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Autore: Clementine84    04/09/2021    0 recensioni
“Ciao Siobhan”.
Al solo sentire la voce di Keith, le gambe mi erano diventate improvvisamente molli e avevo dovuto appoggiarmi al tavolino.
“Ciao” avevo risposto, scioccata.
.....
“So che ti starai chiedendo come mai ho deciso di farmi vivo, dopo tutto questo tempo, ma la verità è che non lo so nemmeno io” aveva ammesso, lasciandomi un po’ spiazzata.
“Presumo di aver pensato che era ora di farla finita con questa stupida situazione e ho pensato che oggi fosse il giorno adatto per tentare. In fondo, uno dei due doveva pur fare il primo passo”.
......
Keith era stato il mio primo, unico, grande amore, sarebbe stato inutile negarlo. Nei nove anni in cui non ci eravamo sentiti, avevo cercato di rifarmi una vita e, in parte, ci ero riuscita. Ero soddisfatta in campo lavorativo, ma decisamente delusa in quello affettivo. Avevo avuto qualche storia, ma nessuna era mai durata più di sei mesi. La scusa era sempre la stessa. Il mio lavoro, che nessuno sembrava essere in grado di sopportare, tranne io.
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Cari lettori silenziosi, siamo in dirittura d'arrivo. Dopo questo capitolo, arriverà l'epilogo che ci dirà, finalmente, se e come Siobhan e Keith riusciranno a stare insieme. Qui le cose si complicano un po' e i ricordi del passato sconvolgeranno la povera Sio. Ma chissà che la maturità guadagnata con l'età non l'aiuti a fare chiarezza dentro di sè...
Se vi va, lasciatemi un commento. Sono curiosa di sapere cosa ne pensate.


Questo era un rumore diverso. Avevo faticato a prendere sonno, la sera prima. Non facevo che ripensare a Keith e tentavo di dare un nome al sentimento che ci legava, un nome che non fosse amore, termine che mi spaventava a morte. Alla fine, mi ero addormentata, mentre le campane del campanile della chiesa del paese annunciavano le due. Quello che mi perforava le orecchie in quel momento, però, strappandomi dal torpore del dormiveglia, era un suono più acuto, più penetrante. Doveva essere il telefono. Con gli occhi ancora semi-chiusi, allungai goffamente una mano, in cerca del cordless che, di notte, tenevo sul comodino, per evitare di svegliare Rose quando venivo chiamata per un’urgenza.

“Pronto?” bofonchiai, reprimendo uno sbadiglio.

L’inequivocabile suono della linea libera mi destò dal torpore, facendomi realizzare che il fastidioso suono che mi aveva svegliata non proveniva dal telefono, bensì dal campanello della porta. Guardai l’ora sulla sveglia: le 8:00. Era S. Stefano, un giorno di festa. Chi mai poteva essere? Indossando frettolosamente la vestaglia, andai ad aprire.

“Sto arrivando” dissi, mentre facevo girare la chiave nella toppa “Un secondo”.

Aprii la porta e mi ritrovai davanti Martin. Indossava una tuta dell’Adidas azzurra e blu, un cappellino blu scuro e gli occhiali da sole, e reggeva una piccola borsa da palestra.

“Marty…che succede?” domandai, preoccupata.

“Fammi entrare, ti spiego dopo” disse lui, sbrigativo, scostandomi gentilmente dalla soglia e richiudendosi la porta alle spalle.

Martin lasciò la borsa all’ingresso e andammo entrambi in cucina, dove il mio amico si lasciò cadere pesantemente su di una sedia.

“Posso stare da te, per un po’?” chiese, togliendosi cappellino e occhiali.

Annuii “Certo che puoi. Ma si può sapere cosa sta succedendo?”.

“Ecco, vedi, ieri sera sono andato a farmi una birra con un paio di vecchi amici del liceo…”

Feci una smorfia. Conoscevo i compagni di liceo di Martin, poiché erano stati anche i miei, e non mi piacevano per niente.

