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Autore: myyouthisyourss    30/08/2021    0 recensioni
Quando la psicologa decide che ormai il suo aiuto non è sufficiente a placare le sue ossessioni e concorda con la famiglia un nuovo piano terapeutico, Beatrice viene portata in un centro per disturbi psichiatrici.
Quel luogo, inizialmente mal visto, diventa sin da subito la sua nuova casa e subito inizia a sentirsi parte di una piccola realtà fatta di persone con cui finalmente riesce a non provar disagio.
Beatrice non aveva mai avuto una vera vita, non aveva mai avuto dei veri amici,
il suo cuore non aveva mai battuto davvero, e quando conosce Damiano, inizia per la prima volta a sentirne le pulsazioni.
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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In clinica il tempo era una costante non ben definita, c'erano giorni che passavano tempestivi ed altri in cui il tempo sembrava essersi fermato. Guardavo le lancette dell'orologio ed erano le quattro, le riguardavo un'ora dopo ed erano in realtà passati solo dieci minuti.

 

Questo aspetto legato al tempo iniziò a farsi evidente solo dopo un paio di settimane. All'inizio era sempre tutto bello, tutto nuovo, ma dopo poco tempo iniziai ad abituarmi a quell'ambiente e la bellezza della novità si affievolì pian piano. I miei compagni me l'avevano detto che sarebbe finita così, ma non mi andava e non volevo accettarlo.

 

"Perché non andiamo da qualche parte questa sera?" chiesi ad Alex, Luce e Carlo una mattina dopo un'intensa seduta di psicoterapia.

 

Eravamo in giardino e avevamo portato dei teli per poterci sdraiare. Alex stava leggendo un libro, Carlo aveva portato un manuale universitario con la speranza di poter riuscire a studiare pur sapendo che non l'avrebbe fatto, io e Luce invece stropicciavamo l'erba e giocherellavamo con le bianche margherite. Era una classica mattinata come lo erano state quelle delle tre settimane precedenti.

 

"Abbiamo il coprifuoco alle undici e mezza, dove possiamo mai andare?" rispose Alex seccata.

 

"Stasera io non ci sono, vado a cena dai miei genitori, l'hai dimenticato?" rispose Lu.

 

Non l'avevo dimenticato in realtà, sapevo benissimo del suo impegno, ma speravo in qualche modo che vi potesse rinunciare anche se non gliel'avrei mai imposto.

 

"Carlo.." richiamai il mio amico distratto schioccando le dita davanti al suo viso.

 

"Cosa?" disse voltandosi su un fianco.

 

"Almeno tu esci con me stasera? Anche solo per bere qualcosa, analcolico giuro!" feci quella precisazione poiché ero a conoscenza del fatto che stesse assumendo farmaci particolari che non poteva associare al consumo di alcol seppur minimo.

 

"Secondo te se potessi uscire non lo farei?" rispose alzando le sopracciglia.

 

"Perché non potresti?" chiesi distrattamente.

 

"Bea, Carlo è PDL, ha anche la camera blindata...non ricordi?" disse Luce dispiaciuta.

 

PDL, era l'acronimo di "privo di libertà" che i ragazzi della clinica utilizzavano scherzosamente e ironicamente per definire quella categoria di ragazzi a cui Carlo faceva parte. In centro, le persone con problematiche legate all'autolesionismo, all'instabilità mentale, o che avrebbero potuto compiere gesti estremi venivano sistemati in camere con la finestra blindata e, contrariamente a me e alle mie due compagne, non erano liberi di uscire dal centro se non accompagnati da una figura apposita.

 

Carlo, in quanto autolesionista, rientrava a pieno nella categoria PDL e un tempo anche Luce lo era stata finchè non iniziò a mostrare segni di ripresa con la dottoressa.

