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Autore: Sorella_Erba    01/09/2009    5 recensioni
Strambi sviluppi di una comune (non) coppia gay. E poi dicono che i ricchi non hanno i loro dilemmi.
Accenni slash; relazione m/m.
Prima classificata al contest Dillo con un post-it!, indetto da Caith.Rikku sul Collection of Starlight.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autore: Sorella_Erba/kikka91.
Titolo: Big cheese.
Fandom: originale.
Genere: sentimentale, romantico.
Rating: PG 13.
Warning: one-shot, lievissimi accenni slash.
N/A: posso cominciare dicendo che sono felice di aver partecipato a questo contest? xD M'è ritornata l'ispirazione e anche quella stramba voglia di scrivere che ho perso, perdendomi a mia volta in fandom troppo 'stretti', limitativi. La bellezza dello scrivere originali, in fondo, è proprio quella di poter spaziare con la fantasia; e l'ho fatto - o almeno, ho provato a farlo. Il risultato mi piace abbastanza (fino a ieri ne ero entusiasta xD oggi un po' meno, quindi meglio inviarla subito e non pensarci perché finirebbe male, decisamente male).
Ah, puntualizzo una cosa che potrebbe davvero far ridere. Il titolo. No, non è in questo caso "grande formaggio", anche se l'ho seriamente pensato prima di leggere la traduzione. Son due paroline che appartengono al linguaggio confidenziale inglese e solitamente si usano per indicare una "very important person", citando un dizionario di slang. Ora, so che una traduzione probabile può essere "pezzo grosso", ma preferisco pensarla a modo mio, dandogli un significato più dolce.
Grazie a Giù per averla letta ed avermi dato il suo rapiderrimo parere, l'altra sera. E grazie pure a - a-ehm... - Matthew Mitcham per aver ispirato il personaggio che prende il suo nome. "Se non possiamo direttamente scrivere su di lui, allora lo faremo indirettamente. Eccazzo (8)".
Un bacio a Giù e a Val, che mi hanno dato i loro pareri con sincerità <3
E... ayuh! Prima classificata al contest Dillo con un post-it, indetto da Caith.Rikku sul Collection of Starlight (forum che sarei felicissima se visitaste ;) magari ci si becca lì!). Sono davvero contenta per il giudizio:  è una storia, questa, su cui lavorerò quasi certamente anche in futuro, con maggior serietà.





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Big cheese.
 
Non è che Luke fosse allergico alla luce del sole, anzi: attendeva con trepidazione le giornate di sole per correre all’aria aperta e fare del sano sport, che fosse jogging solitario al ritmo delle sue canzoni preferite o, se in compagnia, una partita di pallacanestro al campo pubblico. L’unica cosa che, davvero, non aveva la bontà di tollerare, era la capacità dei raggi solari di filtrare attraverso le microscopiche fessure delle tende che aveva appositamente sistemato sulle finestre della camera da letto affinché il giorno non lo disturbasse nelle ore di riposo.
Luke era un tipo abbastanza dinamico, vivace: amava la bella vita, il suo lavoro e star fuori con gli amici fino ad orari che sua madre avrebbe additato come indecenti. Fortunatamente, aveva una casa sua e viveva da solo, e da tale poteva godersi le sue splendide stanze nel Trump World Tower e agghindarle a festa quando aveva l’insana voglia di dare un party. Lo spazio c’era, la buona compagnia anche, i soldi di certo non mancavano.
Luke poteva dirsi più che soddisfatto della piega che aveva intrapreso la sua vita da ventisettenne scapolo e ricco sfondato. Il lavoro presso la sede newyorkese della compagnia di sponsor della Nikon, offertogli da un amico di famiglia in seguito alla laurea in discipline economiche, adesso gli concedeva uno stipendio annuo che avrebbe fatto girare la testa a chiunque non avesse dimestichezza e familiarità con cifre tanto esorbitanti, ed in effetti Luke era quasi crollato dalla poltrona per via di un capogiro alla notizia della sua promozione a manager di quasi un anno prima. « Complimenti », gli aveva detto il suo ex supervisore, stringendogli la mano e consegnandogli la sua bella targa da mettere in mostra sulla scrivania del suo nuovo ufficio.
