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Autore: edoardo811    14/09/2021    5 recensioni
Naito è un mezzosangue che ha trascorso la propria vita in fuga, senza un posto dove stare, una casa che lo accogliesse, una famiglia che lo accettasse. Questo perché non è un mezzosangue come gli altri, non è un semidio: è il figlio di un demone e di una mortale.
Rimasto da solo, consumato dal rimorso e pentito per gli errori commessi, comincerà un viaggio tra le montagne del Giappone alla ricerca dell'Elisir di lunga vita: qualcosa che mai nessuno prima è riuscito a trovare. Insieme a una vecchia conoscenza cercherà di riabilitare il suo nome e quello di tutti i mezzosangue come lui. Soli, abbandonati e spaventati. Come un tempo anche lui era.
«Chi sono i tuoi genitori?»
«Mia madre si chiamava Akane Itomi.»
«E tuo padre?»
«Non lo so… non mi ha mai parlato di lui.»

[Mitologia giapponese]
Genere: Angst, Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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11

Il Santuario Meiji

  

 

Gli incubi non l’avevano mai abbandonato davvero, ma quella volta fu molto peggio di tutte le precedenti. Un senso di disperazione e di tristezza che soltanto quando aveva perso sua madre lo assalì, mentre scene orribili scorrevano di fronte a lui. 

Hachidori in lacrime. Hachidori a terra. Hachidori senza un braccio. Hachidori con una lama puntata alla gola. 

E lui che non poteva fare niente per salvarla.

Un dolore lancinante lo accompagnò non appena riaprì gli occhi. Lo sentiva al volto, allo stomaco, al petto. 

Soprattutto al petto. Era atroce, insopportabile. E non era dovuto ad una ferita, o ad uno dei pugni che aveva ricevuto. Era qualcosa di molto diverso, e perfino più agonizzante. Si accentuava ogni volta che pensava a quello che era successo, soffocandolo.

Si guardò attorno, realizzando di trovarsi dentro uno stanzino di pietre. Era seduto a terra, aveva le gambe libere, le braccia invece erano immobilizzate, i polsi legati da delle catene a degli anelli incassati nella parete. 

«Questa volta l’hai fatta grossa» disse una voce all’improvviso.

Naito abbassò lo sguardo, accorgendosi di Chioiji che lo osservava dal centro della stanza. Lo tsuchinoko fece vibrare la lingua. «Non capisco proprio perché il padrone non ti abbia ucciso.»

«Levati di torno» sibilò Naito, per poi sferrargli un calcio. Non riuscì a raggiungerlo, era troppo distante, ma riuscì comunque a fargli prendere un bello spavento. 

Chioiji saltò da terra con un grido, ritirandosi ancora di più. «L-La smetterai di fare così, mezzosangue! Presto avrai la lezione che ti meriti!»

Per tutta risposta, Naito strattonò le catene con un grido, facendolo fuggire via terrorizzato dalla porta. «Liberatemi! LIBERATEMI!» urlò, dimenando i polsi. «HIKARU! OROCHI! FATEMI USCIRE, BASTARDI!»

Nessuno rispose. Continuò a urlare e a strattonare le catene senza alcun risultato, mentre quel dolore al petto cresceva a dismisura dentro di lui, mischiandosi con una rabbia accecante. 

Non seppe per quanto tempo andò avanti in quel modo. Sapeva solo che avrebbe voluto distruggere quel luogo mattone dopo mattone, uccidere chiunque si trovasse sul suo percorso e correre da Hachidori, pregando che fosse ancora raggiungibile e, soprattutto, viva.

Quando riaprì gli occhi nuovamente, realizzò di aver perso di nuovo i sensi. Non c’erano finestre, quindi non poteva sapere se fosse giorno, o notte. Non sapeva nemmeno se si trovasse ancora alle rovine di Takeda, in realtà. Digrignò i denti, tirando di nuovo le catene. Non riusciva a credere che bastasse così poco per tenerlo imprigionato. Aveva distrutto interi edifici a mani nude, come potevano delle semplici catene intrappolarlo così? Forse erano opera di Hikaru.

Piegò i polsi, tentando di farli scivolare tra gli anelli, ma erano troppo stretti. Con un altro grido frustrato, sbatté un piede a terra. «Liberatemi…» sussurrò, avvertendo un’altra dolorosa fitta al petto. «Hachidori…»

Un rumore di passi lo fece raddrizzare. Hikaru entrò nella stanza proprio in quel momento, con l’aspetto di donna mortale. Lo scrutò dall’alto per diversi istanti, senza dire nulla, con espressione indecifrabile. L’ultima cosa che Naito ricordava della kitsune, era lei che si avventava su di lui circondata dalle fiamme. E soprattutto ricordava di lei mentre tentava di soffocare Hachidori. 

