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Autore: ReaRyuugu    30/08/2021    0 recensioni
Probabilmente era un tentativo di fare ironia; una battuta, un’esagerazione che tirò verso l’alto gli angoli della sua bocca e gli cacciò fuori dai polmoni un risolino che sembrava in realtà più simile al rantolo disperato di qualcuno che stava per soffocare.
“… mi prendi per il culo.”
Sdraiato sotto di lui, Jakurai gli rivolse un singolo, pudico sguardo prima di voltare di nuovo gli occhi, e quello da solo fu un macigno che gli si incastrò dritto in fondo allo stomaco. [...]
“Non avrei motivo di mentirti su un argomento del genere, Hitoya.”

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HitoJaku. Amare ed essere amati, mille volte o per la prima in assoluto.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non scrivo esattamente dall'ultima volta che ho postato qualcosa da queste parti

Uhhhhh enjoy?


L'amore più grande del mondo 

Hitoya Amaguni, 35 anni, una gloriosa carriera di avvocato e una serie di esperienze di vita più o meno rispettabili, difficilmente si era mai trovato tanto disastrosamente impreparato davanti alla confessione di un’altra persona.

Da un certo punto di vista era una situazione quasi umiliante, anche se adesso non era lui quello con lo sguardo basso e le orecchie accese di rosso: di confessioni, in fondo, si era fatto mille volte difensore e tesoriere, abbastanza da far nascere la convinzione di poter mantenere una faccia seria pure quando in grembo gli cadevano combinazioni parole che non sembravano poter (o dover) esistere; una certezza però effimera, una bolla di sapone che forse non aveva retto a quel bicchiere di troppo buttato giù a cena, o che forse era talmente sottile che erano bastate pochi, vellutati sussurri perché finisse per esplodere.

Non lo accettò comunque, all’inizio. Probabilmente era un tentativo di fare ironia; una battuta, un’esagerazione che tirò verso l’alto gli angoli della sua bocca e gli cacciò fuori dai polmoni un risolino che sembrava in realtà più simile al rantolo disperato di qualcuno che stava per soffocare.

“… mi prendi per il culo.”

Sdraiato sotto di lui, Jakurai gli rivolse un singolo, pudico sguardo prima di voltare di nuovo gli occhi, e quello da solo fu un macigno che gli si incastrò dritto in fondo allo stomaco. Un’altra risatina riempì la stanza, stavolta da parte di lui, accompagnata dal fruscio leggero del tentativo di sistemare dietro l’orecchio i capelli spettinati.

“Non avrei motivo di mentirti su un argomento del genere, Hitoya.”

Non ebbe neanche bisogno di sentirlo finire, che ricordò immediatamente due cose.

La prima, che aveva accettato con le cattive che Jakurai era più capace di lui in quasi ogni dominio si potesse immaginare. Dalla carriera scolastica agli sport, era un rospo (ricoperto di spine) che si era costretto ad ingoiare una vita fa, pure se qualche volta faceva capolino in fondo alla gola e saltava ignaro nei punti più sensibili delle sue ben nascoste insicurezze.

La seconda, che una delle poche cose che lui aveva e con cui Jakurai, al contrario, non era nato, era un efficace senso dell’umorismo.

Non era una battuta, la sua. Non era uno scherzo, e la pesantezza della verità fu il secondo indigesto macigno che finalmente lo scosse e lo fece tornare con i piedi per terra. La pelle bianca su cui fino a un attimo fa aveva poggiato le mani senza troppi complimenti era diventata carbone ardente; il suo corpo slanciato, invitante, uscito da anni di fantasie insoddisfatte, una statua di cristallo, un tempio invalicabile.

