto la porta e gli raggiunge i piedi, lo schermo lampeggiante e fermo su un nome.
Reggendosi con un braccio al lavandino, Gogol’ raccoglie il telefono da terra e, quasi completamente accecato dalle lacrime che gli rendono molli le guance, legge a fatica le lettere che riporta.
Dall’altro capo si sente un respiro affannato e il ritmo di una corsa; e nella mente di Nikolai, per un momento, il vento nuovo arriva su ali bianche, attraversa Yokohama con tutta la velocità che possiede e lo trascina via da lì.
Il caos cresce mentre il mondo gira, anche se è solamente la sua testa; tanto che quando bussano alla porta, una, due e tre volte, inizialmente non si rende conto che il rumore sia fuori da lui, che qualcuno lo stia chiamando con maggior insistenza e disperata determinazione ogni secondo che passa.
Questa diviene un’onda, sbatte violentemente contro la sua persona come una mareggiata, quasi lo fa urlare; ed è perché qualcosa si calmi e tutto smetta di fare dannatamente male che Nikolai sposta il mobiletto che ha messo innanzi alla porta perché nessuno entrasse, aprendo infine quest’ultima. Immediatamente al di là della soglia, due occhi di platino e la pelle pallida di un volto che conosce bene incontrano il suo sguardo.
Nonostante gran parte dell’alcol sia uscito dal suo corpo, ancora la mente non è abbastanza ferma e davanti ai suoi occhi i tratti della persona si confondono: si mescolano per assumere la fisicità di Fyodor e immediatamente dopo divengono la figura slanciata di Sigma. Ma perché questi dovrebbe essere lì? Lo sopporta a malapena, non è così ubriaco da ingannarsi fino a un simile punto.
Sigma è fuori dalla questione, innocente; non possono essere sue le mani che si allungano verso di lui e non lo dilaniano, ma gli sfiorano le braccia e le serrano.
«Gogol’-san, mi riconosci? Nikolai Gogol’, segui la mia voce.»
Sigma… Sigma lo ha trovato, è lì per lui. Ora che l’ha visto, perché non è fuggito, perché si trattiene ancora e gli si avvicina? Gli sporcherà gli abiti, lo rovinerà come fa con tutti.
Ha ragione Dostoevskij: è una dannazione per il mondo, nessuno si merita qualcosa di simile. Eppure, per quanto tenti di svicolare dalla presa di Sigma, questa rimane ferrea come lo sguardo percorso da un fuoco risoluto.
Per una volta l’energia dell’altro vince la sua, in silenzio e senza violenza, e alla fine Nikolai non può fare altro che chiudere gli occhi e appoggiarsi al corpo di Sigma non appena questi gli si affianca e gli passa un braccio sotto le ascelle. «Vieni, andiamo a riposare. Ti reggo io, ti puoi affidare a me», gli mormora il giovane mentre lo stringe a sé e lo conduce fuori dal bagno, ignorando quanto si stia macchiando con gli effetti di una tristezza profonda e straziante. Un tessuto caldo giunge a coprirgli le braccia e il ventre; senza sollevare le palpebre ma seguendo il percorso del tessuto, Nikolai scopre che Sigma ha portato con sé anche una coperta e lo ha avvolto in questa prima di portarlo con sé ovunque voglia. «Non dovevi farlo», mormora mentre affonda il naso nel tessuto, «non spettava a te… Sigma-kun.»
«Lo credi davvero?» Una piccola pausa. «Il silenzio non mi dà fastidio, se non vuoi parlare non farlo; ma se vuoi dirmi tutto ciò che ti passa per la mente, posso ascoltarti, sai.»
Gogol’ non risponde, scegliendo così la prima opzione; le luci mutano e si attenuano non appena si lasciano la casa alle spalle e si buttano nelle braccia della notte, e nell’eco del vicino oceano, sotto pallide stelle, Nikolai cede le ultime energie e si aggrappa al collo di Sigma per non cadere.
«Aspetta, aspetta. Facciamo così.» Sigma è attento e cauto mentre si ferma e si carica in groppa il compagno, tenendogli le gambe con tutta la delicatezza che possiede; e quando questi si rialza per continuare il loro piccolo viaggio, benché sia più alto e robusto del compagno, Nikolai si sente così leggero da credere di esser fatto di piume. Sotto le dita intrecciate che poggiano sul petto dell’altro sente battere il cuore di questi, il tamburellare attutito dalle vesti gentile come il lucore che scende dal cielo e che non giudica.