 

La storia di quel ragazzo mi aveva particolarmente colpita. Quando si pensa all'autolesionismo automaticamente vengono in mente polsi sanguinanti, tagli sulle braccia e lamette nascoste, ma in realtà Carlo non era niente di tutto questo. Mi raccontò, che poco prima dell'università aveva iniziato a crearsi da solo delle piccole ferite con l'accendino. Teneva la fiamma accesa per qualche minuto fino a far diventare la lamina di metallo incandescente, dopo di che lo poggiava sulla coscia o sul braccio in base a come gli girava al momento, creandosi delle vere e proprie scottature sia superficiali che profonde.

 

Non aveva mai tentato il suicidio e non ne aveva intenzione, si vedeva dalla voglia che aveva di vivere, di studiare, di crearsi un futuro. Semplicemente, mi disse, era un modo per combattere la tensione e io lo capivo tremendamente. Mentre mi parlò della sua vita non facevo altro che pensare a quando io strappavo le sopracciglia solo ed esclusivamente per tensione e soddisfazione.

 

Siamo alla costante ricerca del piacere, a volte anche in modi bruschi, folli e poco salutari.

 

"Non possiamo convincerli a farti uscire?" chiesi.

 

"No"

 

"Neanche se sanno che ci sono io?"

 

"Purtroppo no, dovremmo uscire comunque con qualche accompagnatore alle calcagna, perdonami ma non mi va"

 

Sbuffai e accettai passivamente la situazione, purtroppo c'era poco da fare. Alex era irremovibile sulla sua decisione, Lu era impegnata con la sua famiglia e Carlo, in quanto PDL, era costretto a passare la serata in centro o a studiare.

 

In quel momento, inconsciamente, decisi che se i miei amici non mi avrebbero fatto compagnia, sarei uscita da sola. Conoscevo Roma come le mie tasche ed ero abituata a queste uscite in compagnia di me stessa e nessun altro. Avevo voglia di svagare un po' la testa, bere una birra e staccare per un momento la vista da quell'edificio tutto colorato che ormai mi aveva fatto venire il mal di testa, a volte persino la mia stanza rosa pastello sembrava accendersi e prendere un colorito fluorescente.

 

Non volevo avvisare i miei amici di quella mia decisione, ormai ero convinta di dover passare la serata da sola e soprattutto non volevo causare sensi di colpa per una cosa che in realtà mi faceva solo piacere fare. Temevo potessero pensare di avermi abbandonata, soprattutto Luce, che questi complessi li aveva spesso, non faceva altro che preoccuparsi di dare il massimo a tutti. Alex probabilmente sarebbe stata l'unica a non dare peso alla mia solitaria uscita.

 

Entrai in biblioteca e chiesi al primo ragazzo che incontrai indicazioni su come fare per uscire.

 

L'anonimo ragazzo si trovava nel reparto biblico dei thriller, in cui c'erano solo quindici grossi scaffali e quattrocento novantasei libri, un numero che per quanto grosso restava comunque inferiore a tutti gli altri reparti. Quello dei romanzi storici, ad esempio, aveva un numero di libri così alto che non riuscii mai a contarli tutti.

 

"Scusa.." dissi per richiamare la sua attenzione.

 

"Dimmi" disse girandosi distrattamente tenendo fermamente saldi al petto quattro libri.

 

"Posso chiederti come faccio a chiedere un permesso per uscire dal centro?"

 

"Innanzitutto devi non essere PDL.." disse.

 

"Ci sono, poi?"

 

"Devi chiedere all'infermiera che generalmente si occupa di te di farti un permesso e una volta rientrata devi passare in ingresso e consegnarlo alla persona che trovi di servizio. Serve per notificare che non sei ritornata oltre il coprifuoco" sorrise lui.

 

Lo ringraziai e prima che potesse chiedere il mio nome o qualcosa su di me corsi dall'infermiera che ogni singola mattina mi accompagnava dalla psichiatra e che ormai avevo ben conosciuto. Si chiamava Marzia e come avevo dedotto al mio ingresso era davvero giovane e fresca di laurea. Appena seppi di questo particolare cercai in tutti i modi di fare apprezzamenti su come svolgeva il suo lavoro per incoraggiarla ed evitare di farle perdere quella passione che ogni mattina le leggevo negli occhi. I miei genitori mi avevano sempre insegnato che bisogna far notare alle persone i propri errori ma che fargli notare i propri successi è ancora più importante.