Il mio amico proseguì “Abbiamo alzato un po’ il gomito e…non so spiegarti come sia successo, non me lo ricordo, ero troppo ubriaco…comunque, dev’essermi scappato un commento piuttosto allusivo sul fondoschiena del barista del locale”.

Strabuzzai gli occhi “No!”

Martin annuì “Ho paura di sì, piccola”.

“Ma…Marty…come hai potuto?”

“Non ne ho assolutamente idea” confessò, scuotendo la testa “Presumo sia stata tutta colpa dell’alcool. Non l’avrei mai fatto, da sobrio”.

Restai a fissare il mio amico, in trance. Io e i ragazzi sapevamo da tempo della sua omosessualità, ma aveva sempre fatto molta attenzione a non farlo sapere a nessun altro. Diceva che prima doveva sentirsi pronto.

“A mia discolpa, posso solo dire che il fondoschiena del barista era veramente notevole” aggiunse, strappandomi un sorriso.

“E…adesso?” domandai, un po’ più rilassata, vedendo che il mio amico sembrava prenderla con filosofia.

“Beh, qualcuno deve aver parlato, perché stamattina sono stato buttato giù dal letto dal campanello e, quando sono andato ad aprire, mi sono trovato davanti uno stuolo di giornalisti che volevano una dichiarazione sulla mia presunta omosessualità”.

“E tu?”

“Mi sono rifiutato di parlare, ma quelle sanguisughe non si arrendono tanto facilmente e hanno circondato la casa”.

“Sul serio?” chiesi, incredula.

Martin annuì. “Ho messo due cose in una borsa e ho tentato la fuga. Sono riuscito a svignarmela dall’uscita posteriore, ma non posso tornare a casa mia, o quelli mi spellano vivo. Almeno per un po’. Non sapevo dove andare e ho pensato subito a te. Le case dei ragazzi sarebbero state troppo ovvie” spiegò.

“Hai fatto bene, Marty. Sai che c’è sempre posto, per te. Ora Rose non c’è, ma tornerà presto. Comunque puoi stare nella mia stanza. Non abbiamo mai avuto problemi a dormire insieme”.

Martin sorrise e mi prese una mano “Grazie, piccola. Sapevo di poter contare su di te”.

“Piuttosto, l’hai già detto agli altri?” domandai, pratica.

“Li ho chiamati mentre venivo qui, più che altro per avvertirli che potrebbero trovarsi qualche giornalista fuori casa”.

“Che hanno detto?”

“Ovviamente mi reggono il gioco. Gli ho detto che venivo da te e hanno detto che mi avrebbero raggiunto. Saranno qui a momenti”.

Preparai il the e servii a Martin una fetta della torta al cioccolato che mia madre aveva preparato per la cena della vigilia. Ci eravamo appena seduti a fare colazione, quando suonò il campanello.

“Devono essere loro” annunciò Martin, mentre io andavo ad aprire.

Il mio amico aveva ragione. Aperta la porta, mi ritrovai davanti le facce preoccupate di Gavin e Keith.

“Martin è qui?” chiese subito Gavin.

Annuii “E’ di là che fa colazione”.

“Come sta?” chiese Keith.

Alzai le spalle “Sembra che l’abbia presa abbastanza bene”.

Gavin si precipitò subito dall’amico. Io e Keith lo seguimmo ma, prima di arrivare in cucina, Keith mi trattenne per un polso e, a bassa voce, mi domandò “E tu come stai?”.

Gli sorrisi. “Bene, io sto bene”.

Il ragazzo mi sfiorò timidamente una guancia con il dorso della mano. Istintivamente, chiusi gli occhi.

“E tu?” domandai, riprendendo possesso delle mie facoltà.

Keith mi rivolse un sorriso radioso. “Benissimo”.

Raggiungemmo gli altri in cucina, Keith si avvicinò a Martin e gli diede una pacca affettuosa sulla spalla.

“Come va, amico? Come stai?”.

