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Autore: JohnHWatsonxx    26/08/2021    1 recensioni
Raccolta di one-shots Johnlock in cui ogni capitolo è ispirato da una canzone dell'album 'Plus' di Ed Sheeran
1. The A Team -Post!Reichenbach
2. Drunk -Uni!lock
3. U.N.I. -Uni!lock
4. Grade 8 -post quarta stagione, What If?
5. Wake Me Up -Soulmate!AU
6. Small Bump -What If 3x3 pre-slash (Tw: aborto)
7. This -post quarta stagione
8. The City -Post!Reichenbach
9. Lego House -kid!lock AU
10. You Need Me, I don't Need You -Retirement!lock
11. Kiss Me -post quarta stagione
12. Give Me Love -Post!Reichenbach
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note: questa storia è ambientata in un’ipotetica terza stagione dove John ha capito di essere bisessuale e Sherlock ha capito che deve chiedere scusa. Ovviamente Mary non esiste

 

The City

Ti senti improvvisamente meglio, quando atterri all’aeroporto di Heathrow, nonostante solo cinque ore prima ti trovavi incatenato in un’umida stanza in Serbia ad accusare calci e pugni da dei terroristi. La barba ti dà fastidio, così come i capelli lunghi fino alle spalle e quella tuta fatta di uno scarsissimo cotone. Tuo fratello ti ha detto che era il massimo che avrebbe potuto fare, almeno fino a che non fossero tornati in Inghilterra.

Mycroft è in piedi pochi passi indietro rispetto a te, sta parlando con la sua assistente al telefono mentre con la mano sinistra sorregge un piccolo zaino –tutto quello che hai avuto negli scorsi due anni-.

Prendi un respiro profondo: ti era mancata la tua città, vero? Sentirla pulsare viva sotto i tuoi piedi, instancabile e inarrivabile. Già assapori con la mente quello di cui i tuoi occhi si riempiranno nel tragitto verso casa di Mycroft: persone, storie, palazzi, segreti, ombre e luci, rumori e suoni, e taxi neri sempre presenti su ogni strada. Dio, se ti era mancata.

Londra e te siete come un albero e il suo ramo più bello, legate profondamente l’uno all’altra, incapaci di vivere per troppo tempo lontani; è la tua amante più fedele e la tua traditrice più stronza; è una madre che ti fa compagnia quando non riesci a dormire e una puttana che si dà a tutti.

È il palcoscenico di tutti i tuoi ricordi più importanti, belli e brutti che siano, non fai distinzione.

Ti scorre sotto i piedi mentre raggiungi casa di Mycroft e vede per prima il tuo volto pulito, e i capelli tagliati, e i tuoi vestiti nuovi di zecca (compreso il tuo amato cappotto lungo, che ti scivola addosso come una seconda pelle).

E infine si inchina alla tua figura lunga di notte, mentre la osservi dall’alto di un palazzo –esattamente come due anni prima, ti ricordi-.

La tua Londra ti nasconde, tra queste strade, la figura solitaria di John Watson, ignaro del tuo ritorno –ignaro del fatto che tu, morto, non lo sei mai stato.

Ti chiedi se mai John pensi a te, nonostante siano passati più di due anni, ti chiedi se ti abbia aspettato, nonostante sapesse che nessuno torna dalla morte. Ti chiedi se ci sia ancora spazio, nella sua vita, o se ci sia qualcuno al suo fianco che abbia riempito il tuo vuoto.

Lo immagini tornare in quel monolocale che Mycroft ti ha detto che ha affittato, solo, al buio, distrutto, e ti dai la colpa, perché è effettivamente colpa tua. L’hai capito dopo averlo visto al cimitero, che avresti potuto trovare un’altra soluzione, coinvolgerlo per non distruggerlo, ma eri troppo occupato a cercare di salvarlo per non capire che in questo modo non l’hai salvato affatto.

Ti stendi su quel tetto, il cielo è bello stasera. Non capisci niente, di stelle e di universi, ma ti affascina ricordarti che sei un essere minuscolo davanti a tutta quella vastità sconosciuta. Immagini di toccare una stella, così piccola e bella agli occhi di un semplice essere umano. Siamo solo atomi in uno spazio troppo grande, ti ricordi. Una bellissima gabbia d’oro che non ti stringe perché non ne vedi i confini, e ti sta bene, sei contento con te stesso per aver scelto di fare la vita che fai, ignorando le grandi domande su cui non ti sei mai soffermato.