Jakurai era stato sincero quando, i vestiti mezzi a terra e le parole spezzate dai sospiri, aveva alzato gli occhi e gli aveva confidato che non aveva alcun tipo di esperienza con il sesso, e Hitoya, 35 anni, avvocato col suo bagaglio di esperienze più o meno rispettabili, potè solo sprofondare in ginocchio nel materasso e raccattare mentalmente tutte le aspettative che si erano sparpagliate ovunque al suono di un singolo mormorio, contemplando silenziosamente la nuova realtà che gli si era palesata davanti. Una reazione forse un po’ troppo plateale per quello che in fondo non era che il suo migliore amico d’infanzia-diventato rivale-diventato amante che gli confessava timidamente di essere vergine, e forse leggermente irrispettosa del suo sottile imbarazzo: di fatto, era difficile mettere a parole quanto il suo sconvolgimento avesse ben poco a che fare con Jakurai stesso, e più con qualcosa che gli si rimescolava dentro.

“… è un problema?”

Da che lui era riuscito a creare una rassicurante distanza tra di loro, Jakurai l’aveva azzerata in un momento: anche senza alzare lo sguardo Hitoya riconobbe a se stesso che la sua presenza si era fatta fastidiosamente incombente, abbastanza perché accigliarsi e tirare indietro la testa gli venisse spontaneo.

“Sinceramente non pensavo che-“

Ed è un problema?

La ferma cortesia di Jakurai era qualcosa che negli anni non era mai cambiato: come al solito gli riusciva pure troppo bene di prendere Hitoya e di metterlo davanti alle sue incertezze, e quella non fu un’eccezione, non aiutato nemmeno dalla sensazione delle dita lunghe ed eleganti che si avvolgevano, calde, intorno ad una mano che chissà quando si era chiusa a pugno.

No, non era quello il problema.

Il sospiro che gli uscì dalle labbra fece ben poco per alleviare il peso che non aveva mai smesso di comprimergli lo stomaco, inadeguato e insopportabile peggio di un caffè annacquato di prima mattina: il problema era che non aveva pianificato, Hitoya, di trovarsi davanti a qualcosa di così importante quando si era chiuso la porta di casa alle spalle e aveva lasciato che Jakurai lo tirasse dolcemente fino in camera da letto, quando le loro labbra si erano unite e i loro corpi fremevano per toccarsi.

Ad un certo punto aveva semplicemente accettato che la vita, nei dieci anni in cui si erano persi di vista, doveva essere per forza essere andata avanti per entrambi: lo aveva fatto per lui, d’altronde, pure coi fantasmi del passato a trascinarlo per le caviglie e ancorarlo a memorie di astio e dolore che non avevano mai realmente smesso di inquinare i suoi pensieri. Persino per lui c’erano stati momenti in cui era stato sicuro di poter prendere il ricordo di Jakurai e di qualsiasi acerbo sentimento avesse provato per lui e di poterli relegare lontano, intoccati e intoccabili; persino lui si era permesso di volgere lo sguardo altrove, indagatore e curioso, accogliendo con trasporto più o meno intenso qualsiasi relazione sembrasse essere arrivata per sfiorare le giuste corde, appagare i giusti bisogni. Forse l’amore che aveva provato era un riempitivo, forse era una distrazione, o forse era sincero, anche se non forte abbastanza da permanere per più di qualche giorno, settimana, forse mese, prima di svanire e di lasciarlo di nuovo da solo — ma non era quello il punto. Persino lui era riuscito in tutto questo, mentre Jakurai, colui che era sempre stato lontano e inarrivabile, era rimasto chiuso nella sua corolla fino a quello specifico istante. Aveva amato, prima di allora? si domandò Hitoya, il pugno che si rilassava e le dita che si intersecavano, soprappensiero, in mezzo a quelle dell’altro uomo, che non aveva aggiunto niente mentre aspettava una risposta. Se sì, cosa c’era stato di diverso, e perché si stava concedendo a qualcuno proprio in quel momento? Hitoya non aveva la presunzione di pensare davvero che si fosse mantenuto puro per lui (anche se, sotto sotto, a una piccola fetta del suo ego faceva particolarmente piacere crederlo), ma a prescindere da questo, a prescindere dal fatto che era già diverso dalle svariate, effimere conquiste con cui aveva consumato una o più notti, ci si era messa la responsabilità che gli era caduta tra le mani mettere tutto, ancora, nell’ennesima nuova prospettiva.

