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Autore: An13Uta    17/09/2021    1 recensioni
Biografia a frammenti di Oitesch, che non aveva nessuno al mondo - o almeno, della vita che avrebbe avuto.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Link, Malon, Nuovo Personaggio, Sheik, Skull Kid
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'occhi d'ambra'
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vecchiaia




Aveva la voce roca e un poco graffiata di chi non è abituato a parlare spesso, con il labbro inferiore tremolante ed una leggera balbuzie data dall'emozione intensa, alternando momenti di parlantina troppo veloce a tentativi di parlare bloccati da lunghissimi respiri; quando rideva cominciava con una specie di colpo di tosse che gli faceva sobbalzare le spalle come se stesse singhiozzando, e gli sembrava la risata più bella del mondo.

Le braccia gli si erano fatte spesse e le mani si erano riempite di calli, eppure riusciva ad addolcirli quasi a comando quando veniva in contatto con altra pelle. Era diventato più alto, i segni di vecchie cicatrici allungati quasi allo stremo sulla pelle ancora pallida sebbene scurita dal sole (ora erano quasi lunghe quanto il suo naso, avevano riso entrambi); i capelli biondo accecante come una distesa infinita di botton d'oro erano stati tagliati sulla nuca in modo azzardato, quasi rasati, lasciandovi non più di tre centimetri di un biondo arruffato e quasi pungente che imprimeva una stranissima, magnifica sensazione sui palmi solcati da lunghi graffi.

I suoi occhi erano ancora blu, di un blu bellissimo, un blu ancora più brillante di quanto si ricordasse, così limpidi da riuscire a specchiarcisi dentro come in una coppia di gemme levigate alla perfezione.



Le sue braccia avevano stretto forte lo scuro corpo gracile e duro, e da quel punto non erano riusciti più a togliersi le mani di dosso.



Avevano cercato di parlarsi quanto meglio possibile nonostante l'eccitazione di vedersi così vicini di nuovo, tentando di chiedere l'uno all'altro cos'era successo in tutti quegli anni, cosa aveva fatto, le cose che aveva visto, nonostante entrambi fossero molto più restii a raccontare che ad ascoltare – e poi quella bocca tremolante aveva alzato la voce più forte, con gli occhi di chi ha sperato di poter vivere questo momento per anni, e gli aveva stretto forte i bicipiti nelle mani mentre lo invitava animatamente a stare dove si era stabilito lui, a rimanervi almeno un giorno, come ospite.

Non seppe se non gli aveva dato scelta o se lui stesso avrebbe deciso diversamente mentre lo seguiva, mezzo trascinato e mezzo trascinante, verso una cavalla baia dalla criniera bianca (ricordava nebulosamente di aver stretto quei crini candidi tra dita troppo lunghe) su cui il sorriso radioso lo issò: seppe solo che strinse forte la vita non più coperta di verde mentre galoppavano via dal borgo, attraverso prati più verdi di quanto potesse immaginare, e rise contro la sua schiena finché non ebbe più fiato, tremando dall'adrenalina.



Viveva in una fattoria. C'erano mucche, altri cavalli, alcuni coccò.


Lei aveva i capelli rossi e dritti. I suoi occhi erano blu. Aveva un bel sorriso. Aveva dato il bentornato al biondo abbracciandolo calorosamente.

Quando lo salutò (non notò la sua ritrosia quando gli si avvicinò per aiutarlo a scendere, stringendogli la mano in modo gentile, troppo familiare) aveva un accento che non riusciva a capire. La sua voce non saltava, né tremava, né gracchiava: era la voce di chi ha vissuto diciannove placidi anni.


Era molto gentile.

Gli disse che aveva sentito molto parlare di lui.


Gli fecero fare un giro della fattoria. Non aveva mai toccato una mucca prima; avevano il pelo finissimo. Si impose di aiutarli in qualche modo, per il resto della giornata, seguendoli come un'ombra nonostante insistessero che come ospite non doveva crucciarsi. Lo dovettero strappare dal recinto dei coccò dove si era rifugiato nel tentativo di far scordare la sua presenza quando fu ora di cena. Suo padre era un uomo placido. Non gli aveva parlato un granché. Attese inquieto che niente e nessuno fosse più sveglio, e sotto la luce nera della Luna nuova scappò nel bel mezzo della notte.


Lei era molto gentile.

Molto gentile.


Non vomitò. Fu sul punto di farlo; ma non vomitò.


Rimbombò nella sua testa una risata stridula, e le parole ululanti di un fantasma possessivo che cercava di trattenere i suoi ori nel sepolcro.


Come ti ha preservato bene la luce della nostra gentile Dea, piccolo ladro maledetto. Ma suo preferito o no, non hai nessuno a quel mondo che mi è stato strappato, e non lo avrai nemmeno quando ti trascinerò tra noialtri.