Suo. Interamente suo.
Il passato era un lavoro da gavetta in un’azienda amministrata da ricconi eleganti e raffinati, il presente una tonnellata di dollari e di vizi. E di qualcos’altro che, con tutta la faccenda dei milioni di dollari e dell’ottimo posto di lavoro e della bella casa, non aveva nulla a che fare; o quasi.
Luke aveva conosciuto Matthew in un pomeriggio feriale, nella sala delle riunioni dell’azienda. Gli era stato presentato come “il nuovo volto degli sponsor!”, “colui che ha ottenuto un record sbalorditivo agli ultimi Commonwealth Games!” e, più concisamente, “l’Asso”. Ma a guardarlo bene, con i suoi centosettantacinque centimetri di altezza e il fisico mingherlino e sinuoso, sotto quel completo elegante che poco gli si addiceva, Matthew Marlowe non gli era sembrato poi così atleta. Specie per quell’espressione allegra che sfoderava puntualmente quando qualcuno gli si rivolgeva per domande o complimenti.
« Piacere », aveva sussurrato nel momento in cui Luke gli aveva porto la mano per presentarsi. E una sensazione quasi elettrica, magnetica, aveva risalito il braccio e scosso le spalle di Luke per un istante. Si era osservato la mano, poi, mentre i suoi colleghi si avvicinavano al campione e lo allontanavano con cortesi pacche, ed aveva pensato che, forse, quella sorta di guizzo all’arto era dovuto alla precedente stretta. Stupidamente, si era detto alla fine, ghignando fra sé. Eppure, solo dopo una settimana, aveva preso con decisione il cellulare e lo aveva chiamato. Un caffè, quattro chiacchiere, ti va?, per conoscerci meglio. Per diventare amici. Ma, effettivamente, non era ciò che aveva avuto in mente sin dal principio, Luke. E la voce suadente che aveva affettato per invitarlo ne era la conferma. Da lì, si erano susseguiti svariati appuntamenti nei più costosi ristoranti di New York, tutti che riversavano in notti confuse e incerte a sfiorarsi ingenuamente – almeno per quel che riguardava Luke – e a boccheggiare al più profondo contatto.
Matthew era la prima esperienza omosessuale di Luke, e nessun altro, all’infuori dei due, ne era a conoscenza.
La sessualità di Matthew era venuta definitivamente a galla all’età di sedici anni, durante una lezione pomeridiana particolarmente noiosa di matematica. Il professore di ripetizioni, per cui solo più tardi capì di aver preso una cotta tremenda ed inspiegabile, avrebbe potuto avere solo pochi anni più di lui. Era scuro di capelli e di carnagione, e aveva un taglio d’occhi particolare, quasi a mandorla. In altre parole l’opposto di Matthew, la cui innocenza traspariva dal semplice accenno di sorriso, e una persona alquanto simile a Luke, soprattutto per via del carattere. Tronfio, fanfarone, con un’aria perennemente scocciata impressa sul viso.
Proprio come lo sbuffo che aveva interrotto il suo lieve russare. 
Luke si era svegliato fra un groviglio di coperte che gli teneva le gambe intrappolate in una morsa molesta; i deboli raggi del sole, quasi a farlo di proposito, s’infrangevano esattamente sui lineamenti corrucciati ed assonnati del suo viso, mentre stringeva le palpebre per il fastidio.