Ti dici che è perché la tua mente ha altro a cui pensare, ed è così perché, voltandoti di lato, i tuoi occhi ti fanno vedere un John Watson steso accanto a te, che ti indica tutte le stelle e i pianeti e le costellazioni che gli piacciono tanto. Alzerebbe la mano verso il cielo e tu ti perderesti ad osservare come la luna gli bagna gli occhi di un colore chiaro e scuro che non riesci a definire.

E quando mai sei riuscito a definire John Watson, che si trova là dove la tua mente perde sempre.

Passi la notte a riempirti gli occhi delle luci della tua città preferita la mondo, cullandoti nell’idea che questo sarà finalmente il tuo ultimo giorno da morto. Sai perfettamente che ciò che hai vissuto non è l’inferno, ma, ripensando a tutte le cicatrici che ti hanno regalato, forse la realtà non si discosta molto dalla fantasia.

Non riesci a dormire, e questo non ti allarma, quindi ti limiti ad osservare la tua Londra, e ti accorgi che siete le uniche due cose sveglie nel raggio dei tuoi occhi.

L’alba porta con sé corridori e ciclisti instancabili, lavoratori assonnati con un terribile caffè allungato che non capisci come facciano a bere tra le mani. Ti sposti dal tuo nascondiglio e ti senti pronto a camminare tra i londinesi come uno di loro, lasciando che qualcuno ti vada addosso solo per ricordarti che sei tornato ad essere normale, che sei fatto di carne ed ossa e anima. Che sei Sherlock Holmes, consulente investigativo, sociopatico iperattivo, amico, figlio, fratello, coinquilino. Ti godi gli occhi puntati su di te, di quelli che seguivano il blog di John e ti riconoscono o pensano di aver avuto una svista.

Anche la mattina presto la tua Londra è bellissima: il sole riscalda le tue mani e il tuo viso, le uniche parti del corpo scoperte, e bagna tutti i palazzi, insinuandosi nelle vie e nei vicoli ciechi, in uno dei quali hai preso John per mano –perché era una necessità.

Le tue gambe macinano metri su metri, fino a che non ti trovi davanti al tuo vecchio appartamento. Il battente è rimasto storto –proprio come piace a te-, e il numero civico spicca sulla porta scura. Ti riempi gli occhi di quelle placche dorate, si posano su ogni curva e su ogni angolo. Pronunci quel numero ad alta voce
-2-2-1-b- e ti piace come suona tra le tue labbra.

Non te la senti di usare le chiavi, che hai fatto entrare a forza nella tasca destra del tuo cappotto: manchi da quell’appartamento da troppo tempo, e devi riabituarti, e dare modo alle altre persone di riabituarsi. Ma poi, riflettendoci, non sai quale reazione possa avere la signora Hudson, e qualsiasi essa sia, ti decidi ad affrontarla dentro casa, e non in mezzo alla strada. Quindi ti fai passare quel mucchio di metallo tra le dita, accarezzandole per un secondo con i polpastrelli callosi, prima di inserire la chiave nella toppa. Ti era mancato questo gesto di quotidianità, quello che di solito faceva John al posto tuo.

Dentro è tutti esattamente come ricordavi: il buio, l’attaccapanni, la polvere e nel tuo palazzo passano in rassegna diapositive di ricordi di te e John che entravate o uscivate, sempre perfettamente coordinati. Si apre la porta e vedi voi due rientrare con un sacchetto di plastica in mano –quando a John non andava di cucinare. Si apre un’altra porta e vedi John arrabbiato con te perché hai deciso come al solito di fare di testa tua, come sempre. Hai paura a ricordare la prima volta che siete tornati da un inseguimento, quando John aveva dimenticato il bastone da Angelo e vi siete poggiati alla porta ridendo come due bambini.

Ci pensano i rumori della signora Hudson a salvarti dall’affogare nei ricordi. Urla, non appena ti vede. Prega qualche santo o forse Dio in tutta la sua onnipotenza, ma poi lo abbraccia piangendo, e Sherlock non può fare altro che buttarsi contro di lei, ben contento di tornare a sentire quel calore che tanto gli era mancato.