Non aveva nessuno al mondo.

Neanche lui.



Neanche lui.



Lo aveva sentito venire a controllare, una settimana dopo, forse, mentre si intrufolava tra le mucche addormentate: riconobbe il suo passo pesante. Sussurrò per lui una filastrocca vecchia, di quelle che mettono a letto i bambini, e vide gli occhi blu spuntare alla luce di una lanterna brillanti di un sorriso.


Non rispose quando chiese perché era scappato così. Lui non insistette.


Parlarono tutta la notte.

Senza sosta.

All'improvviso il mondo era diventato ben più piccolo. Era diventato un ragazzo con gli occhi blu che si chiedeva tutto a un tratto perché a lui non era cresciuto un seno mentre sfiorava la cicatrice sulle costole scure davanti a sé, facendolo sobbalzare dalle risate.


All'improvviso aveva il mondo intero.


L'ululato cadde nell'odore di fieno, sommerso dai respiri profondi delle mucche.


Lui gli fece promettere di tornare; promise di sì.

Lui gli fece promettere di parlare con lei almeno una volta; non rispose.

Lui glielo fece promettere.

Non rispose.


Sparì per un'altra settimana. Poi tornò.


Lei era con i cavalli, e non lo sentì entrare. Ritrovandosi il bianco del suo occhio cieco proprio in faccia al posto della stella bianca della sua giumenta preferita, per poco non saltò direttamente attraverso il tetto; rise per non gridare e far spaventare le bestie, nascondendo la bocca nelle mani mentre lui veniva scrollato giù dalla cavalla in malo modo. Lo aiutò a rialzarsi: aveva le mani grandi, piene di calli, e le braccia così forti che se avesse tirato un po' di più gli avrebbe staccato anche le clavicole.

Gli disse che era felice di rivederlo.
 

Stirò a fatica le labbra in un ghigno incerto, puntandole contro il buco di un molare rottosi anni prima.


Non credo tu lo pensi davvero.


Lei gli sorrise nel modo dolcemente rassegnato di chi ha fatto pace con la rinuncia a competere.


Invece sì.


La fissò.

Sbigottito.


Aveva un bel sorriso.


Lasciò che lo prendesse a braccetto e annunciasse il suo ritorno agli altri, docile sebbene non ancora addomesticato. Rimase a cena, rimase la notte.

Tre giorni dopo Oitesch, che al mondo aveva un amico, un gran numero di arti più o meno utili e un regno morto, si addormentò raggomitolato su una vacca; si risvegliò con un ragazzo biondo sdraiato su di lui e una ragazza dai capelli rossi appisolata al loro fianco.

 

-



Non la amava.

Da quanto ne potesse capire, non amava le donne.

Non che ne avesse conosciute molte.

Ma lei era gentile, e aveva una bella risata, e un bel sorriso, e le voleva bene.


Pensava ci avrebbe messo più tempo, a volerle bene; ma un giorno le disse di punto in bianco mentre la aiutava a scegliere le uova che se fosse nato con l'amore anche per una sola donna avrebbe amato lei, e lei rispose che era la cosa più bella che le avesse potuto dire, e si rese conto che si volevano bene.


Lei non lo amava.

Non che non ne sarebbe stata capace, se le fosse piaciuto abbastanza; solo non lo amava.

Gli voleva bene, anche se aveva le braccia come rametti secchi e faticava a tenere in braccio i vitelli più grossi mentre tutti gli altri nella fattoria lo facevano senza problemi; rideva di gusto quando le mostrava la lingua e si lamentava che non tutti potevano essere larghi e spessi come muri di mattoni come lei, e gli voleva bene da morire, ed era la cosa più bella del mondo.


Lei lo chiamava stecco di cannella, e gli imponeva di stare tranquillo.


Nessuno alla fattoria voleva che si muovesse di un millimetro per paura che si spaccasse in due. Così, aspettando di venir chiamato ad aiutare, si dedicava a intagliare maschere e bambole.


Col tempo gli era venuta una piccola idea, come una mania – di farsi una marionetta in cui infilare la sua anima dopo la morte. L'obbiettivo non era l'immortalità (gli sembrava qualcosa di troppo lungo e solo e triste); era una specie di piano di scorta, nel caso ci fosse stato bisogno del suo aiuto.


Quando la finì lei rise come una matta dicendo che sembrava terrificante, e lui si astenne dal divulgare la sua opinione; li divertì imitando l'espressione stralunata che aveva dipinto sulla faccia tonda, con un ghigno largo e spiritato. La misero su uno scaffale, e impararono a voler bene anche a quella buffa, terrificante creaturina come avevano imparato a voler bene al suo creatore.


Facilitava molte cose, volersi bene.