Per tutto il tragitto la mente tace, esausta quanto il corpo, e solamente il malessere diffuso gli impedisce di cadere addormentato con la speranza di svegliarsi lontano, una diversa consapevolezza nell’anima e ancora qualche illusione. E non è giusto, non è corretto e lo sa: ma mentre appoggia la testa contro quella di Sigma e lascia sprofondare una guancia nei suoi capelli, immagina che quei colori argento e lilla si carichino dello stesso buio che sovrasta le teste di entrambi, che chi lo sostiene sia un’altra persona e il brutto sogno finisca per non tornare mai, mai più.
«Presto saremo a casa, resisti ancora un poco.»
Nikolai annuisce appena e completamente inerme si lascia cullare dal passo dell’altro, per ridestarsi dal torpore solamente quando Sigma si ferma e prende un profondo sospiro. Un attimo dopo una mano diversa, magra e forte, si frappone fra loro e viene immediatamente seguita da una voce altrettanto matura. «Abbassati piano, Sigma. Ecco, fagli appoggiare i piedi al suolo.»
Gogol’ apre gli occhi un poco, attirato dal tono sicuro dello sconosciuto; e una figura secca e alta più di lui incontra il suo sguardo e trova un posto nella mente. Impiega qualche istante a farlo, ma quando trova una risposta il ragazzo alza improvvisamente la testa e spalanca gli occhi, sorpreso. «Sigma-kun… perché non mi hai mai detto di essere il figlio di Bram Stoker? Non mi sarei ubriacato così tanto! Che vergogna, trovarmi davanti a un famoso critico musicale[4] e non sapere nemmeno che battuta fare…», esordisce, riprendendo così parte del suo normale sé.
Sia padre che figlio guardano Gogol’ con stupore, quindi questi accenna un sorriso. «Forse la situazione non è poi così drammatica», sussurra, mentre Stoker non aggiunge nulla se non una piccola smorfia che vale come assenso e aiuta Nikolai a mantenersi in piedi, per poi accompagnarlo in casa con l’aiuto di Sigma. Altre luci, ambienti ampi, caldi e confortevoli, il delicato profumo di pulito e ordine che ha sempre sentito sul compagno e la grande vasca in cui viene adagiato sono la nuova realtà di Gogol’, che docilmente si lascia spogliare dal coetaneo per una veloce ripulita. Non che abbia molte forze per opporsi, d’altronde. «Puzzi da morire, lo sai?», sussurra tuttavia all’indirizzo di Sigma.
«Parla quello che cinque minuti fa era un sacco della spazzatura», risponde prontamente l’altro, che però si libera della giacca e del maglione per rimanere in camicia, «così va meglio per il tuo naso?»
«Eh già…», risponde intanto Nikolai alla prima frase e solamente a quella, «… a chi voglio darla a bere.»
Sigma non replica più; velocemente, recupera e appoggia su un mobile vicino a sé un cambio d’abiti e tutto il necessario per lavare l’altro e s’inginocchia accanto alla vasca, per poi aprire la bocca d’erogazione della vasca e iniziare a sciogliere la treccia del giovane. I capelli di Gogol’ si distendono in morbide onde argento lungo tutta la schiena di questi: sono così splendidi e luminosi che vederli insozzati è uno sfregio alla bellezza, per questo Sigma non perde tempo e, afferrato spruzzino e shampoo, li lava e massaggia con tutta la delicatezza e cura che possiede, passando le ciocche una a una.
Con la coda dell’occhio, Nikolai non perde nessuno dei suoi movimenti e, rannicchiato su sé stesso sotto il bacio purificatore dell’acqua, non fa che chiedersi che cosa spinga Sigma a comportarsi in quel modo. Le persone agiscono così solamente verso i propri amici, ma loro due non lo sono; di certo Sigma non l’ha mai considerato più di una conoscenza… o forse no?
Questo non ha poi grande importanza: non è Sigma che vuole, e non è Sigma che dovrebbe prendersi cura di lui. Quel ragazzo sta occupando un posto che un altro ha rifiutato, non riesce a dimenticarlo neanche ora.
Fiumi e fiumi di alcol non potrebbero annullare la forza di questa verità.
«Che cos’è successo, Gogol’-san?»
La domanda del compagno è esitante e mormorata, la richiesta di un segreto.