La Hudson ti costringe a prendere un tè e a raccontarle ogni minimo dettaglio, e tu non puoi proprio rifiutarti. Ti viene in mente quella volta in cui degli americani l’avevano aggredita e non puoi fare a meno di sentirti un po’ in colpa. Ti stai rendendo conto, piano piano, che quello che pensavi sarebbe stato un piano perfetto, ha lasciato dietro di sé una scia di sangue invisibile.

E non hai ancora visto John. Londra ruggisce al di fuori di quella porta.

Arriverà il momento in cui dovrai fare i conti con i tuoi errori, te ne accorgi mentre la signora Hudson ti avverte che quel giorno sarebbe passato John. Non credi alle coincidenze, quindi capisci che proprio lì, dove c’è stato tutto, dovrai fare anche quello: guardare John Watson negli occhi e chiedere scusa.

Ti è sempre stato difficile, aspettare, non è così? Preferisci fare tutto e subito, fin da piccolo. A scuola consegnavi mezz’ora prima e facevi gli errori più stupidi solo per dimostrare di essere migliore. All’università davi gli esami il prima possibile. Non ti sei mai goduto un momento di attesa, e c’è una prima volta a tutto, quando ti ritrovi a girovagare per il tuo vecchio appartamento aspettando John.

Ti stupisci nel vedere tutto esattamente come due anni prima, niente è stato toccato, neanche la polvere. L’aria è viziata e satura di odori vecchi, il tuo violino riposa placido nella custodia che due anni fa hai posato sotto alla scrivania dove John scriveva il suo blog, in uno spazio ora vuoto tra i tuoi spartiti e i tuoi oggetti. Vedi chiaramente il rettangolo lasciato vuoto dal computer del tuo vecchio coinquilino, riconosci il legno usurato dai gommini di plastica, le parti scheggiate di quando John sbatteva i pugni per la frustrazione.

Sposti lo sguardo verso lo smile, che ti guarda con aria di sfida. Come può un disegno sfidarti, darti tanto fastidio da farti venire il prurito alle mani per la voglia che hai di ficcare una pallottola in uno dei suoi assenti? –perché è un disegno.

Ridi guardando il tuo laboratorio di chimica sul tavolo della cucina, sorridi quando accarezzi la parte superiore del tuo teschio e i buchi lasciati dal pugnale sul davanzale del camino. È una stanza piena di ricordi, e nell’attesa ti ci immergi lentamente, trovandoli caldi, accoglienti e familiari.

Per poco non ti sfugge il rumore di chiavi che proviene dal piano di sotto. Senti già la signora Hudson che entra in azione, come da concordato. –Prepara John, fagli capire che sono io- le hai detto una ventina di minuti prima.

Li senti chiacchierare senza capire quello che si stanno dicendo, e senti il tuo cuore cominciare a scaldarsi quando riconosci il suono tipico di John quando si sorprende: è irrazionale, ma hai captato il suo cervello capire, riconoscere che non sei morto.

Ti sale un leggero panico, non era mai successo. Quante prime volte, oggi, nel tuo primo giorno di risurrezione a Londra.

Sembri un idiota, Sherlock Holmes, in mezzo al tuo vecchio salotto, fermo come uno stoccafisso, aspettando che il tuo (ex?) migliore amico salga le scale e venga a vedere con i suoi occhi piccoli e chiari che non sei morto.

Odi dover dare ragione a qualcuno che non sia tu stesso, ma Mycroft non aveva torto, quando diceva che non era un vantaggio: guardati, come sei idiota.

Un passo alla volta, John procede lento come una tartaruga.

Meno diciassette

Meno sedici

Meno quindici, John posa la gamba sinistra più pesantemente rispetto a quella destra.

Meno quattordici, John mette il piede lì dove lo scalino scricchiola: non lo fa mai, si sarà dimenticato di quel dettaglio? Forse quel rumore gli riporterà indietro a tutte quelle volte in cui ha fatto lo stesso, nei primi momenti in cui viveva lì e non sapeva ancora come muoversi.