« Ma che cazzo », proruppe rauco, puntellandosi sui gomiti. Passò due dita sul mento ruvido di barba, in lente carezze, prima di stropicciare gli occhi con le nocche delle mani. Nel tentativo di districarsi da quel ginepraio di lino, un piede andò a cozzare contro qualcosa di solido che stava disteso lì accanto. Seguì un mugugno sommesso e il fruscio di movimenti leggeri sotto le coperte. Luke osservò con attenzione ogni minima movenza del bianco lino che rivestiva il suo letto disfatto, lo sguardo confuso e aggrottato.
« Oh merda! ».
Un’esclamazione che esprimeva appieno e a gran voce il suo ultimo pensiero.
Luke si portò un braccio sul volto, a coprire gli occhi chiusi, mentre da sotto la trapunta balzava a sedere il corpo di Matthew, i pugni stretti sulle guance paffute, gli occhi spalancati in un’espressione di panico. Girò la testa in direzione del comodino, dove svettava quieto un orologio di Paperino, il quale, con aria estatica, sbatacchiava la coda in plastica ad ogni secondo trascorso.
« Oddio, Luke, oddio », pigolò affannato, artigliandolo per il braccio e cominciando a strattonarlo. « Che giorno è, eh? Che giorno è? ».
Luke sbuffò irritato, strappandosi a quella morsa. « Miseria, la finisci? È appena mattina ».
« Voglio sapere quale giorno, non il momento della giornata! ».
« Sabato, credo… sabato », brontolò Luke, e si girò sul fianco, mostrandogli l’espressione assopita.
Matthew ringraziò con un’imprecazione soffiata a mezza voce, spingendosi col busto su di lui per scavalcarlo e poter prendere il suo cellulare, sistemato accanto all’abat-jour sopra l’altro comodino.
« Palle, Matt… e levati! », sentì sotto di lui. Un pugno leggero lo colpì al fianco, mentre controllava la data sul display e, con un sospiro di sollievo, rimetteva l’accessorio nell’esatta posizione in cui lo aveva trovato.
« Meraviglioso, oh che bello ». Portò le mani alla testa, immergendo le dita fra gli scompigliati capelli biondi, lasciandosi andare ad un altro sbuffo liberatorio. Abbassò poi gli occhi sul corpo sotto di sé, un sorriso vago che gli incurvò all’improvviso gli angoli della bocca. Apparentemente, sembrava che Luke avesse ripreso a dormire, l’aria angelica che gli addolciva i tratti armoniosi del viso; ma Matthew sapeva che stava soltanto fingendo. Si chinò a mordicchiargli un orecchio, dolcemente, e per risposta ottenne una concisa invettiva delle sue, preceduta da un solenne “vaffanculo”.
« Hai ufficialmente rotto. Non solo mi svegli con un brusco attacco isterico, mettendoti a strillare come una femmina sverginata, ora devi pure leccarmi un orecchio! Che c’è, vuoi litigare? ».
« Che coglione. Chi ha svegliato chi? Il calcio non me lo sono tirato da solo! E mi rincresce, signor Dollaro Facile, ma non tutti godono dei tuoi stessi privilegi ».
Matthew si tolse da sopra di lui e scese dal letto, stizzito, non senza avergli assestato prima una pedata, correndo il rischio di rompersi l’osso del collo con una gran caduta.
« Ritorna a dormire, se vuoi », dichiarò laconico. Ma Luke non era il tipo che lasciava cadere un discorso simile; non se, soprattutto, gli era appena stata lanciata un’offesa.
« Cos’hai detto? ».
Matthew, tuttavia, si era appena dileguato dalla stanza in fretta e furia, i jeans e la maglietta arrotolati malamente fra le braccia, sparendo oltre la cornice della porta.
Luke inveì ancora, alzandosi risoluto dal letto. Riuscì per miracolo a togliersi di dosso l’ammasso di coperte e, una volta in piedi, prese dal pavimento un paio di boxer che avrebbero dovuto essere i suoi. Ecco uno dei problemi dello scoparsi un uomo, si disse mentalmente: incorrere nell’errore di infilarsi le sue mutande. Batté il palmo contro il legno della porta già aperta e si affrettò a seguirlo in cucina.