Schiuse appena la bocca; le parole che gli danzavano a fior di labbra erano tante e nessuna sembrava più giusta, o meno inappropriata, della precedente.

“… sei sicuro?”

Era irritante l’idea di essersi ridotto a rispondere ad una domanda con un’altra domanda, lo trovava un sotterfugio da stupidi, che aveva lo stesso sapore insipido del voler scaricare su qualcun altro la responsabilità di sbloccare la situazione di imbarazzo mentre lui, codardo, si nascondeva dietro un dito. Quel nascondiglio, e quella risposta, però, erano diventati un’egoistica necessità, e più passavano i secondi, più i dubbi iniziavano ad accavallarsi gli uni sugli altri.

Vide Jakurai sussultare, sorpreso, ma la luce nel suo sguardo non cambiò. Laddove Hitoya iniziava a temere che avrebbe occhieggiato un velo di dubbio a oscurargli gli occhi, al contrario, c’era invece una tenerezza disarmante. 

“Più di quanto credi.”

E tu che ne sai di quel che credo io?, una parte del suo cervello volle quasi rispondere, ma riuscì a tenerla a bada e a lasciare che quelle parole si insinuassero gentili in mezzo alle sue preoccupazioni, panacea per i nodi che da qualche minuto a quella parte avevano preso a stringergli la gola e lo stomaco. Per una volta aveva bisogno che Jakurai gli entrasse nella testa e che lo rassicurasse, poche parole che lasciavano sottendere non solo la sua ferma risolutezza, ma anche il fatto che, forse, il processo per arrivarci non era stato né semplice né scontato. Era ancora più pesante di quel che avrebbe voluto, la responsabilità che Jakurai Jinguji gli aveva caricato addosso, ma adesso era anche dolce; era un gioco, era complicità che trovava il suo culmine, e Hitoya volle rendere onore alle decisioni che l’altro doveva aver preso per arrivare fino a quel punto. Non era il momento di chiedersi i perché o i per come, l’avrebbe fatto più tardi: adesso volle solo lasciare che le mani si muovessero da sole verso il suo viso e che lo afferrassero con gentile fermezza mentre se lo tirava vicino a sé, le loro bocche che si unirono, morbide. Jakurai si tirò indietro, entrambi di nuovo accolti da un fruscio di coperte via via che il bacio si approfondiva e che la curiosità di Hitoya, finalmente sbrigliata di ogni preoccupazione, spingeva le dita oltre i bottoni, si incontrava con una cognizione diversa con la sua pelle candida, interpretava in modo nuovo i sussulti che si infrangevano contro le proprie labbra. 

Si separarono per un attimo, per quell’istante che gli servì per riprendere fiato e per rivolgersi più in basso, nelle vallate gentili del suo collo che decise di tempestare dei segni del suo passaggio, fiori scarlatti che spuntavano quando i denti si stringevano un po’ più forte, quando le labbra si soffermavano più a lungo. Le mani, quelle non si potevano più saziare del suo corpo esile, liberandolo ansiose dalla stoffa come un moccioso spacchetta un regalo a Natale: quando finalmente rialzò la schiena, il Jakurai che gli si presentò davanti era una confusione di vestiti, di capelli e di rossori che non apparteneva, nella sua mente, alla figura del dottore perfetto che era sempre stato abituato a guardare dal basso, no — era una vista tutta nuova e che apparteneva solo a lui, che non era mai appartenuta a nessun altro, e che avrebbe lottato perché nessuno se ne appropriasse. Non quando finalmente l’aveva assaggiato, al contempo frutto proibito e pura salvezza: si sarebbe concesso tutto il tempo del mondo per scoprire ogni angolo, ogni lembo di pelle, e si sarebbe riempito la testa dei suoi mormorii finché non se ne sarebbe ubriacato, con due realizzazioni, nuove e ferree, a dargli crescente motivazione.

La prima era lo star capendo, un bacio, un morso, una carezza dopo l’altra, che di tanti tentativi di placare la sua arsura, l’unica oasi era la distesa bianca del suo ventre, ed era stato sciocco aver anche solo creduto, in passato, di accontentarsi di qualsiasi altra sostituzione. 