Forse John ha pensato lo stesso, perché i restanti tredici gradini li percorre velocemente, come se lo stessero inseguendo. E non fai neanche in tempo a muoverti per cercare un’altra posizione –invece che quella da stoccafisso- che John spalanca la porta, talmente forte che sbatte sul muro e con un rimbalzo torna leggermente indietro.

Ed eccolo lì. Due anni.

Quanti giorni sono, quanti minuti, quante ore, quanti secondi, quanti attimi? In un altro momento lo avresti calcolato in meno di tre secondi, ora sei bloccato.

Guardi John con tutto te stesso, partendo dai piedi: noti che ha lo stesso paio di scarpe di due anni prima, le aveva comprate perché tu avevi squagliato la suola del suo vecchio paio per incastrare un uomo per l’omicidio di suo figlio. John ti aveva costretto a dargli i soldi e tu gli avevi allungato incurante una banconota da cento sterline come se valessero un penny. Noti troppo tardi che sono bucate ai lati ma lui non le ha buttate, perché lui non lo farebbe.

Non indossa i soliti jeans, ma dei pantaloni di tessuto scuri, che gli scendono forse un po’ troppo larghi sui fianchi.

Il maglione, invece, lo conosci benissimo: hai creato un archivio apposito per quel maglione beige, quello che ha messo quando ti ha salvato da quel tassista, quello che gli scende perfettamente sul torace e gli fascia le braccia come una seconda pelle. Adori quel maglione, l’hai sempre fatto.

Solo dopo aver memorizzato ogni singolo aspetto del suo corpo ti permetti di guardare il suo viso. E, Sherlock, quanto ti è mancato? Avresti voglia di chiudere gli occhi e guardarlo attraverso le tue mani, sfiorargli le rughe e la pelle ruvida, toccare il suo naso e sfiorare le sue labbra (magari con le tue?).

E lui ti guarda, ma non riesci a capire i suoi occhi. Sono un misto di rabbia e sollievo, felicità e sorpresa. Non sa cosa fare, il tuo John, perché si muove nervosamente e le sue mani non stanno ferme un attimo, aprendosi e chiudendosi a pugno, e noti in quel frangente che ha le chiavi ancora in mano, quelle di casa e quelle del posto in cui vive.

Non fate altro che studiarvi a vicenda, come due scene del crimine, per minuti interi, perché nessuno ha il coraggio di parlare. Quando è mai capitato che voi due vi siete ritrovati in silenzio per così tanto tempo?

È questa, la paura? Ciò che ti si è aggrappato intorno al cuore mentre lo guardi? Così ci si sente ad essere deboli?

Non ti fidi della tua stessa voce, quindi preferisci restare zitto e aspettarlo. Hai sbagliato, te ne rendi conto, ma non riesci a pensare a delle scuse; anzi, non vuoi chiedere scusa, gli hai salvato la vita. Gli hai salvato la vita? Osservalo, Sherlock, non limitarti a guardarlo. È più magro, è triste, sfacciatamente triste anche mentre lo guardi. Richiedilo, gli hai salvato la vita? O è morto con te?

Non hai tempo di pensare a una risposta, perché finalmente senti la sua voce.

“Tu- tu eri… morto” sussurra il povero John. Così si sono sentiti gli apostoli quando è resuscitato Gesù? Non lo sai, non ci credi nemmeno a queste cose, è la voce di tua madre che impertinente rimbomba nella tua testa.

“Non proprio, no” rispondi, torturandoti le mani. Siete a Baker Street, nell’esatto punto dove avevate vissuto le vostre avventure fino a due anni prima, soli contro il resto del mondo. Ma ora è cambiato tutto, ti dici. Ora siete soli, ma con il mondo intero a dividervi.

John ispira dal naso mentre cerca di controllare quella che sai per certo essere rabbia, delusione e tristezza, un mix che conosci bene perché movente di molti degli omicidi che hai risolto insieme a lui. Sei preoccupato per la tua stessa vita? No, ti rispondi subito, è di John che si parla.

“Perché?” chiede e tu non sai cosa rispondere.

“Io…” è l’unica cosa che ti viene in mente. Vorresti dirgli perché dovevi salvarlo, perché non sei più in grado di vivere senza di lui, ma hai troppa paura che lui se ne possa andare per sempre. “Dovevo salvarvi” opti per il plurale ma John non è stupido.