« Se vado io al lavoro in ritardo, non mi danno una targa scherzosa con su scritto “dirigente più svogliato”, no! », riecheggiava intanto fra le pareti della casa, « mi riservano solo due belle paroline. Sei. Licenziato ».
« Che caz… Mi stai dicendo che non faccio il mio lavoro come si deve? », attaccò lui, alzando la voce, una volta entrato nella stanza più piccola di casa sua. « Che sto a grattarmi le palle quando siedo alla mia scrivania? Che è semplice? Se non fosse per me, piccolo stronzetto rancido, tu e il tuo stretto culo non sareste dove siete ora! Non su un cartellone pubblicitario grande quanto questo palazzo! E posa il mio tè alle erbe, bastardo ».
Matthew dovette mordersi la lingua per non ribattere. Inspirò pesantemente, gli occhi chiusi, le ciglia tremanti. Riacquistò la calma lentamente, ad ogni istante di silenzio teso che passava. Prese un bicchiere dalla mensola che aveva accanto e lo riempì a metà di tè, gustandolo inizialmente con calma, per poi bere in pochi, lunghi sorsi il contenuto restante.
« E questo è tutto quello che hai fatto per me sinora? », domandò, la voce trattenuta, evitando accuratamente di incrociare il suo sguardo.
Luke, che l’aveva osservato accorto, quasi vigile, stando appoggiato a braccia incrociate alla parete divisoria della stanza, ostentò un’espressione sorpresa.
« Cos’altro vuoi? ».
Matthew dischiuse le labbra. Poi annuì, gli occhi bassi e un sorriso storto sulle labbra.
« Bene. Bel coglione ».
Finì di vestirsi, indossando la maglietta e regalando un’occhiata fugace ai jeans che aveva addosso. « Cazzo. Le mutande ».
Sospirando, sorpassò con passi decisi Luke, immobile, il peso del corpo ancora sostenuto dal muro. La carezza di quel veloce spostamento d’aria gli sfiorò il viso in una folata fredda. Luke chiuse gli occhi, stropicciandosi le palpebre con due dita e trattenendo a stento un’imprecazione che gli morì  in un soffio fra le labbra socchiuse.
Non era la prima volta che litigavano, lui e Matt. Sembrava quasi un passo d’obbligo, una scena consueta che doveva ripetersi ad ogni loro incontro, un’abitudine difficile da abbandonare. Erano diversi come il giorno e la notte, in effetti. Luke era sì un tipo passionale, ma la violenza del suo sentimento non collimava con la dolcezza dei gesti che possedeva Matthew, se non nei momenti d’intimità. Era allora che Luke pensava seriamente di non desiderare altro dalla vita che quel corpo agile e caldo sotto il suo. No al denaro, all’ottima posizione di lavoro. Che senso poteva lontanamente avere tutto quello senza lui?
Se lo ripeté anche in quel momento – un momento decisamente diverso da quelli che dedicavano al sesso. Non c’erano né la passione né l’ebbrezza, solo un istinto iracondo che bolliva assieme al sangue nelle vene.
« Arrivederci. E grazie per la scopata ».
Luke torse il collo quel tanto che gli bastava per intravedere la figura longilinea di Matthew in ginocchio sul pavimento a finire di allacciarsi le scarpe da ginnastica.
« Sei un cazzone ».
Tutto ciò che Luke udì fu lo scatto della porta e le sue parole che risuonavano rabbiose nel silenzio della casa nuovamente vuota.

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Non credeva di reggere tanto, sul serio. All’astinenza.
Luke non aveva mai oltrepassato la soglia delle tre settimane, e pensare che un mese stava quasi per volare via dall’ultima volta che aveva sfilato un paio di boxer dai fianchi sottili di Matthew lo faceva crollare in un baratro nero di depressione.
A nulla era valso l’appuntamento di qualche sera prima con la nuova collega, trasferitasi da Albany da circa una settimana.