Nikolai tace, quindi stira la bocca in una smorfia che contiene dentro di sé un’oscurità addolorata, avvilita e arrabbiata, e continua a non rispondere.
L’altro giovane rispetta il suo silenzio, non domanda più nulla e si dedica nuovamente alla pura operazione di lavaggio; quando ha terminato, avvolge Nikolai in un asciugamano ancora più caldo e morbido della coperta che gli ha dato prima, e a questo punto l’altro giovane prende la situazione nelle sue mani, o almeno ci prova, e gli blocca il braccio che sta per prendere un secondo telo. «Hai già fatto abbastanza, Sigma-kun. Vai a sistemarti e a riposare, ora posso cavarmela da solo.»
Sigma lo guarda con una luce confusa nello sguardo, presto sostituita da un’espressione carica di dubbio. «Sei devastato e stai tremando come un pulcino, non ti reggi nemmeno in piedi.»
«Un premio a te per la perspicacia! Ma per quanto sia in tali condizioni, da questo momento preferisco gestirmela da me. Ce la posso fare benissimo.»
Sigma si alza in piedi. Il suo sguardo è così scuro che pare aver addensato una tempesta negli occhi, tutta contro Nikolai. «Sei in casa mia e di mio padre, sotto la nostra responsabilità. Non dirmi cosa puoi e non puoi fare.»
A quelle parole il ghigno si congela sulla faccia di Gogol’, che dilata gli occhi e li pianta con forza su Sigma. «Se è così, il tempo di asciugarmi e levo il disturbo», sibila mentre si alza, fronteggia il compagno ed esce dalla vasca ostentando una sicurezza non così ferma come vorrebbe, «i miei ringraziamenti per tutto.»
«Gogol’-san…»
Il ragazzo si allontana di un passo come un animale pronto ad attaccare; Sigma fa altrettanto, turbato, e si volta per lasciare a Gogol’ la sua intimità. Questi impiega pochi istanti per soddisfare il quesito di Sigma, il tempo d’intravedersi in un altro specchio e scoprire con una chiarezza allucinante quanto sia il fantasma di sé stesso. «Vuoi sapere che cosa Dos-kun mi ha detto?
Che non sono necessario. Che tutti possono fare a meno di me, e anzi!, che è meglio fare a meno di me. Per lui non sono mai stato un amico, ma un male che non doveva giungere in questo mondo.
Questo è ciò che ha detto Fyodor Dostoevskij, l’uomo che ha incantato me come te, proprio oggi, quando gli ho chiesto se è mai stato sincero con qualcuno o se per lui sono sempre stato un mero passatempo. Dentro di me sapevo già la risposta, ho solo voluto sentirla dal vivo.
Mi ha anche fatto sapere che non si è mai scordato che, anni fa, dovevo morire: quando all’Hoshino Memorial Hospital i medici hanno scambiato le mie analisi del sangue con quelle di un’altra persona e ho letto i risultati di una leucemia che non stava condannando a morte me, ma uno sconosciuto… ecco, per il caro Dostoevskij quella sorte sarebbe dovuta toccare veramente a me.
Perché avrebbe dovuto dirmi qualcosa di simile? Credimi, non m’interessa la risposta.
Tali parole sono sufficienti, non ti pare? Dovevo essere io a morire.
E ora lo odio per questo, quanto lo odio.»
Tali parole sono state pronunciate di spalle l’uno all’altro, eppure hanno investito entrambi come una cappa di piombo. Allo stesso modo continuano ad aleggiare tra loro come nebbia, nel silenzio così pesante di significato da spezzare il cuore. 
Nikolai non aggiunge altro: è stanco, davvero privo di energie, benché più lucido di quando è entrato in quella casa. Senza più alcuna voglia né forza di reggere la maschera, prende gli abiti che Sigma ha scelto per lui, si veste e si asciuga velocemente i capelli, per poi raggiungere il giovane sulla porta.
Lo guarda per un solo istante, quindi volge il viso altrove. «Amare gli altri è uno schifo, Sigma. Imparalo in fretta, così non soffrirai a lungo.
Di nuovo, grazie per tutto.»
Sigma si muove solamente quando lui s’incammina per il corridoio che lo porterà all’ingresso, i passi incerti ed esitanti. Ma sono i suoi o quelli dell’altro? «Rimani, per favore. Riposa per qualche ora…»
Lui neppure si volta. «Ci si vede a Komababa», sussurra sull’uscio, forse udito unicamente dalla notte che già lo ha riaccolto. Solamente le tenebre e l’oceano, ora, possono ascoltarlo e proteggerlo fino a quando lui lo vorrà.