 

La ritrovai davanti la stanza cento-tre, quella accanto alla mia, aveva appena chiuso la porta alle sue spalle e aveva passato disperatamente una mano sulla fronte asciugando una piccola goccia di sudore che riuscii ad intravederle.

 

"Marzia, posso disturbarti un secondo?"

 

Marzia mi guardò, e per la prima volta la vidi stanca, non quella stanchezza di chi lavora tutto il giorno, ma quella stanchezza di chi deve riprendersi da una seduta di allenamento in palestra. Non era una bellissima ragazza, aveva il naso un po' sproporzionato e un taglio di capelli che a parer mio non la valorizzava per niente, aveva però mostrato più volte una bontà d'animo capace di far sciogliere anche i cuori più duri.

 

"Si, ti prego, andiamo in camera tua e se qualcuno ci trova gli diciamo che avevi bisogno di me, sono esausta" disse tutto d'un fiato.

 

"Che hai?" le chiesi mentre entravamo nella mia camera.

 

"Ho appena dovuto lottare con Damiano, il ragazzo accanto, per fargli assumere le sue medicine".

 

Non vedevo quel ragazzo dalla prima notte che avevo passato in clinica, non si era fatto più vivo. Non lo vedevo durante i pasti, non lo vedevo in biblioteca e neanche in piscina o nella sala TV, semplicemente era come se non esistesse. Iniziai a pensare che vivesse letteralmente solo con le sue ossessioni in quelle quattro mura. I miei amici mi avevano avvertito del fatto che, nei suoi momenti di astinenza, urlava come un matto anche nel cuore della notte, ma io non l'avevo sentito neanche una volta in tre settimane e in quel momento capii il perché.

 

Marzia, in un suo momento di sfogo, mi spiegò che era rientrato a casa sua in quelle settimane, mi disse che la madre provava in continuazione a riportarlo a casa, nonostante la contrarietà dello psicoterapeuta, per poi accorgersi che era meglio tenerlo in clinica.

 

"Che fortuna!" disse Marzia "E' una fortuna essere il figlio della direttrice, intendo. Puoi restare qui senza pagarne le spese mentre altri ragazzi che ne avrebbero bisogno non possono farlo" continuò.

 

Aveva ragione, io ci pensavo spesso. Inoltre, in clinica, c'era una politica strana per la quale se decidevi di uscire dalla terapia nessuno poteva obbligarti a restare, ma se poi avessi deciso di ritornare, difficilmente ti avrebbero rintegrato. Inizialmente non capivo e pensavo fosse una cosa assurda, poi capii che era a causa delle forti richieste di iscrizione. Preferivano prendere persone nuove e bisognose d'aiuto piuttosto che persone che avevano mostrato poca buona volontà nel guarire, tranne in casi eccezionalissimi.

 

Damiano era fortunato, quando andava via, il suo letto era sempre li pronto ad accoglierlo ad ogni suo ritorno.

 

"Perdonami per lo sfogo, cosa volevi chiedermi?" era già più calma, la sentivo più rilassata e subito mi ricordai del mio obiettivo serale.

 

"Avrei bisogno di un permesso per uscire dalle sette in poi.." chiesi timidamente.

 

"Non c'è problema, ti chiedo solo di rispettare il coprifuoco, altrimenti finiamo entrambe nei guai"

 

Estrasse dalla sacca della divisa un piccolo blocchettino, scrisse un permesso in cui era segnato il mio orario di uscita e i miei dati. Mentre scriveva io iniziai a contare quante volte distaccava la penna dal foglio, circa ventuno volte, e quando mi accorsi che l'aveva fatto in numero dispari un forte senso di fastidio mi pervase. Cercai di non pensarci, ma finii inevitabilmente a contare i dentini del pettine che avevo lasciato sulla scrivania la mattina stessa. Erano dieci, fui sollevata nel sapere che almeno quelli erano pari.