Martin alzò le spalle “Potrei stare meglio, Keith. Grazie per essere venuto”.

“Possiamo fare qualcosa per aiutarti, Marty?” chiese Gavin, desideroso di rendersi utile “Oltre a tenere la bocca chiusa, intendo”.

“No, grazie, Gav. Va bene così. Voglio solo lasciar calmare un po’ le acque, dopodiché rilascerò una dichiarazione ufficiale e metterò fine a questa storia, una volta per tutte”.

“Sei sicuro, Marty?” gli chiesi “Ti senti pronto?”

“Sio ha ragione, amico. Finirà su tutti i giornali, lo sai, vero?” si informò Keith.

Martin sorrise, sereno. “I giornali di oggi serviranno ad accendere il camino, domani” sentenziò, e noi non potemmo far altro che annuire, e apprezzare la sua forza di volontà.

 

I ragazzi se n’erano appena andati e stavo aiutando Martin a sistemarsi in camera mia, quando il ragazzo si fermò a guardarmi, con un sorrisino diverto stampato sul volto.

“Che hai?” chiesi, sorpresa.

Martin scosse la testa. “Niente. Mi sto solo chiedendo quando ti deciderai a dirmelo”.

“Dirti cosa?”

“Cos’è successo tra te e Keith”.

Restai a bocca aperta. Come diavolo faceva a saperlo? Non poteva averglielo detto Keith, dato che, la sera prima, Martin era uscito con i suoi amici.

“Cosa ti fa pensare che sia successo qualcosa?” mentii, evitando di incrociare il suo sguardo.

“Come ti pare. Ma ho visto come ti guarda”.

“Come mi guarda?” chiesi, incuriosita.

“Come uno che non riesce a toglierti gli occhi di dosso” disse lui, scoppiando a ridere.

Gli tirai un cuscino. “Scemo”.

“Tu! Tirare un cuscino a me!” esclamò lui, fingendosi offeso “Come hai osato?”.

Mi saltò addosso e mi fece cadere sul letto, torturandomi con una sessione di solletico. Quando fummo entrambi senza fiato e con le guance dolenti a furia di ridere, ci fermammo e restammo a fissare il soffitto, in silenzio.

“Allora?” chiese ancora Martin, tornando all’attacco.

Sospirai. Tanto valeva raccontargli tutto.

“Siamo andati a letto insieme”.

“Ooooh! E com’è stato?”

“Fantastico” confessai, arrossendo.

“Quindi? Come siete rimasti?” si informò il mio amico, voltandosi a guardarmi.

Scossi la testa. “Non lo so. Gli ho proposto di restare amici, ma non ha accettato. Dice di essere ancora innamorato di me”.

“E tu? Sei ancora innamorata di lui?”

“Non lo so, Marty, davvero non lo so. Gli voglio bene e mi è mancato da morire, in questi nove anni. Ma non so se quello che provo è amore o soltanto affetto fraterno”.

“Non si va a letto con un fratello” osservò Martin, critico.

“Lo so benissimo, genio” ribattei, irritata. “Volevo dire che mi serve un po’ di tempo per riflettere”.

“Riflettere su cosa?”

“Sulla mia vita”

“Crisi esistenziale?” scherzò il mio amico.

“No, scemo. Devo capire se il mio mondo e quello di Keith sono compatibili”.

“Te lo dico già io, piccola. Non lo sono” disse Martin, serio.

Sospirai. “Allora la nostra storia non avrà mai un futuro”.

Martin scosse la testa. “E’ qui che sbagli, piccola. Il fatto che i vostri due mondi non siano compatibili, non vuol dire che non dobbiate nemmeno provarci”.

“Ma che senso ha provarci, se sappiamo già dall’inizio che non funzionerà?”

“A volte, i miracoli accadono…”.

Mi voltai a guardarlo, stupita. Martin mi sorrise e, dandomi un bacio sulla guancia, aggiunse “Però bisogna crederci”.

 

“Dai, Sio. Devi venire. Non puoi dire di no” piagnucolò la voce dolce di Gavin.

