Non puoi toccare il grumo sporco di creazione
che sporge appena dalle mie palpebre asfittiche, inquinate da impronte digitali
mischiate con la terra secca.
La sofferenza è l'unico dono a me stessa che conservo
con la gelosia abbassata, immune al mondo esterno.
Non puoi strapparmi l'odore di fiori recisi e sangue
che annaffia il mio giardino di rovi. Non puoi mordere il frutto
che pende dalla passione, avvizzito e triste
come corvi in un campo a dicembre.
Non ti chiedo il mio sorriso brillante
lavato di cenere e asperso con gocce di vetro. Non ti chiedo
una parola dolce, comprensione. Non ti chiedo un cassetto
o un armadio di scheletri
danzanti nella polvere di possibili passati.
Tu non chiedermi la rabbia o di impastarti il pane
con quel grano saraceno
raccolto bruciante tra le fiamme accese
per la tua negligenza nel soffocare i fiammiferi.
Mi hai affogata in un sacco e dispersa
gattino in un mondo di ghepardi
e mentre respiravo ossigeno e morte
mi hai teso la mano per mangiare dal tuo piatto
irritandoti della mia consapevolezza.
Mi chiedi di accarezzarti il viso lebbroso
con le mani piagate di perdono.
Lo faccio, aspettando ad occhi chiusi.
Ma tu non puoi toccare i petali marroni
di giorni persi ad aspettare invano
nascosti in libri di fotografie senza volti.
Io ti appartengo.
Il mio dolore no.