«Liberami…» sibilò, con voce carica di odio. 

«Sai bene che non posso farlo, Naito-ku…»

«NON CHIAMARMI COSÌ!» tuonò lui. Per un istante, Hikaru perse la sua compostezza. «È tutta colpa tua…» proseguì Naito, con un rantolio. «Quando sarò libero, ti ucciderò, Hikaru. Ti mozzerò le code una per una e ti caverò gli occhi.»

La donna fece una smorfia infastidita. «Smettila con le minacce, Naito. Se sei in questa situazione è solo colpa tua. Ho provato ad avvertirti, ma non hai ascoltato.»

Naito strinse i denti. Non aveva idea di che cosa stesse blaterando e non gli importava. Voleva solo strapparle quella maledetta lingua. 

«Ora datti un contegno. Orochi ha voluto darti un’altra possibilità, faresti meglio a sfruttarla.»

Quando udì quel nome, Naito si irrigidì. «Dov’è adesso?» rantolò, desideroso di incontrarlo per sputargli in un occhio e poi tagliargli la gola. 

«Nello Yomi. Tornerà questa sera.» Hikaru portò le mani dietro la schiena. «Perciò approfitta di questo tempo per calmarti, se non vuoi che ti uccida.»

Un ghigno nacque sul volto di Naito, ma solo perché l’alternativa sarebbe stata urlare ancora più forte. «Mi farebbe solo un favore.»

«Hachidori era così importante da farti desiderare di essere ucciso?»

Il tono con cui gli rivolse quella domanda lo infastidì, come se le avesse appena detto una follia. «Sì» rispose, con un ringhio. «Sì, lo era. Ed era anche molto più importante di tutti voi e della vostra stupida guerra.»

Hikaru scosse la testa. «Non hai idea della gravità delle tue parole, Naito.»

«E tu non hai idea di cosa io stia passando» replicò Naito, affondandosi le dita nei palmi. «Perciò taci. Non hai alcun diritto di rivolgerti a me così.»

«Ti sbagli. Lo so invece.»

La rabbia si ritirò all’improvviso da dentro di lui, per far spazio allo stupore. Tra le migliaia, milioni di risposte che si era aspettato di sentire, quella era in assoluto l’ultima. Per la prima volta da quando la conosceva, Hikaru non sembrò volerlo guardare in faccia. Sembrava… triste. «Anch’io ho conosciuto una persona, molto tempo fa. Un uomo, mortale. Ma non era come gli altri. Lui… lui era diverso» disse, con voce quasi nostalgica. Si strinse nelle spalle, a disagio, come se quel pensiero le arrecasse dolore. «E quando mi sono resa conto di quello che stava succedendo, quando mi sono resa conto di come il mio cuore battesse in maniera diversa tutte le volte che lo vedevo, vuoi sapere cos’ho fatto?»

Ritornò a fissarlo truce, le sue iridi color ambra si tinsero di un fiammeggiante arancione. «L’ho ucciso. Gli ho strappato l’anima e me la sono divorata. E adesso, ogni volta che chiudo gli occhi, la sua espressione terrorizzata mi perseguita.»

«Ma… perché l’hai fatto?» riuscì a sussurrare Naito. 

«Perché, mi domandi? Perché è la mia natura, ecco perché. Sono una kitsune. E mi nutro delle anime degli uomini. Non esiste che io possa innamorarmi di loro.»

«E non hai pensato che invece… le cose potessero andare diversamente?»

Una fredda risata provenne dalla gola di Hikaru. «In che modo avrebbero potuto, Naito? Ritirandomi con lui in una baita tra le montagne?» Un ghigno sadico le deturpò il viso. «Magari allevando un piccolo mezzosangue come te?»

Naito tacque, mentre lei si voltava verso la porta, i pugni contratti dietro la schiena. «Sono una volpe a nove code, non una moglie, tantomeno una madre.» Gli lanciò ancora un’occhiata sottecchi. «Io so quello che sono. E tu, Naito, che cosa sei?»

Non attese una risposta. Si avviò verso la porta senza dire altro e lasciò la stanza, abbandonandolo. I minuti successivi li trascorse fissando il vuoto, mentre le parole di Hikaru riecheggiavano nella sua mente. 

