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Autore: SibillaCubana    29/08/2021    0 recensioni
La Piana dei Lampi non è il posto ideale per chi ha paura.
E nemmeno per chi ricorda.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Auron, Jecht, Rikku
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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N.d.A. Trovate qui la canzone che ha ispirato questa One Shot. Buona lettura!


Myfanwy

 

«Sir Auron?»
La voce di Yuna seguì due rapidi tocchi alla porta. Era dolce, con quella solita nota insicura che faceva crescere il tono alla fine delle frasi, quasi volesse fare di tutto una domanda.
Ad Auron non importava che fossero nel cuore della notte: non aveva più bisogno di dormire, da quando era stato privato del suo eterno riposo.
«Entra» disse lui, e suonò come un ordine.
Se ne stava seduto sul letto ad ascoltare il ticchettio del pendolo, che gli ricordava che il tempo stava andando avanti, e il rumore ovattato della pioggia. Non aveva paura degli improvvisi tuoni della Piana.
Con timidezza, Yuna entrò nella sua stanza. Tidus la seguiva a ruota, mantenendo fede alla promessa di essere il suo Guardiano in ogni momento, ma all’ultimo istante decise di fermarsi sulla porta.
Auron fece cenno di entrare, notando le espressioni preoccupate sul viso dei due ragazzi.
«Mi dispiace disturbarvi, Sir Auron» disse Yuna, portando le mani al petto e facendo così oscillare il braccialetto sottile al polso destro. Un regalo del suo amato padre. «Ma, ecco… si tratta di Rikku. Non sta bene, penso che abbia un attacco di panico per via dei tuoni, e noi… non sappiamo cosa fare». Abbassò lo sguardo, prese fiato e poi ricominciò, con la voce sempre più tesa: «Vi prego, potete aiutarci?»
Gli occhi di Tidus accompagnarono la sua orazione con una silenziosa preghiera blu.
Auron comprese subito la situazione e si alzò in piedi; il suo cappotto frusciò coprendogli le gambe. Non era nuovo né a Spira né agli attacchi di panico, e sapeva bene come le due cose potessero facilmente camminare assieme.
«Dov’è?» si affrettò a domandare.
«Nella sua stanza» rispose Tidus, per essere di supporto a Yuna.
Corsero per i corridoi deserti della Casa del Viante, scesero delle scale che fecero tintinnare gli ornamenti sul vestito di Auron.
Quando furono davanti alla porta di Rikku, il Guardiano più anziano afferrò con decisione la maniglia ed entrò come avrebbe fatto nella tenda di un primo ufficiale.
«Siamo qui» annunciò Yuna.
Nella penombra, Lulu alzò la testa, facendo ricadere le tante piccole trecce sul seno. Era seduta su una sedia di fronte al letto di Rikku; teneva in mano un bicchiere d’acqua, ma la ragazza rannicchiata sul letto non sembrava reagire. La maga si alzò subito in piedi quando vide Auron.
«Ha cominciato a urlare e quindi siamo venuti qui, poi si è bloccata in quella posizione» spiegò, con la tristezza negli occhi di solito freddi, «sembra non sentirmi e…»
Un fulmine cadde vicino alla Casa del Viante e Rikku lanciò un piccolo urlo, sobbalzò e poi si raggomitolò di nuovo.
«Capisco» disse Auron, sedendosi sulla sedia. Si chinò su Rikku per osservarla, ben attento a non toccarla. La ragazza aveva gli occhi chiusi e le sopracciglia aggrottate.
Erano solo ragazzi, nulla di più: il più maturo era Wakka per età, ma Lulu nel pensiero. Auron si maledisse per aver permesso a una quindicenne di diventare Guardiana, anche se il suo affetto nei confronti di Yuna era così cristallino.
Anche se Rikku somigliava così tanto a lui quando era giovane.

 

Anche lui non stava bene quando avevano attraversato la Piana dei Lampi, ma il suo malessere non era dovuto ai tuoni.
Jecht era rumoroso, maleducato e – in quel tempo in cui per lui significava qualcosa – spesso blasfemo.
Auron ricordava di quando era seduto di fronte al suo letto e cercava di strappargli di mano la fiasca che gli aveva rubato. Gli faceva male lo stomaco, un senso di fastidio lo percorreva da capo a piedi.
E poi era successo.
Jecht se n’era accorto.