Sospirai, alzando gli occhi al soffitto, e facendo scoppiare a ridere Martin, che assisteva alla telefonata mentre finiva di fare colazione.

“Cielo, Gav. A volte sembri proprio un bambino” commentai.

“Non cambiare discorso” mi rimproverò lui “Allora? Vieni?”

“Non lo so”.

“Ma come non lo sai?” insistette lui.

“Te l’ho già spiegato, Gav. Sono di turno e potrebbe esserci un’emergenza. Inoltre non mi va di lasciare Marty a festeggiare il Capodanno da solo”.

Gavin ci mise un attimo a ribattere, tanto che mi convinsi che avesse mollato la spugna. Invece, poco dopo, tornò alla carica.

“Punto primo: non è detto che ci sia per forza una qualche vacca con la diarrea. Punto secondo: Marty non è affatto solo, c’è Rose con lui. E ti ha detto lui stesso di venire alla festa. Punto terzo: Keith ci resterà male, se non vieni”.

Al sentire il suo nome, il mio cuore iniziò a battere più forte.

“Viene anche Keith?” domandai, cercando di sembrare il più disinteressata possibile.

Gavin non rispose, si limitò a sentenziare “Ti aspetto alle dieci” e riattaccò.

“Ancora con la festa da Hoogan?” chiese Martin, quando tornai in cucina.

Annuii, sospirando “Sai com’è fatto Gavin. Quando si mette in testa una cosa, non c’è verso di fargli cambiare idea”.

“E perché dovresti fargli cambiare idea?” chiese il mio amico, serio.

Gli lanciai un’occhiataccia.

“Ti ci metti anche tu, adesso?”

Martin sorrise e diede un morso alla sua fetta di pane tostato.

“Non vedo perché tu non debba andarci” osservò, pensieroso.

“Non ne avevamo già parlato, Marty?”

Il ragazzo annuì.

“Sì, ne avevamo parlato. E, infatti, ti avevo già detto di non preoccuparti per me. Con Rose starò benissimo. Anzi, ha già promesso di cucinarmi le lasagne. Non vedo l’ora”.

“Ma bravo! Una si distrae un attimo e viene subito sostituita” commentai, fingendomi offesa.

Martin scoppiò a ridere.

“Sei sempre la mia preferita, lo sai, ma Rose è simpatica e almeno con lei non rischio di morire di fame”

“Faccio finta di non aver sentito” lo freddai.

“A parte gli scherzi, Sio. Vai alla festa. Divertiti. Svagati. Te lo meriti”.

Sospirai.

“Non so, Marty. Non sono un animale da feste, io”.

Martin emise un lungo fischio.

“Che sarà mai? Una festicciola country in un pub per celebrare l’anno nuovo. Mica la notte degli Oscar!”

Sorrisi, mio malgrado.

“Okay, okay. Mi avete convinta. Vada per la festa da Hoogan” sentenziai, rassegnata.

“Però tu e Rose promettete di tenermi da parte una porzione di lasagne, chiaro?”.

 

Entrando da Hoogan, quella sera, fui avvicinata da una ragazza che distribuiva buffi cappelli da cowboy luccicanti con scritto Hoogan 2010.

“Rosa per le ragazze, blu per i ragazzi” spiegò, sorridendo.

Indossai il cappello, ben sapendo che, in quel modo, avrei assunto lo stesso aspetto comico del resto degli invitati, molti dei quali si stavano già scatenando sulla pista. Prima di avvicinarmi al bancone, mi fermai a guardare. I balli country mi avevano sempre affascinato e, se non avessi avuto la grazia di un frigorifero, mi sarebbe piaciuto impararli.

“Ehi, allora sei venuta!” esclamò la voce squillante di Gavin, in un tono di una buona ottava sopra alla media solita.

Mi voltai e, senza nemmeno rendermene conto, mi ritrovai tra le braccia del mio amico.

“Che bello averti qui, Sio. Davvero. Mi saresti mancata terribilmente se non fossi venuta”.