 

***

 

Scesero la collina, lasciandosi alle spalle le rovine di Hachiōji. Intere pianure e valli ricoperte di palazzi si stagliarono di fronte a loro, a perdita d’occhio. Erano quasi arrivati, ormai. Il cielo era ancora grigio, nuvoloso, era difficile capire che ora fosse ma dopo tutto il tempo passato Naito suppose che fosse ancora pomeriggio. Se si fossero sbrigati sarebbero arrivati prima della sera.

«Yokohama è da quella parte.» L’indice di Hachidori indicò un punto imprecisato nell’orizzonte. «Invece, quella è Tokyo» aggiunse, accennando alla gigantesca macchia di palazzi in lontananza che ricopriva ogni cosa. «Se passassimo di lì prima di andare a Yokohama?»

Naito corrucciò la fronte. «A Tokyo?»

Hachidori annuì. «C’è… un posto che potremmo visitare. Potremmo trovare informazioni utili.»

«Non… non saprei…» mormorò Naito, incerto. «Che posto? E che informazioni, soprattutto.»

«Un santuario dedicato all’imperatore Meiji. Il santuario Meiji, per l’appunto. Panji ha detto che è stato lui a far costruire le Tribune Negishi. Magari possiamo trovare qualcosa in più a riguardo… sempre meglio che andare là all’oscuro di tutto, no?» Hachidori si scostò una ciocca di capelli da di fronte al volto, mentre osservava il cielo. «E poi, presto farà sera, Naito-kun. Non abbiamo alcuna fretta di arrivare, possiamo fare una sosta a Tokyo e andare alle Tribune domattina.»

Naito non era affatto convinto. La sua espressione dovette parlare per lui, perché Hachidori gli lanciò uno sguardo di suppliche. «Oh, dai, Naito-kun! Ti prego!» Si portò la mano di fronte al petto, mentre il mantello si spostava leggermente, come se avesse provato a muovere anche l’altro braccio. «Per favore! Sono stata a Tokyo soltanto una volta… mi piacerebbe molto rivederla. E…» distolse lo sguardo. «… mi piacerebbe… vederla assieme a te.»

Le guance di Naito pizzicarono, mentre lei si osservava i piedi imbarazzata. Un piccolo sorriso nacque sul suo volto. Senza di lei, quel viaggio non sarebbe nemmeno mai esistito. Era grazie a lei se avevano una destinazione, era stata sua l’idea di cercare l’elisir, era stata di enorme aiuto e anche di ottima compagnia. Era giusto che lui ricambiasse il favore, accettando la sua proposta. E poi, aveva ragione, cercare ulteriori informazioni sarebbe stato sicuramente meglio che andare alle Tribune senza avere la più pallida idea di come muoversi. «Va… va bene, Hachidori. Andiamo a Tokyo.»

Lei tornò ad osservarlo sbalordita. «Dici… dici davvero?»

Naito annuì. «Sì.»

«Chi sei tu? Dov’è il Naito noioso e rompiscatole che ho sempre conosciuto?» domandò allora Hachidori, con uno strano tono di voce.

Il sorriso di Naito vacillò. «Davvero… davvero pensi che io sia noioso e rompiscatole?»

«Sei la persona più noiosa che conosco» ribatté lei, afferrandolo per il braccio e sorridendo smagliante. «Forza, sbrighiamoci prima che faccia buio!»

«Ma… ma…» Le proteste di Naito non vennero ascoltate. Hachidori cominciò a trascinarlo lungo la collina a passo spedito.

 

***

 

Naito aveva sempre visto quelle gigantesche città da lontano. Kyoto, Osaka, Nagasaki e la stessa Tokyo, ma non era mai stato in mezzo ad una di esse. Soltanto in occidente aveva trascorso del tempo a San Francisco e a New York, ma non si era sempre concentrato sul suo dovere, non era mai andato a passeggio in mezzo alle strade e ai mortali come invece fece quella volta.

La sensazione che stava provando era indescrivibile. Era combattuto tra il desiderio di fuggire il più lontano possibile da lì e non voltarsi più indietro e, allo stesso tempo, quello di passarci più tempo possibile, per continuare ad ammirare quei palazzi immensi, quelle luci multicolore e quei paesaggi meravigliosi.

E soprattutto, per godersi il calore della mano di Hachidori stretta attorno alla sua. Sentiva il cuore battergli all’impazzata nel petto e le guance in fiamme, mentre lei lo guidava tra le vie gigantesche di Tokyo. Le uniche volte che gli lasciava la mano, erano per indicargli qualcosa che catturava la sua attenzione, per poi cercarla di nuovo rapida, quasi come se temesse che lui potesse scappare via come un cucciolo terrorizzato dal chiasso di quel luogo.

Era una paura legittima, in realtà, ma si sarebbe premurato di non farglielo mai sapere.