 

«Forse dovremmo andarcene» suggerì Yuna. «Non penso che le faccia bene avere attorno tanta gente».
I suoi Guardiani annuirono, lasciarono Rikku in mani sicure e chiusero la porta. Il cielo ruggì di nuovo, ma non abbastanza forte da far urlare di nuovo la ragazza.
«Ehi, signorina» la chiamò Auron a bassa voce, «ci sei?»
Rikku mugugnò e strinse i denti, poi lo guardò con i suoi occhi verdi dalle pupille a spirale. Auron la considerò come una specie di conquista.
Si sentì un altro tuono e lei si irrigidì, ma la voce dell’uomo arrivò a calmarla:
«Non è qui. Non ti farà del male».
Altre cose lo faranno, pensò ma non disse.

 

«Quando ero piccolo, avevo paura dei tuoni» aveva detto Jecht. Un lampo oltre la finestra aveva illuminato il suo viso e le sue mani strette sulla fiasca. «Strano, eh?»
Strano, sì, per qualcuno che aveva colpito come un fulmine e poi era svanito per sempre.

 

Rikku sembrò rilassarsi un po’ e abbandonò la sua posizione raggomitolata. Guardò Auron con occhi da cucciolo impaurito e lui non riuscì a frenare un sorriso.
«Sai» le disse, «non dovresti dormire con i capelli legati. Così si rovinano».
«Che ne sai tu?» si lamentò lei, rotolando prona. Auron sollevò oltre le spalle la coda e inarcò il suo sopracciglio buono.
«Sono legati!» miagolò Rikku. «Non è- aah!»
Un forte tuono scosse l’aria e la ragazza si rannicchiò all’improvviso, andando a sbattere con la fronte sul ginocchio di Auron.
«S-scusa» mormorò, ma lui non sembrò darci peso. Invece, le posò delicatamente una mano sulla testa e raggiunse l’elastico che le legava i capelli.
«Posso?» le domandò.
Rikku annuì.

 

«E che senso ha tenerli sempre legati?» aveva detto Jecht, poi aveva scosso i suoi capelli spettinati con una mano. Aveva cominciato, con estrema disapprovazione di Auron, a tirare il laccio dorato che li stringeva.
«Dai, fammi vedere!»
Auron aveva sbuffato quando erano ricaduti, lunghi e lucidi e neri come la notte, sulla sua schiena. Ma la fiasca era sul comodino, dimenticata.
E le cose stavano andando meglio.

 

«Oh, carine queste» disse Auron, sollevando delle treccine dai capelli sciolti di Rikku.
«Sono trecce Al Bhed» gli rispose lei, con la voce attutita dal cuscino.
«Davvero?» replicò l’uomo, interessato. «E posso averne una?»
Rikku sembrò pensarci per un momento. Quando il fulmine colpì, pur tremando, trovò il coraggio di coprirsi le orecchie.
«Domani» disse infine «puoi».
«Vuoi provare a dormire ora?» chiese Auron, e lei annuì. Ma quando un secondo fulmine cadde, il tuono fu tanto potente da farle stringere lo stomaco. Cadde nel vortice della paura di nuovo, fino a quando una voce bassa le giunse dalla fine di quel tunnel.

Paham mae dicter, O Myfanwy,

(Perché è rabbia, o Myfanwy,

Yn llenwi'th lygaid duon di?

Quella che ti riempie i luminosi occhi scuri?

A'th ruddiau tirion, O Myfanwy,

Le tue dolci guance, o Myfanwy,

Heb wrido wrth fy ngweled i?

Perché non arrossiscono quando mi avvicino?)

 

Era la stessa melodia che Fratello canticchiava quando stava seduto di fronte alle sue aeronavi sempre rotte come il suo cuore. A Mamma piaceva quella canzone. A tutti piaceva, e forse sarebbe piaciuta anche al cielo che borbottava, se solo avesse potuto ascoltare.
Auron, sovrastando il suono della pioggia, stava cantando un canto Al Bhed: la sua pronuncia era incerta ma la sua voce era pura. Rikku si costrinse a non aprire gli occhi e fissarlo con sorpresa, ma piuttosto cercò di rimanere distesa e pensare a quando c’era il sole nell’oasi verde di Bikanel e le lucertole che rincorreva non avevano la coda, e tutti erano vivi e stavano bene.