‘Fantastico,’ pensai ‘è già completamente brillo’.

Scoppiai a ridere e, liberandomi dall’abbraccio, risposi “Beh, sono qui, Gav, come vedi”.

“Devi ASSOLUTAMENTE ballare con me, Sio. Adesso” disse, prendendomi per un braccio e iniziando a trascinarmi verso la pista.

Fui colta da sudori freddi. Ballare? Io non ballavo!

“Ehm…Gav…non credo sia una buona idea” tentai di dissuaderlo, ma il mio amico, ringalluzzito dalla sbronza, era irremovibile.

Mio malgrado, mi ritrovai in mezzo alla pista, con Gavin che faceva del suo meglio per tenere il tempo, senza che io potessi essergli di grande aiuto, dato che non avevo la più pallida idea dei passi che avrei dovuto fare. Dopo un paio di minuti passati a ridere come pazzi, sperando che nessuno dei presenti muniti di macchina fotografica riprendesse le mie prodezze sulla pista, mi sentii cingere le spalle e, voltandomi, incrociai gli occhi blu di Keith.

“Ehi, amico, per stasera hai annoiato abbastanza la povera Sio” disse, rivolto a Gavin.

“Ehi!” ribatté l’altro, offeso “Ci stavamo divertendo”.

“Tranquillo, le offro solo da bere e te la restituisco come nuova” scherzò Keith.

Gavin gli rivolse uno sguardo scettico ma, alla fine, annuì.

“Okay, ma non me la sciupare, eh?”.

 

 

Presi Siobhan per una mano e, facendo attenzione a scartare i ballerini, la condussi fino al bancone, dove ordinai due birre.

“Grazie per avermi salvata da Gavin” disse, sedendosi su di uno sgabello.

Sorrisi. “Figurati. È il mio lavoro salvare donzelle in difficoltà, non lo sapevi?”

Siobhan alzò un sopracciglio. “Davvero? Ero convinta che facessi il cantante”.

“Sì, beh. Di giorno. Di notte divento un supereroe”.

“Uh, scusi tanto, signor Superman” scherzò lei, bevendo un sorso di birra.

Scossi la testa e, arrotolandomi la manica della camicia, le mostrai il mio vecchio tatuaggio con il simbolo di Superman.

Siobhan scoppiò a ridere di gusto e poi, provocandomi, disse “Quello è solo un vecchio tatuaggio. A me serve un vero eroe”.

Strabuzzai gli occhi.

“Vuoi forse insinuare che non sono all’altezza?”

Siobhan si fece pensierosa “Hum…non saprei” disse “Ma possiamo sempre metterti alla prova”.

Mi alzai in piedi, deciso.

“Coraggio, qual è la prima prova?” domandai.

Siobhan parve pensarci un attimo su, poi, sorridendo, annunciò “Potremmo iniziare dal ballo”.

Era un colpo basso. Odiavo ballare e Siobhan lo sapeva. Decisi comunque di stare al gioco. “D’accordo, come vuoi” risposi, sorridendo.

Siobhan stava preparandosi a godersi lo spettacolo del sottoscritto che si rendeva ridicolo in mezzo alla pista quando, afferrandola per un braccio, la trascinai con me.

“Tu, però, balli con me”.

 

 

Mi ritrovai in mezzo alla pista da ballo senza nemmeno sapere come ci ero arrivata. Doveva essere stato Keith. Mi aveva ingannata. Beh, me lo meritavo, in fondo. Avevo esagerato con la faccenda del ballo.

“Questa me la paghi, Superman dei miei stivali” ringhiai, tra i denti, mentre facevo del mio meglio per tenere il tempo con i piedi, pur non conoscendo nemmeno un passo.

Keith scoppiò a ridere e io rimasi, mio malgrado, incantata dal suo fantastico sorriso. Era felice, sereno. Non ricordavo di averlo visto così radioso dai tempi delle nostre scaramucce da ragazzini.