 

Alle sette in punto ero pronta per uscire. Mi recai alla fermata del bus che era a cinque minuti e mille-duecento-cinquanta passi a partire dal cancello della clinica. Accelerai la camminata quando passai davanti la camera di Alex e Luce, temevo che Alex potesse vedermi, Luce chiaramente non era in stanza e feci lo stesso quando passai davanti a quella di Carlo, all'uscita fui convinta di non esser stata vista da nessuno dei miei amici.

 

Il bus, che passò cinque minuti dopo il mio arrivo, era popolato di ragazzi, ne contai tredici. Una cosa che mi era sempre piaciuta dei mezzi pubblici era fantasticare sulle vite dei passeggeri. Mi chiedevo spesso cosa stessero facendo, dove fossero diretti e mi domandavo se loro pensassero lo stesso di me. Mi affascinava l'idea di incontrare persone che non avrei mai più rivisto, ognuna apparentemente normale, ma che in realtà possedeva un bagaglio di ricordi, emozioni, esperienze.

 

Mi perdevo spesso nell'idea che ci fosse una connessione fra ogni essere umano, ero fortemente convinta che anche uno sconosciuto in bus potesse influenzare e condizionare la vita altrui. A sostegno della mia tesi c'era il fatto che, ad esempio, quando incontravo un gruppo di ragazzi allegri, automaticamente mi sentivo di buon umore, se incontravo anziane signore, mi intenerivo e se incontravo uomini molesti automaticamente mi sentivo male tutto il giorno. Siamo tutti una grande connessione, un universo di sinapsi elettriche e chimiche, dove ognuno manda segnali all'altro, il quale, manderà un segnale ad altri ancora.

 

Quando arrivò la mia fermata scesi, sapevo esattamente dove andare. C'era un bar non molto lontano dal centro di Roma che frequentavo assiduamente prima di entrare in clinica, si chiamava "La savana" e lo adoravo per i proprietari simpatici ma soprattutto per l'atmosfera che spesso si creava. Aveva un'aria molto tropicale, ricco di piante, ricco di verde, il nome non era per niente casuale.

 

Persino i bicchieri che proponevano quando ordinavi un drink avevano un certo non so che di esotico, avevano forme strane e colori particolari. In quel bar avevo passato gran parte della mia adolescenza, sia da sola che in compagnia. Ci andavo con le mie compagne di liceo per fare colazione quando entravamo più tardi, con i miei cugini quando scappavamo dalle cene di famiglia, ed infine, ci andavo da sola quando nessuno poteva venire con me come in quell'occasione.

 

I vicoli di Roma sembravano così lontani dalla mia nuova realtà, erano solo tre settimane che non uscivo e tutto appariva alla mia vista così strano. Avevo dimenticato della bellezza di quelle strade, di quei colori così tenui, di quei palazzi color crema e di quei maledetti sanpietrini che mi avevano fatta imprecare in quelle serate in cui avevo indossato delle scarpe un po' più alte.

Non ero mai stata una ragazza particolarmente festaiola, soprattutto a causa dei pochi amici che avevo e che avevo perso nel corso degli anni, ma quelle poche uscite mi avevano fatto bene e le ricordavo con piacere.

In quel momento camminare a Roma non era solo una passeggiata, ma una boccata vera e propria di vita, e quando arrivai al bar e mi accomodai al mio solito tavolino ordinando una solita birra sentii che per un momento avevo messo i piedi per terra. Immaginai i miei nuovi amici seduti accanto a me a ridere e scherzare, immaginai di poterli vedere felici a sorseggiare un alcolico senza doversi preoccupare dei farmaci, dei coprifuochi, del cibo, dei chili di troppo, dei conti, dei numeri. Era questa la vita che desideravo per me, era questa la vita a cui ambivo per noi.