C’era tantissima gente, nonostante il periodo dell’anno. Le strade erano straripanti di persone, abitanti del luogo e non. I turisti la facevano da padroni, come sempre, ma ormai Naito nemmeno ci faceva più caso ai loro schiamazzi e ai loro cellulari.

All’inizio l’idea di camminare in mezzo ai mortali l’aveva messo a disagio, ma più passava il tempo più si rendeva conto che a nessuno importava niente di loro due. La Nebbia li aveva coperti completamente, mischiandoli assieme a loro e spacciandoli come semplici ragazzi umani.

I veicoli mortali passavano accanto a loro a singhiozzi, cercando di districarsi in mezzo al caos. Automobili e autobus, così si chiamavano. Li aveva già visti tante volte, ma non era mai stato a bordo di uno di loro. Si domandò cosa si provasse. A giudicare da come i loro conducenti faticassero perfino a fare un metro, probabilmente non doveva essere una bella sensazione.

Ogni angolo, ogni incrocio, ogni punto in cui guardava era un’esplosione luci e suoni. Scritte, immagini, disegni, insegne, tutto si mischiava in un turbinio di colori sgargianti. Quando Hachidori gli disse che essendoci ancora luce naturale molte ancora nemmeno erano accese, lui faticò a crederci. Stando alle sue parole, quella città di notte assumeva tutto un altro volto.

La cosa più sorprendente, era la quantità incalcolabile di paesaggi diversi. Si passava da punti completamente civilizzati fatti di vetro, acciaio e cemento a luoghi più tranquilli, giardini, alberi, edifici rustici di legno e lanterne di carta al posto dei lampioni di ferro. Vide anche una gigantesca torre, rossa e appuntita. Hachidori gli disse che era un’antenna, per mandare segnali in ogni angolo del mondo attraverso l’aria, con delle onde elettromagnifiche. Da come glielo spiegò, sembrò che avesse imparato la definizione a memoria senza capirci davvero qualcosa. Di sicuro, lui non ci aveva capito niente.

I palazzi più alti, i grattacieli, sovrastavano ogni cosa, torreggiando come giganti su di loro. E allo stesso tempo, anche loro sembravano insignificanti se paragonati al monte Fuji in lontananza, poco visibile a causa del cielo nuvoloso, ma comunque presente in tutta la sua grandezza.

Camminarono a lungo, rimanendo l’uno accanto all’altra, le mani unite, e più tempo passavano così, più Naito scopriva di sentirsi… bene. Il disagio iniziale era svanito, rimpiazzato da una dolce e calma sensazione di pace.

«Da questa parte, Naito-kun» disse Hachidori, accennando con il mento ad una molto meno affollata. Erano arrivati ad una zona quasi priva di persone, o di automobili. Un luogo residenziale, stando alle parole di Hachidori. Ai turisti non importavano molto quei posti, loro erano più attratti dal caos, le luci e il chiasso dei quartieri centrali. Lì, invece, trovarono villette, veicoli parcheggiati, alberelli e soprattutto silenzio. Le sue orecchie faticarono ad accettare tutta quella quiete dopo il tempo trascorso nel cuore della capitale.

Naito si voltò verso la compagna, ritrovandosi a sorridere senza nemmeno rendersene conto. Strinse la mano con più forza, e lei se ne accorse. Si voltò e i loro sguardi si incrociarono. Naito distese il sorriso e lei lo ricambiò. «Hai visto, Naito-kun? Te l’avevo detto che ci saremmo divertiti.»

«Sì… è vero. Scusa se… se ho dubitato di te» rispose lui, prima di abbassare l’occhio. «E… scusa se sono stato noioso.»

La sentì ridacchiare e battere di nuovo la spalla contro di lui. «Non sei davvero noioso, Naito-kun. Hai solo bisogno di riabituarti alla compagnia degli altri.»

Naito sorrise di nuovo. Il suo cuore batté mentre la osservava. Non importava quante volte la guardasse, non importava quanto pensasse a quello che era successo tra di loro, rimaneva ammaliato dal suo aspetto ogni volta come se fosse la prima.

Hachidori non possedeva la stessa bellezza di Hikaru, delle mortali o delle piccole dee che aveva incontrato in occidente. La sua bellezza era diversa. Aveva le guance scavate, il naso lungo, i capelli arruffati, i denti affilati e un po’ storti, qualcosa che molti avrebbero definito imperfezioni. Ma per lui non erano imperfezioni. Erano ciò che rendeva Hachidori, Hachidori. Senza quelle “imperfezioni” non sarebbe stata diversa da chiunque altra.

Senza quelle imperfezioni, non sarebbe stata bella. 