Sorrisi anch’io e cercai di lasciarmi andare, facendomi trasportare dalla musica e sperando che, complici i vistosi cappelli tutti identici, nessuno ci riconoscesse.

 

 

Mi voltai a osservarla, mentre ballava, e la trovai più bella che mai. Nonostante fossero per la maggior parte coperti dal buffo cappello rosa di paillettes, alcune ciocche di capelli castani le cadevano sul viso, danzandole davanti agli occhi. Quella sera indossava un paio di jeans scuri, portati dentro agli stivali marroni, e un maglioncino rosa, da cui spuntava il colletto di una camicia a quadretti verdi e rosa. Pur restando molto sobria, si era concessa un filo di trucco e una linea di matita nera le sottolineava il contorno degli occhi. La trovavo fantastica anche con gli scarponi da lavoro, ma quella leggerissima trasformazione la rendeva semplicemente perfetta.

Mentre ero perso in contemplazione, la musica cambiò. La band aveva deciso che era arrivata l’ora dei lenti e attaccò con una vecchia canzone d’amore in perfetto stile country.

Siobhan si voltò a guardarmi, imbarazzata, e fece per allontanarsi dalla pista da ballo.

Rispondendo a un impulso, la trattenni per un braccio e la attirai a me, fino a stringerla tra le mie braccia. La ragazza si irrigidì all’istante.

“Keith, no…ci guardano tutti” mi supplicò, timorosa.

Le rivolsi un sorriso rassicurante.

“Tranquilla, non ci noterà nessuno. Soltanto un ballo”.

Sulle prime, Siobhan abbozzò qualche passo incerto, poi la sentii rilassarsi, abbandonandosi tra le mie braccia e lasciandosi guidare completamente da me. Quando appoggiò la guancia sulla mia spalla, chiusi gli occhi e affondai il viso nell’incavo della sua spalla, respirando il suo profumo. Era inutile. Per quanto ci provassi, non riuscivo a staccarmi da lei. Era al centro dei miei pensieri e mi faceva sentire completo, realizzato. Non importava quando e non importava come, l’avrei riportata da me, l’avrei convinta a riprovarci. Eravamo destinati a restare insieme, come faceva a non accorgersene?

 

 

Mi strinsi a Keith, aggrappandomi alla sua camicia, nella speranza di trovare la forza di portare a termine quel ballo, e mi stupii di riuscire a seguire il ritmo della melodia senza troppa fatica. Le braccia di Keith mi guidavano, tutto quello che dovevo fare era seguirlo. Chiusi gli occhi e sospirai. Quel momento sarebbe stato perfetto se lui non fosse stato famoso. Diceva di amarmi e volevo credergli. Cosa provavo io per lui? Non sapevo dare un nome a quel sentimento, ma se lo sfarfallio che sentivo nello stomaco ogni volta che mi si avvicinava significava qualcosa, allora doveva essere qualcosa di grande, perché mi sentivo quasi svenire e perdevo completamente il controllo delle mie facoltà mentali.

La musica si interruppe di colpo e tutti iniziarono a fare il conto alla rovescia per mezzanotte.

“Dieci…nove…otto…”

Keith sembrava non volermi lasciare andare e io, d’altro canto, non mossi nemmeno un muscolo per allontanarmi da lui. Restammo a fissarci, persi una negli occhi dell’altro, come due quindicenni al primo appuntamento.

“…sette…sei…cinque…”

Lentamente, Keith si avvicinò al mio viso e mi sorrise.

“Lasciami essere il tuo Superman, stanotte”.

Come in un sogno, ricambiai il sorriso, e sussurrai “Solo se io posso essere la tua Lois Lane”.

“…quattro…tre…due…uno…AUGURI!!!”.

Le nostre labbra si incontrarono e il momento divenne veramente perfetto.