“Quello che mi hai fatto è stato tutt’altro che salvifico, Sherlock. Potevi parlarmi, avvertirmi, mandarmi un messaggio. Sarebbe bastato quello” parla veloce e con un tono di voce basso, talmente tanto che hai faticato a capire quello che ha detto.

L’aria è tesa, cosa ti aspettavi? Sai com’è John, lo conosci (lo ami), ci hai vissuto insieme (lo ami), hai passato due anni ad osservarlo e altri due a proteggerlo (lo ami). Non potevi aspettarti di vederlo tornare da te comprensivo e con le braccia aperte, quello è il compito delle bambole. John è carne ossa e sentimenti, talmente tanti che non riesci a comprenderli tutti.

“Perché mi hai lasciato indietro, Sherlock? Perché mi hai dovuto distruggere in questo modo? Ma soprattutto, cosa ti aspetti da me adesso? Perché io non so se posso fare finta di niente, non dopo due anni, non dopo…” e si blocca, il tuo John.

“Mi dispiace” sussurri allora, perché ti è sempre stato difficile chiedere scusa ma non puoi fare a meno di farlo per John, il tuo John, la persona che avresti dovuto salvare ma che invece ha contribuito ad uccidere. Ecco il più grande errore di calcolo di Sherlock Holmes: i sentimenti.

John ti guarda, con gli occhi lucidi, con le lacrime che hanno voglia di scendere adagiarsi sulle sue guance ruvide (così come le tue mani, che tremano dalla voglia di toccarlo). Ma il tuo migliore amico non piange, perché non l’ha mai fatto davanti a qualcuno e pensi che mai potrebbe farlo. Perché insieme a John dottore, blogger, scrittore, amico, c’è il John soldato e il John uomo che sono maledettamente testardi e anche la sua parte che tu preferisci di più. Non piange e non si muove, è fermo, e aspetta che tu faccia o dica qualcosa.

“Non mi pento di quello che ho fatto, ma mi dispiace” continui allora, osservando come le sue labbra si aprono in un sorriso amaro.

“Ovvio che non ti penti, tu non fai errori, Sherlock Holmes non sbaglia!” dice parlando con voce ferma.

“A quanto pare l’ho fatto con te” ribatti ingoiando l’orgoglio, e John ride. Non lo capisci, forse non lo capirai mai.

“E ALLORA PERCHÉ, SHERLOCK?” scoppia all’improvviso, come una bomba senza timer. Le lacrime, che prima non ne volevano sapere di scendere, ora inondano copiose il viso di John e sembrano non volere smettere mai più. Il soldato fa due passi avanti ma non si azzarda a toccarlo, ci prova ma non ci riesce.

Lo hai distrutto, Sherlock, non lo vedi? Sei uno stupido pezzo di merda.*

“Io voglio sapere perché mi devi sempre lasciare indietro”

“Devo proteggerti”

“MA IO NON HO BISOGNO DI ESSERE PROTETTO! –urla di nuovo e non pensi di riuscire a reggere quella visione per una terza volta- io ho bisogno di esserti vicino, e di affrontare le cose con te e di…” si blocca una seconda volta e senti un campanello d’allarme suonare nella tua testa. Cosa ti nasconde, il tuo John?

“John…” sussurri, al limite della paura.

Siete incredibilmente vicini, te ne accorgi solo ora.  

Adesso capisci di avere una paura fottuta che, se ti dovesse toccare, tu potresti diventare burro sotto le sue mani, malleabile tra le sue braccia.

“Sherlock” questa volta il suo tono è dolce, come quello di una madre “quando sei morto, i miei pensieri più profondi è come se fossero esplosi. Tu non c’eri più e io avevo la libertà di scendere a patti con le mie emozioni. Ero libero di pensare quello che volevo perché non avrebbe avuto conseguenze, perché tu eri… morto.” Sospira.

“Tante volte mi sono addormentato immaginando che il paradiso avesse l’orario delle visite*, per venirti a trovare e dirti tutto quello che avevo scoperto, ma sapevo che non sarebbe stato possibile. Ora, invece, posso, ma non voglio” conclude, allontanandosi leggermente.