La seconda, che gli arricciò le labbra in un breve sorriso, era la soddisfazione di essere davvero lui il primo, per una volta.

***

Amore.

Un concetto, per Jakurai Jinguji, che aveva sempre avuto valenze molteplici ed opposte, una forza inarrestabile, un sentimento per cui provava rispetto, timore, curiosità. Qualcosa che gli era sempre stato particolarmente facile provare, in maniera spesso spropositata: tante volte si era chiesto se per caso non fosse, più che una caratteristica, un difetto intrinseco della sua persona, e altrettante volte, pure quando si era sforzato, non era mai riuscito ad amare meno di quanto avesse sempre fatto. In tutte le sue forme, le sue sfumature, le magnitudini, Jakurai aveva amato molto, in tutta la sua vita e in molteplici occasioni, rifiutandosi di trasformare singole delusioni nel velo di disillusione che gli avrebbe impedito di amare il prossimo nella maniera più incondizionata.

Amore.

Una benedizione e, al contempo, una contraddizione che permeava tutto il suo essere. Era facile, era naturale, per lui, amare; era forse il fulcro della sua esistenza, era ciò che aveva sempre conosciuto. Amore era la sua ragione e il suo obiettivo, la motivazione di molte, se non tutte, le sue decisioni di vita, ma con l’amore che dava non era infrequente arrivasse un dilemma infinitamente più difficile da gestire: l’amore che arrivava dagli altri.

Per una lunga fetta della sua vita, e in parte persino ora, Jakurai era stato convinto che la sua esistenza sarebbe stata assai più sopportabile se lui fosse stato l’arciere, e l’amore una freccia scoccata verso l’ignoto, senza alcuna possibilità di ritorno. Era, però, purtroppo o per fortuna, natura dell’uomo quella di far tesoro dell’affetto altrui: se mille persone se lo tenevano prepotentemente per sé, in proporzione erano a migliaia coloro che invece lo ricambiavano, in ciò che era probabilmente ciò che di più umano era mai esistito. Uno scambio sbrigliato di ogni tornaconto che era rincuorante osservare negli altri, ma che nel petto di Jakurai prendeva lo stesso retrogusto amaro di una condanna. 

Un essere impossibile da amare — non lo sorprendeva di poter essere definito così, eppure nemmeno quella era la verità. Di amore ricevuto non aveva mai patito fame, anche quando la sua mera presenza diventava genuinamente mortificante: erano stati proprio quelli in cui aveva osato crogiolarsi nell’altrui calore i momenti in cui tutto gli si era sbriciolato davanti, sabbia che scivolava inevitabile tra le fessure di una presa disperata. Erano le occasioni in cui la mente si schiariva, in cui i peccati di cui si era macchiato, imperdonabili, gravavano su di lui come a ricordargli che non se ne sarebbe mai liberato, che la sua redenzione era lungi dall’essere completa, e che era proprio questo a renderlo, inequivocabilmente, un essere immeritevole di amore.

Una convinzione iperbolica, vicina al reame dell’assurdo — ma Jakurai, pure consapevole della sua irrazionalità, così come della discordanza tra essa e la certezza che ogni umano fosse degno di essere amato a prescindere da tutto, aveva presto iniziato a trovare un nichilistico conforto nel chiudersi, nell’allontanarsi, nel rifiutare l’altrui affetto con pacata cortesia. Era rassicurante persuadersi che ergersi solitario nella frenesia di una città senza sonno fosse un modo come un altro per proteggere e per proteggersi, salvatore che non cercava salvezza se non da se stesso e tramite se stesso; una bugia, però, che aveva da un pezzo iniziato a non stare più in piedi da sola.

Il suo cuore non era abbastanza arido perché l’affetto delle persone a lui care non lo convincesse, talvolta, ad aprirsi al tepore forse egoistico, forse necessario del sentirsi benvoluto dal prossimo. E quando Hitoya; quando proprio lui era tornato nella sua esistenza, quel medesimo bisogno di amore aveva ricominciato a impazzare nel suo petto riempito di scintille. 