I giorni corrono veloci per portare la neve, la magia del Natale e il morire di un altro anno, la nascita di uno nuovo.
Gogol’ non rispetta la sua promessa: diserta il campus di Komababa e lascia che Sigma si trovi ad affrontare Fyodor da solo, non una parola tra loro né un accenno a quanto è accaduto in una triste sera ricolma di stelle e sconfitte.
In uno degli ultimi giorni di lezioni e durante una corsa da una sala all’altra, Nakajima rivela all’amico che Dostoevskij non ha mai risposto a una delle chiamate che gli sono state fatte né a un solo messaggio inviatogli quella sera, come se per lui Nikolai non sia mai esistito; ma Sigma lo ha compreso già notando l’espressione pacifica con cui il giovane dai capelli notturni lo saluta ogni mattino, quasi un modo per metterlo alla prova e vedere le sue reazioni.
Capodanno arriva velocemente e così lo fa anche il primo giorno di un nuovo ciclo d’esistenza; Sigma e Atsushi passano un pomeriggio e una notte in un impianto termale di Hakone, ma il primo si trattiene lì una seconda notte e attende il mattino per salire verso Hakone Jinja e visitare l’Occhio del Cielo.
Il proposito inizia a mutare appena lui lascia le terme e si concede una passeggiata lungo una sponda di Ashinoko; perché qui, sospesa tra gli ultimi segni delle festività e la nebbia che ammanta i monti scendendo fino alle loro falde, la figura di Nikolai compare all’orizzonte e avanza insieme a un pallido sole, incrociando quella di Sigma in un contatto non previsto.
Seduto su una panchina lungo la via panoramica, avvolto negli abiti tradizionali e intirizzito dal freddo del primo mattino, quest’ultimo abbandona la contemplazione del lago non appena sente il legno farsi più pesante sotto la pressione di un altro corpo, e voltandosi incontra il viso di Gogol’ perso dentro la visione di Ashinoko.
Il silenzio dura ancora per qualche attimo, fino a quando Nikolai non si avvicina maggiormente a Sigma e lo avvolge con sé nel caldo mantello russo che sembra custodire dentro sé l’estate; allora, anche l’animo pare sciogliersi e a poco a poco lascia entrare l’altro in quiete onde di tepore e vicinanza, ed empatia.
«Mi dispiace tanto», sussurra infine Sigma, una goccia intrappolata sulle ciglia e pronta a scivolare lungo la guancia, «per tutto, tutto. Io non sapevo… non potevo immaginare. Avrei voluto che tu restassi quella notte, per potertelo dire subito… mi dispiace anche per non averti saputo fermare. Che disastro.»
Sincere parole alle quali Nikolai risponde con un tenue sorriso, via via sempre più netto. Dentro di esso non follia ma pura realizzazione, gentilezza e una punta di tenerezza. «Va tutto bene, credimi: non era un tuo peso da portare.
Anche io ti devo parecchie scuse, Sigma-kun: non mi sono comportato molto bene negli ultimi tempi.»
«No, non lo hai fatto», assentisce Sigma mentre abbassa gli occhi, «ma avevi i tuoi motivi per agire così. Spero tu stia meglio.»
«Ecco, diciamo che ci ho provato; mi sono anche ricordato che qualcuno, forse lo conosci, una volta ha detto che nei boschi di Hakone ci sia nascosto un tesoro visibile solo a pochi, così sono andato a cercarlo…»
«E lo hai trovato? L’Orologio del Cielo, lo hai visto anche tu?»
Nikolai non cede il sorriso, non davanti allo sguardo luccicante d’attesa del compagno. «Credo di essere stato sul punto di farlo; poi ho sentito il profumo di qualcosa di delizioso e ho cambiato completamente strada.»
Sigma lo guarda con la bocca spalancata, per poi corrugare la fronte e scuotere il capo. «Noto che l’intenzione di prendere in giro il mondo è sempre in forma.»
«E tu devi ancora imparare a essere meno serio!» Gogol’ aggiunge una risata a piena voce, mentre l’altro gli dà una leggera gomitata sul fianco e gli lancia un’occhiata in tralice.
Immediatamente dopo, Nikolai scatta in piedi e spalanca le braccia. «Maaaa se tu mi portassi a visitare Hakone Jinja, così ti posso dilettare con la mia presenza e recuperiamo parte dei giorni perduti? Mi sono annoiato a non sentirti urlare come sei solito fare.»
«Cos’è, un invito a farti buttare giù da qualche burrone?»
«Puoi sempre provarci e vedere se funziona o meno. Allora, accetti?»
La risposta viene da sé qualche attimo dopo, non appena Sigma stringe la mano che il compagno gli porge.