Perché lei era bella. Era bellissima. E nessuno avrebbe mai potuto convincerlo del contrario. Ripensò a quello che era successo la sera prima, in riva al fiume, e lo stomaco gli si annodò.

Orochi… era stato lui a fargli quello. Naito abbassò la testa, mentre ripensava a tutto quello che era successo da quando Hachidori era stata esiliata. Orochi aveva fatto ogni cosa in suo potere per plagiarlo, per portarlo dalla sua parte. E alla fine c’era riuscito.

Alla fine, Naito aveva dimenticato le emozioni. L’unica cosa che aveva continuato a coltivare, era stata la rabbia. La rabbia lo aveva portato in occidente, assieme ad Orochi. La rabbia gli aveva fatto aggredire Rosa. La rabbia gli aveva fatto trafiggere Konnor. La rabbia l’aveva portato al gioire per la morte di Orochi, o almeno, quella che aveva creduto fosse la sua morte.

La rabbia lo aveva portato fin dov’era arrivato. E poi, aveva perso. Konnor l’aveva sconfitto. E dentro di lui non era rimasto più nulla, se non il rimorso. Ora, guardandosi indietro, poteva scorgere la fila di errori madornali che aveva commesso. Una lista così grande che non riusciva nemmeno a vederne la fine.

E soprattutto, ora non sapeva più cosa fosse. La domanda di Hikaru risuonò nella sua mente: «E tu, Naito? Che cosa sei?»

Naito assottigliò le labbra. Orochi aveva visto un demone, in lui. Konnor, Edward ed il vecchio Musashi avevano visto un uomo. Suo padre, invece, non aveva visto né l’uno né l’altro. Solo un mortale con le corna.

Chi aveva ragione?

Conosceva la risposta a quella domanda. Suo padre aveva ragione. Era un mortale con le corna. Non era un demone, ma allo stesso tempo non era nemmeno un uomo.

Non voleva più essere un mostro. Aveva salvato vite umane, aveva perso il desiderio di combattere e di vendicarsi. Allo stesso tempo, non era riuscito a baciare Hachidori. Non era riuscito a provare di nuovo quell’amore per lei.

Non era un mostro, ma non era neanche un uomo. Non era… niente. 

Strinse i pugni. Non sarebbe finita così.

«Naito-kun?»

La voce di Hachidori lo fece ridestare. Non si era nemmeno reso conto che avevano continuato a camminare. Si erano fermati di fronte ad un cancello bianco chiuso, al termine della strada. Diversi cartelli erano appesi, uno segnava degli orari di apertura e di chiusura, uno aveva la scritta “NO DRONES” sotto ad uno strano disegnino, una specie di aggeggio con quattro lame rotanti barrato di rosso, e per finire quello che stavano cercando loro:

 

 

明治神宮 


Meiji Jingu

 

 

«Siamo arrivati. Il santuario di Meiji è qui» mormorò Hachidori, lasciandogli la mano e avvicinandosi. Allungò il collo, per guardare oltre al cancello. «Non sembra ci sia ancora qualcuno. A quest’ora è chiuso.»

«Quindi, che facc…» Naito si interruppe quando vide Hachidori scavalcare. Fece un sorrisetto. Avrebbe dovuto aspettarselo.

La imitò e saltò oltre il cancello, raggiungendola di fronte ad un alto torii di cemento, da cui cominciava una stradina che si smarriva in mezzo ad un corridoio di alberi.

Hachidori fece un passo avanti. «Da questa parte.»

«Sei già stata qui?» chiese Naito, guardandosi attorno circospetto. Aveva una strana sensazione. Doveva essere perché si trovavano presso un luogo sacro. Dopo gli avvenimenti nelle rovine di Hachiōji, avrebbe preferito non attraversare più torii per un bel po’ di tempo.

«No, ma è un santuario piuttosto famoso. Ne ho sentito parlare spesso.» Gli sorrise, intuendo il suo stato d’animo. «Non preoccuparti, Naito-kun, non ci fermeremo a lungo. Siamo in casa degli dei, dopotutto. Non credo proprio che siamo i benvenuti.»

Tese la mano verso di lui e Naito la osservò sorpreso, prima di sorridere e stringergliela di nuovo. «Andiamo allora» concluse.

Superarono il torii e percorsero quella stradina in mezzo alla vegetazione. Erano sempre a Tokyo, eppure era quasi impossibile da credere. C’erano vasti prati e una fitta rete di alberi disposti in modo da coprire la città, circondando quella zona come una barriera. Se non fosse stato per la strada di cemento e per alcuni dei palazzi più alti che spiccavano in lontananza, Naito avrebbe creduto di essere di nuovo dentro ad un bosco.  