 

 

Allo scoccare della mezzanotte, il frastuono nel locale divenne insostenibile. Tutti saltavano, urlavano, cantavano, si scambiavano auguri ad alta voce e scattavano fotografie e raffica. Io e Siobhan eravamo ancora abbracciati sulla pista, le mie labbra incollate alle sue, persi nel nostro perfetto mondo da sogno, quando fummo colpiti in pieno dal potente flash di una macchina fotografica.

“Foto perfetta per l’articolo sulla festa nel giornale di domani” commentò un ragazzo dai capelli rossi, con il cappello blu di paillettes storto sulla fronte.

Prima che riuscissi a rendermi conto di quello che stava succedendo, sentii Siobhan irrigidirsi e tentare di liberarsi dal mio abbraccio.

“Sio, aspetta” farfugliai.

“Devo andare” disse lei, spaventata “Anzi, non sarei mai dovuta venire”.

La vidi correre verso l’uscita e feci per seguirla, ma il flash mi aveva annebbiato la vista e inciampai in un oggetto rimasto sul pavimento, perdendola di vista, tra la folla. Abbassai lo sguardo, per capire cos’avesse arrestato la mia corsa, e trovai un capello rosa luccicante. Il cappello di Siobhan. Doveva averlo perso mentre fuggiva via. Lo raccolsi e, pur immaginando fosse ormai inutile, mi diressi, a passo spedito, verso l’uscita. Una volta fuori, mi guardai intorno, nella vana speranza di scorgere la figura di Siobhan, nell’oscurità, o, almeno, la sagoma della sua auto parcheggiata di fronte al locale. Niente. Se n’era già andata. Non avevo fatto in tempo a fermarla. Sospirai. Lo shock di quel flash in piena faccia doveva averle fatto realizzare di colpo come sarebbe stata la sua vita insieme a me e si era spaventata a morte. Guardai il buffo cappello rosa che stringevo tra le mani e, improvvisamente, lo trovai tristissimo. Sembrava che tutto andasse benissimo, invece…. Siobhan era scappata di nuovo. L’avevo persa e, questa volta, ero certo che non sarei più riuscito a riconquistarla.

 

 

Salii di corsa i tre gradini che conducevano alla porta d’entrata di casa mia e iniziai a trafficare con la chiave, faticando a inserirla nella toppa. Quando, finalmente, ci riuscii, mi fiondai dentro, richiudendomi pesantemente l’uscio alle spalle. Senza riflettere, andai a rifugiarmi in camera mia. Premetti l’interruttore, inondando la stanza di luce, e svegliando, così, bruscamente, il povero Marty.

“Che diavolo…?” farfugliò, coprendosi gli occhi con una mano.

“Oddio! Scusa, Marty, me ne vado” dissi, premendo nuovamente l’interruttore e facendo ripiombare la stanza nella semi oscurità.

“Sio, sei tu?” chiese il mio amico, stupito.

“Sì”.

“Che ci fai già a casa?”

“Io…” farfugliai, ma le parole mi morirono in gola e, senza riuscire a controllarmi, scoppiai a piangere come una bambina.

Martin si rizzò immediatamente a sedere, spaventato.

“Sio, vieni qui a sederti” disse.

Non me lo feci ripetere due volte e corsi a buttarmi sul letto, tra le braccia di Martin, che iniziò ad accarezzarmi la testa, cercando di farmi calmare.

“Che è successo, cucciola? Chi ti ha ridotto così?” chiese il mio amico, dolcemente.

Mi asciugai le lacrime con il dorso della mano e presi fiato, accorgendomi, per la prima volta da quando avevo lasciato il locale, di avere il fiatone.

“Keith…”

“Keith?!??” sbottò Martin, infuriato.

Scossi la testa. “No, non è colpa sua!” mi affrettai a precisare.

Martin sospirò di sollievo. “Meno male” disse, più calmo e, facendomi sdraiare accanto a lui, mi spronò “Su, raccontami tutto con calma, adesso, e vedrai che troveremo una soluzione”.

Sentendomi al sicuro, tra le braccia del mio amico, appoggiai la testa sul suo petto e iniziai a ripercorrere gli eventi della serata.

 

  
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