Le forti mani di lei erano più facilmente gradite su scapole gracili; la sua presenza migliorava l'umore invece di far mulinare fastidiosamente il petto. Desideri di scappare, evadere, ritornare in quella landa desolata che gli apparteneva di diritto e non tornare mai più sul piane verdi di erba fresca alla sua vista non lo vessavano più. Passava le mani fra i suoi capelli rossi e li comparava ai propri; il suono delle sue chiacchiere era rasserenante. Quando gli parlava sapeva che non lo stava imboccando con bugie.

Riusciva a sedersi accanto a lei, a parlare, a scherzare. La aiutava volentieri. Voleva starle attorno e farla sorridere. Si divertivano a far imbarazzare il ragazzo scambiandosi storie su di lui, a torturarlo insieme – si mettevano contro la palizzata quando avevano un momento di pausa e lo guardavano portare al pascolo le mucche, senza dire una parola.


Volersi bene rendeva la fattoria... Vivibile.



Non gli era piaciuta. Perché non gli era piaciuta? La guardava a lungo, ogni tanto, tenendo un braccino appena abbozzato o un volto quasi finito nella mano, il coltello per intagliare indugiante a mezz'aria. Non gli era piaciuta. Cosa poteva essere stato a non piacergli?

Forse che era a metà: in parte grande, deserta, quasi priva di presenza umana come il canyon, ed in parte così meravigliosamente viva e quietamente rumorosa e piena come i boschi senza fine. Non era abbandonata abbastanza da creare un silenzio impossibile, né piena abbastanza da dare un senso simile ad una piacevole claustrofobia. Qualcosa in quella doppia metà era stabile.



Ritrovarsi in un posto così, dopo una vita in cui i piedi avevano macinato terreno anche senza muoversi... Nel suo immaginario il brusco cambiamento veniva comparato all'esperienza di un singolo granello in una tempesta di sabbia quando viene chiuso in una bottiglia destinata ad una teca da non toccare né scuotere mai.


Gli aveva fatto venire una strana ansia.

Un prurito insopportabile.


Non che il resto di Hyrule, che aveva attraversato in coincidenza con improvvisi e terrificanti impulsi di evasione, avesse avuto un effetto diverso su di lui.


Alcuni Zora lo avevano scambiato per un marinaio in preda al mal di terra tanto si sentiva nauseato dalla solida immobilità sotto i suoi sandali.


(Ikana era polvere e sabbia e ceneri scappate dalle tombe e si attaccava a qualsiasi cosa si muovesse, e alzare il piede per scoprirne la suola pulita gli faceva pensare di essere morto, perché solo le suole dei morti sono pulite.)


Anche lui era solido.

Anche lei era solida.

Anche il letto era solido.



La prima volta che dormirono tutti e tre insieme, aggrovigliati malamente sopra un materasso che a malapena riusciva a contenere una persona sola, si svegliò nel bel mezzo della notte e scoppiò in lacrime senza fare alcun rumore, e non riuscì a capire perché.



Lui lo aveva baciato almeno un mese prima. Lo aveva colto alla sprovvista quando gli aveva sussurrato la sua richiesta tenendogli la mano come quando erano bambini. Quando aveva risposto di sì, lui aveva appoggiato la bocca pallida sulla sua tenendogli il mento, ed erano rimasti così per un poco.


Questo.


Questo era amore.


Lui lo amava, ed era amato a sua volta.

Lui amava anche lei, e lei amava lui, e si erano baciati così anche loro.


Forse era stato quello (il sapere, l'intuire inconsciamente, da subito, che si amavano) che lo aveva turbato tanto.


Ma lui lo amava. Quanto amava lei. E lui gli riaggiustava i capelli quando un ricciolo rosso gli andava sugli occhi, e lo abbracciava baciandolo sulla nuca, e rideva piano con gli occhi pieni d'amore guardandolo, e gli sorrideva in quel modo complice e timido come quando erano bambini, e lo teneva gentile come quando erano bambini, e Luna misericordiosa si erano amati così tanto e così forte quando erano bambini e non se n'era accorto per niente.


Lui aveva baciato prima lei, forse aveva cominciato ad amare propriamente e consapevolmente prima lei. Ma lui lo amava, e lei gli voleva bene, e quella notte si erano infilati in quel letto tutti e tre insieme senza tante storie per dormire attorcigliati l'uno all'altro in un abbraccio strano come serpenti freddolosi come se fosse stata la cosa più naturale del mondo, perché lo era, perché lo era davvero.

Ecco perché aveva pianto.


Oitesch, che al mondo aveva ora due amori incondizionati, crollò di nuovo su di loro e riprese a dormire.