Avanzarono in silenzio. Naito fece vagare lo sguardo lungo quel luogo, meravigliato. Inevitabilmente, il suo occhio finiva sempre con il posarsi su Hachidori. Quando lei se ne accorse gli sorrise, stringendogli la mano più forte. «Sono… felice che…» Si interruppe, distogliendo lo sguardo imbarazzata. «Insomma… n-non importa.»

«Ehm… okay?» rispose Naito. L’espressione che fece Hachidori lo fece ridacchiare.

«Anch’io sono felice» ripose, dandole un colpetto con la spalla come lei aveva fatto con lui.

Hachidori lo osservò sorpresa. Naito distese il sorriso. Era vero, si sentiva davvero felice. Ed era grazie a lei. Non aveva idea di come avesse potuto rimanergli accanto dopo quello che aveva fatto la sera prima. Non aveva idea di come avesse deciso di perdonarlo.   

O forse, in realtà, lo sapeva. Hachidori aveva fatto tutto quello perché davvero teneva a lui. Perché gli voleva bene. O forse… forse perché anche lei lo amava.

A quel pensiero, per poco non si inciampò da solo.

«Naito-kun! Stai bene?» domandò lei, allarmata.

«S-Sì…» biascicò lui, sperando di non essere rosso in volto quanto credeva. Hachidori ridacchiò di nuovo, lasciandogli la mano per stringersi al suo braccio, appoggiando la guancia sulla sua spalla. Naito si irrigidì come un muro, sentendo il respiro mancargli.

Nessuno dei due disse più nulla. Continuarono a camminare stretti in quel modo finché il paesaggio non cambiò di nuovo. La vegetazione si diradò e un altro torii comparve di fronte a loro, questo però era fatto di legno.

La strada di cemento venne rimpiazzata da un pavimento di piastrelle di marmo, che li condusse ad un gigantesco complesso di edifici disposto a quadrato, con uno spiazzale immenso al proprio interno. Quando entrarono nel cortile, Naito individuò subito quello che stavano cercando: l’ingresso del santuario era di fronte a loro, al fondo dello spiazzale, un lato di quel quadrato con il tetto rosso e alto, decorato con travi, ampie finestre e porte contornate d’oro.

Quattro giganteschi alberi erano eretti agli angoli del cortile, torreggiando sopra di loro. In disparte, vide una struttura di legno, di forma esagonale, piena di mensole e scaffali stipate di lettere e fogli di carta, preghiere e auguri dei visitatori.

Un forte senso di inquietudine percorse il corpo di Naito mentre procedevano verso l’ingresso. Si guardò attorno, sorpreso da tutta quella calma e tutto quel silenzio. Il luogo era stato chiuso ai visitatori, tuttavia si aspettava almeno la presenza di qualche sacerdote, o sacerdotesse. Invece nulla. Non c’era nessun altro a parte loro.

«Forza» bisbigliò Hachidori, portandolo quasi di forza verso l’ingresso del santuario.

«Aspetta» mormorò lui, fermandosi.

Lei sembrò allarmarsi. «Che succede?»

Naito esitò. Forse quello non era il momento più adatto per farlo. Allo stesso tempo, quei pensieri nella sua mente non gli davano più pace. Si sentiva bene, con Hachidori. Si sentiva davvero bene. «Volevo… volevo dirti che continuo a pensare a quello che è successo ieri sera, e…»

«Ma… proprio adesso?» chiese lei, perplessa.

«Io…» Naito si interruppe, accorgendosi della sua espressione. Non sembrava solo perplessa, sembrava agitata. «Ma… stai bene?»

«Sì, certo che sto bene. Forza, sbrighiamoci, prima che qualcuno si accorga che siamo qui.»

«No, aspetta. È… è importante, Hachidori.»

Lei si irrigidì. «Naito, forse…»

«Mi dispiace» buttò fuori lui, tutto d’un fiato. «Ti ho… ti ho ferita, ieri notte. Non… non volevo.»

«Naito-kun…»

«Orochi. Lui… mi ha proibito di… di provare emozioni. Qualsiasi emozione. Voleva che fossi un mostro, come lui. Voleva trasformarmi. Ha usato il mio sangue demoniaco contro di me. Ha fatto leva sulla mia rabbia, sul mio desiderio di vendicarmi. Voleva farmi dimenticare tutto quello che provavo. E c’è riuscito. Ma non voglio più essere come lui. Non voglio… essere un mostro. E… non voglio nemmeno essere quello che mio padre mi ha definito. Voglio… essere diverso. Stare con te me l’ha fatto capire, Hachidori.»