Era stata lei a fare tutto: gli si era avvicinata, l’andatura provocante, per presentarsi; avevano scherzato, riso ed infine, con una sfacciataggine adorabile, lei gli aveva chiesto il numero di telefono. Sai, così, per conoscerci meglio. Luke le aveva sorriso compiaciuto ed aveva accettato. Tempo due giorni e già erano fuori per le strade più conosciute di New York, diretti al 21 Club, uno fra i posti preferiti da entrambi. Avevano una marea di cose in comune, aveva pensato Luke durante la cena, e poi lei aveva una risata così bella e delicata. Tutto era filato alla perfezione fino alla fine. Lei era arrivata addirittura ad invitarlo a salire su, a casa sua, dopo averla riaccompagnata in taxi. « No, Dakota, mi dispiace. Ho altro per la testa al momento ». Inutile aggiungere che entrambi ne furono spiazzati.
E ora Luke si teneva la testa fra le mani, guardando dai vetri del suo ufficio lo spettacolo di una metropoli in movimento.
Si era rammollito.
Un uomo come lui, della sua stazza, della sua importanza, si era rammollito. E questo unicamente per colpa di un ragazzo senza altri meriti che l’aver portato la sua nazione ad abbattere un record mondiale del cazzo per i cento metri in stile libero.
Il cellulare vibrò per pochi istanti sul legno pregiato della scrivania. Svogliatamente, Luke si risistemò in posizione eretta, pronto a rispondere con voce sicura ad una chiamata di lavoro. Quando accese il display del telefonino non trovò alcuna traccia di chiamate; solo, l’avviso di un messaggio. Fu allora che sentì il cuore salire come un groppo alla gola. A stento deglutì. Era certo, quasi certo che si trattasse di lui.
“Guarda nel portafogli”, diceva il messaggio. Inviato da: Matthew Marlowe.
Luke spalancò gli occhi e, con una velocità da forsennato, si alzò dalla poltrona e corse verso l’appendiabiti vicino alla porta. Frugò nella tasca interna del lungo cappotto e ne fece uscire il portafogli in pelle nera. Non che fino ad allora Luke non l’avesse più aperto, ma non aveva mai fatto caso a quel foglietto giallo di post-it ripiegato in due che formava un’orecchia sul bordo sopra cui era rimasto curvato. Lo staccò e lo spiegò. Al suo interno c’era segnato con una calligrafia veloce e schiacciata un indirizzo.
1472 Myrtle Avenue, New York, NY”.

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« Se non fossi venuto… ».
« Sarebbe finita male? ».
« Sì, credo di sì ».
« Però ci sono ».
Fino ad allora, Luke avrebbe detto che non c’era niente di più bello al mondo dell’appagamento dato da un successo in campo lavorativo. Si era sbagliato di grosso per ben ventisette anni di fila. Il sorriso di Matthew, in quell’istante, era qualcosa di assolutamente indescrivibile, per quant’era bello e luminoso. Ne rimase abbagliato.
« Ero sicuro che con te non sarebbe stato per nulla facile. Sei una testa di cazzo irascibile, fin troppo orgoglioso ».
Silenzio.
« Non sapevi nemmeno dove diamine abitassi né… niente. A parte i miei successi nel nuoto, non sai nulla di me ».
« Perché allora mi hai cercato? ».
« Mi sto innamorando di te ».
Luke sorrise a sua volta. Ma non il suo solito ghigno da strafottente, no. Era un sorriso quasi imbarazzato, incerto.
« Mi faresti entrare? Magari mi offri un caffè e facciamo quattro chiacchiere. Tanto per conoscerci meglio, sai ». 
Quella volta, il caffè, lo presero sul serio e rimasero a chiacchierare per molto, prima che Matthew non lo invitasse a dare un’occhiata alla sua modesta dimora e non lo facesse distendere dolcemente sul letto.
   
 
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