Pa le mae sain dy eiriau melys,

(Dov’è il tenerissimo sorriso che un giorno

Fu'n denu'n nghalon ar dy ôl?

Accese il mio amore così forte e sincero?)

 

«Scusa» sussurrò, con un tono che a fatica si poteva sentire, lontana dalla ragazza senza pensieri che le piaceva essere. Si vergognava che suoi amici – e, cosa ancora peggiore, un adulto – la avessero vista in quello stato.
Auron si interruppe e, quando Rikku aprì gli occhi, lo vide che aspettava, un mezzo sorriso sul volto in genere serio.
«Ti ho costretto a stare qui» disse, «e ho svegliato tutti nel cuore della notte. Ma…»
S’interruppe all’improvviso, con uno strano sapore in bocca. Gli occhi le lacrimavano e le bruciavano, il suo respiro era mozzato di nuovo.
«Ma ho paura!» gridò per sovrastare il tuono.
«Lo so» disse Auron, «perché, quando sono stato qui, anche io avevo paura».
«Tu?» domandò Rikku, e fu tanto sorpresa dal fatto che qualcuno fatto di pietra come lui potesse avere paura che non sentì nemmeno un secondo tuono.
«Sì».
Rikku aggrottò le sopracciglia, incapace di immaginarselo. Riusciva solo a vedere Auron che, con tono cattivo, sgridava le cose spaventose.
«E di cosa avevi paura?»


«E di cosa hai paura?» aveva chiesto Jecht, mentre Auron tentava di rendere regolare il respiro.
Il giovane Guardiano lo aveva guardato dritto negli occhi. Ogni passo in quella terra sacra era una scoperta, ogni panorama un pensiero profondo che lo spingeva ad ancorarsi alla vita.
Semplicemente non era pronto.
«Di morire».

 

Auron ricordò la risata sguaiata di Jecht e i suoi modi bruschi. Rivide come i lunioli volavano via dal Fluvilunio e come i gigli d’acqua venivano piegati dal vento. Rivide gli occhi selvaggi di Jecht e quelli di Braska, che non avrebbero vagato mai più sopra le cupole di Bevelle.
«Dei tuoni» disse.

Myfanwy boed yr holl o'th fywyd

(Myfanwy, possa tu passare l’intera tua vita

Dan heulwen ddisglair canol dydd.

Sotto la luce del sole di mezzogiorno,

A boed i rosyn gwridog iechyd

E sulle tue guance possano le rose

I ddawnsio ganmlwydd ar dy rudd.

Danzare per cento anni o più.)

 

La tempesta continuava a ruggire oltre le finestre, le gocce di pioggia continuavano a colpire il vetro. Ma Rikku chiuse gli occhi e non sentì nulla se non un sussurro, persa nel ricordo del suo Covo lontano. Lo avrebbe sognato, nonostante i tuoni.
Fuori dalla sua stanza, Tidus si era addormentato, seduto con la schiena sulla porta e le orecchie tese per poter sentire la canzone. Anche a suo padre piaceva cantare. Era stonato.
La testa di Yuna era appoggiata sulla sua spalla, e la giovane Invocatrice non dormiva. Voleva che la cullassero quel momento, il dolce canto degli Al Bhed che le ricordava sua madre, la gentilezza di Auron, il respiro tranquillo del suo amato.

Anghofia'r oll o'th addewidion

(Dimentica ora tutte le promesse

A wneist i rywun, 'ngeneth ddel,

Che hai fatto a colui che tanto ti ha amato,)

Da qualche parte, lontano da lì, uno Shoopuf con una vecchia cicatrice alzò la testa per meglio ascoltare. Le stelle, specchiandosi nel Fluvilunio tranquillo, luccicarono in armonia con il cosmo.
Avrebbero, quella notte e per sempre, raccontato la loro storia immobile.


A dyro'th law, Myfanwy dirion

(Dammi la mano, mia dolce Myfanwy,

I ddim ond dweud y gair "Ffarwél".

Un’ultima volta, per dirmi “addio”.)



 

   
 
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