Si avvicinò a lei, sorridendole. Hachidori rimase in silenzio, mentre le accarezzava la guancia dolcemente. «Voglio… voglio rimanere con te, Hachidori. Voglio cambiare le cose, aiutare la nostra gente. Dimenticare tutto quello che è successo. Ricominciare, insieme a te.»

La vide schiudere le labbra, mentre un’espressione molto diversa appariva sul suo viso delicato e morbido. Anche da sbalordita, rimaneva comunque bellissima. «Mi serve… solo… che tu porti pazienza, Hachidori. Non… non sono bravo, con i sentimenti. Ho… ho paura di commettere altri errori. E… non voglio commettere altri errori. Non voglio perderti di nuovo. Voglio… voglio iniziare ad amare di nuovo. Voglio amare te, Hachidori» concluse, avvicinandosi ancora, così vicino da poter sentire il suo respiro su di lui. Quando riuscì finalmente a dirglielo, si sentì incredibilmente meglio. Molto meglio di quanto avrebbe mai immaginato.  

«N-Naito…» mormorò lei, con voce tremolante.

Naito si accorse presto che la sua reazione non era quella che si era aspettata. Era sorpresa, sì. Ma era uno stupore diverso da quello che aveva creduto all’inizio. Sembrava… intimorita. Spaventata.

Il sorriso svanì dal volto di Naito. «Che succede?»

Lei non rispose. Rimase immobile, ad osservarlo interdetta. All’improvviso, la sua mano si chiuse di nuovo attorno al suo braccio. «Dobbiamo andarcene da qui.»

Cominciò a trascinarlo via, verso la direzione da cui erano venuti. Naito si lasciò tirare, colto alla sprovvista dal suo cambio di tono e di atteggiamento. «Ma che sta succedendo, Hachidori? Che ti prende?»

«N-Non posso spiegare. Dobbiamo andare via. Dobbiamo…»

Una cortina di fiamme esplose di fronte a loro, facendoli sobbalzare all’indietro. Hachidori gridò, sbattendo contro di Naito, che rimase a bocca aperta. Le fiamme si mossero sopra il marmo, come se avessero vita propria, tracciando un cerchio invalicabile attorno a loro. Il calore era immenso, la luce accecante. «No…» bisbigliò Hachidori, ma Naito a malapena la sentì. I suoi occhi rimasero fissi su quelle fiamme, alte, vive, arancioni accese. La mente si rifiutò di collaborare con lui.

Vide delle figure muoversi al di là del muro infuocato. Si avvicinarono a loro, mischiandosi in mezzo alla luce.

Una voce si sollevò, sovrastando completamente il crepitio assordante del fuoco. «Eccovi, finalmente! Vi stavamo aspettando!»

Naito spalancò l’occhio. Aveva già sentito quella voce. E aveva già visto quel fuoco.

Le fiamme si diradarono. Di fronte a loro, erano apparse decine e decine di uomini in armatura completa da samurai, armati di katane, kanabō e kusarigama. Sembravano mortali, ma erano tutti quanti grossi quasi quanto degli oni.

Erano disposti di fronte e di fianco a loro, in modo da bloccare il passaggio verso le uscite. Naito indietreggiò, paralizzato.

«Era da molto che aspettavo questo momento, caro Naosuke» disse di nuovo quella voce, alle loro spalle. Entrambi i ragazzi si voltarono e ancora una volta Naito sentì il respiro mancargli.

Un uomo era apparso di fronte all’ingresso del santuario. Era alto almeno due metri e mezzo, con lunghi capelli rossi che baluginavano nell’aria. Sembravano muoversi seguendo un vento che non esisteva, come dotati di vita propria, guizzando come le fiamme di poco prima.

Non appena lo vide, Naito sentì la temperatura alzarsi all’improvviso, come se quell’incendio non si fosse mai davvero spento. Non riuscì più a muoversi, non riuscì nemmeno più a respirare, paralizzato da quel terrore viscerale che lo stava lentamente trasformando di nuovo in Naosuke Itomi, il bambino solo, debole e spaventato che era fuggito nei boschi.

Il ghigno di quell’uomo fu ben visibile perfino da quella distanza. Lo stesso che aveva visto dodici anni prima, quando casa sua era stata data alle fiamme.

Lo stesso che aveva quando aveva ucciso Akane.

«Pensavi di poter scappare per sempre?» disse ancora quello, le spalle che si alzavano in una roca risata, facendo tintinnare l’armatura. Il suo sguardo scivolò su di Hachidori, che si irrigidì. La stretta attorno alla sua mano aumentò.