Hai capito perfettamente quello che vuole dire. Ti ama, Sherlock, esattamente come tu ami lui. E guarda cosa hai combinato. Tu lo hai ridotto e ti sei ridotto così. Sei sicuro di meritare il suo amore? Sei sicuro che non lo farai soffrire mai più?  

Non lo tocchi, non ti avvicini, non ti muovi e non parli. Sei diventato una statua davanti ai sentimenti. Vorresti rintanarti su un tetto della tua amata città, stare sveglio solo con lei come la notte appena passata perché vuoi fuggire da quello che devi fare, ma non puoi guardarlo e fingere di non aver capito; non puoi guardarlo e nasconderti dietro la tua mente fredda che ‘non conosce i sentimenti’. Perché tu sei tutto tranne che codardo. Diglielo, Sherlock Holmes. Senza giri di parole.

“Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior*” perfetto, ti dici. Ti eri ripromesso di non fare giri di parole ma non hai specificato la lingua. John ti guarda e non capisce: è normale, non lo conosce il latino. Avevi quasi sperato di risolvere tutto con una semplice frase fatta, vero? Minimo sforzo per il massimo del risultato.

Cosa c’è che ti ferma? Lui ti ama, Sherlock. John è davanti a te e non ti odia per quello che gli hai fatto, non ti ha menato, non se ne è andato. È qui, davanti a te e ti ha dato tutto quello che poteva darti. Cosa vuoi di più?

“Odio e amo” parli finalmente la tua lingua “e ho provato per talmente tanto tempo a impedirmi di farlo che alla fine, semplicemente, è successo”

“Non so cosa siano i sentimenti, perché non si possono esprimere a parole sensazioni così forti” continui, mentre ti avvicini a lui. Non pensi al fatto che diventerai burro, ma a quanto potrà essere dolce stare tra le sue braccia. “Non ho mai provato quello che sto provando adesso, John. Ma so che è lo stesso che provi tu” butti fuori, alla fine.

Anche lui ti viene incontro e a metà strada vi rendete conto di essere uguali. Siete due uomini innamorati, consapevoli di star davanti all’unica persona che possiate mai amare nella vostra vita.

Sciogliersi tra le braccia di John è appena diventata la tua cosa preferita: le sue braccia sono calde su di te e ti piace la sensazione di quest’abbraccio.

Oh ma quando ti bacia, quando lo baci, i tuoi muri cadono in mille pezzi. Dentro di te c’è il caos che regna sovrano, attorno a te, solo John. Lui, che balla un lento con le tue labbra, gli dedica una deliziosa melodia di suoni e gemiti e rumori, ti usa come una tela bianca pronta per diventare arte. Siete insieme colori e pennelli, violino e archetto, penna e foglio. Non esistete l’uno senza l’altro, non esistete al di fuori di quel bacio. E tu ti aggrappi disperato al collo e ai capelli del tuo John, perché hai paura di cadere, e lui ti sorregge e ti ama, e ti spoglia di tutti i tuoi errori. E tu lo spogli di tutte le sue insicurezze. Fate l’amore con un solo bacio e non vuoi che finisca perché respirare è noioso e baciare John Watson è appena diventata la tua nuova adrenalina.

Guardarsi negli occhi dopo non fa male, te ne rendi conto mentre gli sorridi e non ti stacchi del tutto da lui: hai ancora bisogno di sentirlo sotto i tuoi calli e tra le tue braccia e lui lo sa, mentre si fa piccolo sul tuo petto.

“Non andartene mai più” ti implora “Mai più” due volte.

Ed è John Watson, nella tua casa preferita, che si trova nella tua città preferita, che te lo chiede. E tu, Sherlock Holmes, non puoi dire di no.

 

Note: 

*citazione a Bojack Horseman
*citazione alla nuova canzone di Ed Sheeran, Visiting Hours
*questa frase è stata usata in tutti i modi, per me è solo un espediente per rendere canon la mia idea he Sherlock sappia il latino

Un'eternità, ecco quanto ci è voluto. Sapevo, quando avevo iniziato questa raccolta, che questa canzone mi avrebbe fatto dannare (perchè non mi fa impazzire). Spero comunque che la storia piaccia, e se vi va lasciate qualche recensione
-A

   
 
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