 

Alla fine della giornata, Sigma ritorna a Yokohama dopo tre treni persi e con la voce bassa per aver discusso con Nikolai così tante volte da perdere il conto; quest’ultimo, invece, rientra negli studentati universitari di Tokyo con le gambe a pezzi e le energie quasi a secco, questa volta per motivi felici.
Qualche giorno dopo, la routine universitaria ricomincia e i due ragazzi si ritrovano nuovamente a fianco a fianco tra le lezioni, le ricerche e gli studi, discussioni, perdite di pazienza, scherzi, risate e progressiva crescita; l’unica differenza è che Fyodor non è più con loro.
Non lo sanno ancora, ma una parte di lui è rimasta sulla passeggiata di Ashinoko, un’altra ad Hakone Jinja, e un’altra ancora è già uscita dalle vite di entrambi una sera di Dicembre, non appena Sigma ha deciso di non lasciare indietro nessuno.
Qualcosa di grande è successo, tra loro e nella realtà che li circonda; un giorno lo scopriranno.





 

NOTE
 

[1] Si sa dalle biografie che il giovanissimo Gogol’ prese parte a vari spettacoli come attore, che suo padre fosse un compositore di opere teatrali e che suo zio le mettesse in scena, spesso con l’aiuto del nipote. Nella sua carriera di scrittore, anche Gogol’ si dedicò alla creazione di opere di tal genere, con risultati notevoli.
 

[2] Nella mia mente, La Commedia degli Errori in questione potrebbe essere qualcosa di simile a “L’Ispettore Generale”, annoverata fra i capolavori di Gogol’. Questa si qualifica proprio come una commedia dove sono gli equivoci e i fraintendimenti a farla da padrona.
 

[3] Ripresa rimaneggiata di “I’m on the edge of glory / And I’m hanging on a moment with you”, presente in The Edge of Glory, di Lady Gaga.
 

[4] Ho deciso di rendere Bram un critico musicale per “colpa” del capitolo 89 e della scena in cui chiede a Fukuchi una radio in compenso (non volevo essere scontata lol).
Non c’è invece una spiegazione logica del perché abbia scelto di rendere Bram il padre adottivo di Sigma, se non i miei headcanons molto comfort; personalmente, guardando ai loro caratteri, credo che infatti potrebbero andare anche d’accordo.

 
   
 
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