«Ti ringrazio per avermelo portato, Hachidori. Sei stata di grande aiuto.»

Naito riuscì a ridestarsi solo quando udì quelle parole. Si voltò verso Hachidori con un gesto lento e meccanico, credendo di aver sentito male. Incrociò il suo sguardo e si accorse della sua espressione devastata. «N-Naito-kun…»

Sentì il respiro farsi più pesante. Il cuore accelerò i propri battiti, mentre osservava quella ragazza, mentre nella sua mente tutto cominciava a farsi più chiaro. Il suo comportamento agitato, la sua insistenza nel compiere quella deviazione, la sua fretta nel visitare quel luogo.

L’oscuro desiderio menzionato da Panji.

Lasciò la mano di Hachidori e fece un passo indietro. Per tutto il tempo, non staccò gli occhi da lei. «Era… era una trappola…» sussurrò, faticando lui stesso a crederci.

Hachidori abbassò la testa. Quella fu la conferma. Un lungo brivido percorse il corpo di Naito. Non poteva crederci. Non voleva crederci.

«È passato tanto tempo…» disse ancora l’uomo con i capelli rossi, avvicinandosi a loro. «… ma sono sicuro che ti ricordi di me, vero Naosuke?»

Naito strinse i pugni, soffocando un brivido di paura. Non rispose, mentre i fatti di quella notte balenavano di fronte a lui, come le fiamme che avevano carbonizzato casa sua.

Ritornò con la mente a quando era ancora bambino, a quando aveva conosciuto Orochi solo da poco. A quando lui l’aveva portato sulle montagne di Kyoto, per mostrargli quel santuario, il santuario di Agata. A quando aveva scoperto che i mortali che avevano ucciso sua madre erano stati mandati da un dio.

E che era stato proprio quello stesso dio ad ucciderla di fronte a lui.

L’uomo si fermò a pochi metri da lui. Da quella distanza, poté percepire il calore che irradiava, intenso, cocente. Anche l’armatura che aveva indosso sembrava patire il caldo. Il metallo era arancione acceso, le placche color cremisi, e ribolliva e sfrigolava sopra di lui mandando pennacchi di fumo.

Il viso dell’uomo, coperto da sprazzi di barba incolta, era deturpato di orrende cicatrici, come se fosse stato fatto a brandelli e poi rimesso insieme alla rinfusa, cosa vera, peraltro.

Quello di fronte a lui… era l’ultimo figlio di Izanami e Izanagi. Quello che aveva ucciso la madre venendo al mondo e che era stato fatto a pezzi dal padre infuriato.

Kagu-Tsuchi, il dio del fuoco.

«Finalmente posso uccidere il bastardo che la mia sacerdotessa ha messo al mondo» disse Kagu-Tsuchi.

 

 

 

 

 

Saaaalve. Come va? Mi odiate? Secondo me no. Da quando è apparsa Hachi le visite alla storia sono calate drasticamente hahaha (un bel po' di sostenitori della Rosa/Naito, immagino) beh, che dire, spero che questo insegni qualcosa, non date mai niente per scontato. Anche se le persone che non leggono più probabilmente non scopriranno mai questa cosa, però vabbé, peggio per loro. 

Un po' di informazioni inutili poi vado. La torre vista nel capitolo è ovviamente la Torre di Tokyo, con le sue onde elettromagnifiche. 

Riguardo il flashback all'inizio, la discussione tra Naito e Hikaru, in realtà ci sono kitsune madri e mogli. Ci sono kitsune buone e kitsune malvage e Hikaru rientra nella seconda categoria. Può essere una madre, può essere una moglie, certo, ma è lei che rifiuta di esserlo, perché è una volpe a nove code, ed è una creatura troppo potente, orgogliosa e anche un po' disillusa, per accettare di trasformarsi in qualcos'altro. Spero, comunque, che questa sua sfaccettatura vi sia piaciuta, non avevo molte pretese all'inizio su Hikaru, l'ho creata così perché serviva qualcuno che rimpinguasse l'esercito di Orochi, ma devo dire che è un personaggio che può essere interessante, se raccontato bene. 

Qui vi lascio un disegno fatto da Roland, un piccolo tributo alle kitsune: https://www.deviantart.com/rlandh/art/The-Kitsune-and-the-flower-891183109

Grazie per aver letto, grazie mille Roland per la fanart e le recensioni, grazie mille anche a Nanamin per avermi aiutato e grazie ai recensori (lettori che avete smesso di leggere perché c'è Hachidori, sappiate che vi siete fatti un nemico per tutta la vita) e alla prossima!

   
 
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