Colui che era riemerso da un passato remoto, armato di una frustrazione che inizialmente Jakurai non aveva capito.

Colui che, allo stesso tempo, aveva amato sempre, e che temeva di aver definitivamente allontanato con un amore acerbo e soffocante, più paternalistico che costruttivo. 

Proprio lui, da un momento all’altro, era di nuovo lì — e anche se non si erano raggiunti immediatamente, se tra di loro si ergeva il muro degli anni di silenzio che non aveva che esacerbato l’astio da una parte e la testarda ignoranza dall’altra, il momento di confrontarsi e di crescere era esistito, e le loro strade si erano toccate di nuovo. Ciò che aveva provato nei suoi confronti non l’aveva mai dimenticato; era riemerso, semmai, più intenso e più consapevole di prima: la certezza di esser ricambiato era spaventosa, all’inizio, la tentazione di isolarsi di nuovo e di ricordare a se stesso di essere imperdonabile e indegno inquinava talvolta la testa e il cuore, ma stavolta a quell’amore non l’avrebbe lasciato sfuggire. Era troppo forte, troppo dolce e importante perché non ci si potesse aggrappare con le unghie e con i denti, l’occasione di cui aveva bisogno per iniziare definitivamente a liberarsi da spine che lo avevano ferito per troppi anni.

Voleva concederglisi anima e corpo, vulnerabile, per una volta, davanti agli occhi della persona di cui si fidava di più al mondo. Anche per questo una fitta di terrore gli morse la gola quando si trovò davanti alla sua esitazione: per un attimo i fantasmi delle sue paranoie tornarono tutti insieme, provarono a convincerlo che Hitoya l’aveva capito, il motivo sottostante alla sua solitudine. Un uomo perspicace come lui aveva sempre avuto l’abitudine di osservare la realtà con occhio critico, anche laddove lui, di solito, preferiva offrire il beneficio del dubbio: non sarebbe stato poi così erroneo, da parte sua, presupporre il peggio, e mentre i secondi scorrevano, mentre il respiro si faceva flebile, scandendo morbidamente il silenzio che si era interposto, freddo, tra i due, Jakurai si trovò a pregare. 

A pregare di non doverlo vedere andarsene di nuovo; che quell’amore prezioso e inimitabile non gli venisse strappato via, non adesso che aveva finalmente deciso di accoglierlo e di farne tesoro. Scenari di più oscura disperazione gli si susseguirono in testa in una spirale di pensieri uno più nefasto del precedente, pensò a cosa dire, come giustificarsi, come tentare di riconquistare la sua fiducia… e non poté che sentirsi uno sciocco quando, al contrario del peggior pronostico, ciò con cui si era scontrato era il suo rispetto: Jakurai fu in quel momento che si promise di non dubitare più, né di lui né del sentimento che nel giro di pochi istanti li tirò di nuovo l’uno all’altro, metà che si riunivano in un atteso intero.

Finalmente ebbro di gioia, non si fermò a soppesare la razionalità delle sue emozioni. Non si domandò se davvero non fosse stato mai bene prima di trovarsi stretto in mezzo alle sue braccia; o se mai si fosse sentito completo prima che i loro corpi diventassero uno, circondati solo dal sussurro dei loro ansiti e dai suoni della loro unione. Il petto premuto contro il suo e i loro battiti che risuonavano all’unisono, Jakurai non aveva tempo, né la voglia, anche solo di iniziare a esaminare con criticità il fuoco gentile che gli si era acceso nel cuore, rassicurante tepore che era mancato così tanto da diventare nuova, dolce confusione. Ogni sguardo era un sussulto, ogni carezza un fremito, una spinta a cercarne ancora, un invito a sprofondare laddove mai aveva il coraggio di mettere piede.

Era l’amore più grande del mondo, quello che era nato. E se ne sarebbe lasciato travolgere, convincendosi, almeno stanotte, che era tutto quello di cui la sua anima sola aveva sempre avuto bisogno. 

   
 
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