 

Ci vollero otto canzoni, sedici piccoli sorsi di birra e il rumore di quattro ragazze al tavolo accanto al mio per porre fine alle mie fantasie e farmi prendere coscienza di una presenza familiare a pochi tavoli dal mio.

 

Misi a fuoco la figura per cercare di capire se avessi visto bene, mi sembrò per un attimo abbastanza impossibile vederlo li tutto solo, e invece era proprio lui, Damiano. Soliti capelli tirati dietro, solito smalto nero opaco, solito filo di matita nera, era lui, così come l'avevo visto l'ultima volta. Indossava una camicia bianca e un paio di pantaloni neri che gli davano un'aria ancora più pulita di com'era l'ultima volta.

 

Ricordai di quando era piombato in camera mia e aveva cercato di intraprendere una conversazione chiedendomi perché mi trovassi al centro, ricordai del modo in cui l'avevo mandato via ed infine ricordai della promessa che mi ero fatta, avevo promesso di rimediare e non voltare più le spalle a qualcuno che semplicemente per troppa solitudine voleva scambiare due parole.

 

Mi alzai di scatto portando la mia birra con me e facendo un po' di slalom tra i tavoli lo raggiunsi sedendomi accanto a lui.

 

"Ho un disturbo ossessivo compulsivo, conto qualsiasi cosa, i numeri dispari creano in me un senso di inadeguatezza e da piccola strappavo le sopracciglia" gli dissi tutto d'un fiato sedendomi accanto a lui senza permesso.

 

"Come scusa?" rispose. In quel momento mi ricordai di quella voce profonda e leggermente nasale che mi aveva colpito settimane prima. Guardandolo così vicino, alla luce naturale, mi resi conto di che strana bellezza aveva.

 

"Ho ripreso la conversazione da dove l'avevamo interrotta, perdonami se sono sembrata scontrosa"

 

Temevo non si sarebbe ricordato di me, ma fortunatamente non fu così.

 

"Ti chiami Beatrice, vero?" chiese per conferma, poi ancora, si scusò per avermi fatto prendere un colpo quella sera.

 

"Tu perché sei in centro?" finsi di non sapere, ma io ormai sapevo benissimo, volevo solo sentire la sua voce e la sua esperienza.

 

"Stai palesemente fingendo di non conoscere la mia storia" disse ridendo ironicamente e sorseggiando quello che sembrava un drink analcolico, o almeno, speravo per lui che lo fosse.

 

"Mi andava di saperlo da te" risposi sinceramente.

 

"Credimi, sono sicura tu sappia tutto quello che c'è da sapere" disse sorseggiando il suo bicchiere con lo sguardo lontano. 

"Anzi secondo me sai anche qualcosa di non vero" aggiunse.

Avevo letto da qualche parte, che chi fa abuso di droghe col tempo rischia di perdere i denti, in quel momento pensai fosse una cavolata. Damiano aveva un sorriso bellissimo, i denti avevano un ottimo colorito ed erano tutti perfettamente allineati, segno di chi ha sicuramente portato l'apparecchio. In quel momento pensai che la sua famiglia fosse davvero ricca, lo dedussi dai particolari con cui era curato.

 

"Fumi?" mi chiese porgendomi il pacchetto di sigarette.

 

Accettai la sigaretta nonostante non fossi una fumatrice cronica, semplicemente mi piaceva accompagnarla alla birra e farlo in compagnia di qualcuno.

 

Gli chiesi gentilmente come avesse fatto ad uscire da solo dalla clinica essendo lui un ragazzo PDL, non riuscivo a capacitarmi di come un ragazzo tossicodipendente fosse stato lasciato libero mentre altri apparentemente con problemi meno gravi fossero chiusi nelle proprie camere, purtroppo scoprii che non era solo.

 

"Non sono solo" mi disse indicandomi una macchina nera con il logo caratteristico della nostra clinica a pochi metri fuori dal bar.

 

"Ho chiesto di lasciarmi al tavolo da solo, ma purtroppo devo essere sempre seguito, mi basta questo"

 

"Dici che ora ci stanno ascoltando?" affermai con ironia.

 

"Allora meglio non dire che sono degli stronzi" scoppiammo entrambi in una sonora risata.

 

Damiano era bello, bello da morire, sembrava disegnato. Il modo in cui si scostava i capelli, aspirava la sigaretta, la sua voce un po' nasale e il suo smalto nero lo rendevano di un affascinante raro.

 

Tutti i ragazzi che in quelle settimane avevo conosciuto in clinica, anche quelli con cui avevo scambiato poche parole, mi avevano raccontato di tutta la loro storia, Damiano no. Io sapevo del perché lui fosse in clinica solo grazie ai miei amici, e lui dal canto suo, aveva chiesto solo che problema avessi senza approfondire troppo la questione. Questa cosa mi piacque. Mi piaceva ascoltare le storie di altri, ma ogni tanto focalizzarsi su altro mi faceva bene. La persona più strana e problematica tra tutte mi stava facendo sentire più sana di quanto non fossi.

Per i primi minuti di conversazione non facevo altro che contare tutte le volte che sorseggiava dalla cannuccia o che sbatteva le ciglia, poi smisi per distrazione.

Scoprii molte cose di quel ragazzo in quella piacevole conversazione.

Scoprii che aveva vent'anni, solo due in più a me, che la sua vita non era solo sesso, droga e rock and roll, aveva tantissimi interessi. Adorava cavalcare, aveva un cavallo che considerava il suo migliore amico, aveva provato ad iscriversi all'università di lettere fallendo miseramente a causa dei suoi problemi con la droga, sapeva suonare pianoforte e chitarra. Gli raccontai della mia passione per la lettura, per le foto e per i viaggi, scoprimmo di aver visitato tantissimi posti in comune per cui commentavamo varie cose che avevamo visto.

Riuscii ad intuire come la droga avesse lasciato intatto il suo aspetto ma avesse distrutto la sua vita dal fatto che quando parlava di qualcosa che gli piaceva fare e a cui si era dedicato per molto tempo finiva il racconto con "E poi è arrivata lei...la mia signorina", così la chiamava. La sua signorina, una signorina un po' maleducata, un po' aggressiva, gli aveva preso tutto. Da un lato mi inteneriva, dall'altro sapevo che era stato lui a scegliere questa strada.

La sua signorina l'aveva ammaliato, come il canto di una sirena, e lui c'era cascato dentro con tutte le scarpe. 

 

Parlammo molto anche d'amore. Gli raccontai di non aver mai avuto una storia, e lui a sua volta mi raccontò di esser stato fidanzato per più di un anno senza approfondire troppo la questione. Pensai alla sofferenza di quella ragazza, combattuta tra un ragazzo così bello e buono e allo stesso tempo un mostro.

 

"La mia birra è finita, sarà meglio che vada..." gli dissi. La mia birra era finita da almeno mezz'ora in realtà, ma speravo non se ne fosse accorto.

 

"Ti prego resta, te ne offro un'altra. E' da tempo che non chiacchiero con qualcuno"

 

Per qualche assurdo motivo decisi di restare li a conversare con lui. Non so bene perché e cosa mi convinse, ma non me ne pentii. Man mano che le conversazioni andavano avanti trovavamo sempre nuovi spunti, era impossibile fermarsi. Mi chiesi se fosse così a causa del suo silenzio perenne con gli altri o se fosse causato dalle cose che avevamo in comune, in ogni caso fu un vero piacere.

Mai avrei voluto interrompere, ma in un batter d'occhio furono le dieci ed ebbi il timore di sforare il coprifuoco per cui lo invitai a tornare in centro. Mi offrì un passaggio con il suo accompagnatore, ma rifiutai, prendere i mezzi pubblici mi faceva sentire viva e normale, avevo bisogno di questo.

 

E così ci salutammo, non sapendo che ci saremo rivisti dopo poco tempo.

   
 
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