 

-



Dormire insieme era comodo - meno letti da fare, meno lenzuola da far asciugare al sole (anche se gli piaceva guardare le lunghe ombre contro il vento pulito), più cuscini in cui nascondere il naso freddo la mattina per sentirli rabbrividire ridendo mentre tentavano invano di allontanarlo con le mani.

Era anche più caldo.

E accogliente.


(La prima volta era stata prima per entrambi, in un certo senso, perché lui non aveva mai provato così. Lei si era trattenuta nelle stalle apposta, e poi era rimasta sorpresa quando, rientrata, lo aveva visto quasi più morto che vivo incastrato ancora a lui, avvolto attorno alla schiena pallida come se fosse potuta sparire. Due paia di occhi blu si erano scambiati due sguardi – uno terribilmente imbarazzato che pareva scusarsi e uno che invece cercava in tutti i modi di contenere le risate – e poi lei aveva baciato lui sulla fronte, aveva riassettato un ricciolo rosso madido di sudore, e si era sdraiata insieme a loro come ogni sera, senza farsi problemi.)


Soprattutto più accogliente.
 

Avevano smesso di dormire separati dopo cinque mesi che non era più scappato di nascosto dalla fattoria.

Ce ne vollero altri dieci, ma alla fine non si mosse più da lì.

E poi altri sette.
 

Andando al borgo a vendere il latte lui riceveva complimenti e risate per l'anello che sua moglie gli aveva stretto al dito. Nessuno chiedeva dello sposo, perché è ben più difficile portarsi una maschera nuziale con sé ovunque, ma li disturbava ben poco; bastava che i volti di legno facessero buona guardia osservandoli dallo scaffale dove li avevano riposti come demoni benigni.

Se qualcuno avesse saputo, in qualche modo, sarebbe rimasto sbigottito – non tanto dai gusti, quanto dalle due unioni contemporanee.


Teoricamente, però, era tutto in regola. Gli dei non si curano di matrimoni in cui non vengono invocati; e lui si era sposato con due persone diverse, con due riti diversi, sotto il nome di divinità diverse. Per cui, era tutto in regola.
 

Non che a loro tre fregasse un cazzo se si potesse fare o no.


Ma giusto nel caso qualcuno chiedesse.

Tutto in regola.


Anche per la guerra contro il deserto era quasi tutti in regola.

Dovevano giusto strappare uno fra loro tre, e poi sarebbe partita.



Presero lui. Ovviamente. Perché lei doveva rimanere alla fattoria. E il terzo non esisteva negli occhi di Hyrule.



Rimasero solo in due, per alcuni mesi. Faceva più freddo andando a dormire con il dubbio atroce ad avvolgerli gelido, senza sapere nulla.


Ebbero la decenza di riportarglielo per un poco, con un occhio in meno, la cicatrice ancora fresca di sangue sotto le bende e il sopracciglio spaccato.

Gli prese il viso rosa nelle mani scure e gli sorrise dolcemente, con il suo labbro attraversato da un taglio profondo e l'ombra della cataratta sulla pupilla.


Siamo uguali, ora!


L'unico occhio blu si inarcò appena in un sorriso amaro.


Quando l'armatura venne a riprendersi loro marito, a trascinarselo via di nuovo, i suoi amori avevano trovato un modo per avere notizie più spesso.

La prima notte che quell'aureola d'ambra gli apparve nella tenda dopo aver fischiettato la canzone silvestre che nessun altro poteva conoscere, lui per poco non gli urlò in faccia dalla gioia. Non ci riuscì perché gli tappò forzatamente la bocca – prima con la mano, poi con le labbra.



Rincorreva l'esercito e tornava alla fattoria circa ogni settimana e mezza, continuamente, come un pazzo disperato. Come ci riusciva? Come un illusionista: senza mai rivelare i segreti dietro i suoi trucchi, schivando domande e interrogatori, non lasciandosi mai scappare una parola.

Per quanto lei ne sapesse, spariva appena arrivava il pomeriggio dopo averle preso il bacio da consegnare, e ritornava all'ora di pranzo del giorno dopo a consegnarle il bacio di risposta e raccontarle quello che gli era stato riferito. Aveva smesso di chiedere, ad un certo punto: essere sicura che loro marito stesse bene giustificava qualsiasi strana scorciatoia.
 

Lui divenne capitano, a un certo punto. Qualcuno commentò che sua moglie sarebbe stata ben felice se l'avesse saputo, e lui dovette contenersi dal replicare che sua moglie sapeva, e l'unica notizia che l'avrebbe resa davvero felice sarebbe stata quella del suo imminente ritorno – notizia che sembrava non dovesse arrivare mai.

Non succedeva un granché alla fattoria: il padre di lei continuava ad addormentarsi tra i coccò e la cavalla aveva tirato un calcio al manovale baffuto che non stava simpatico a nessuno dei tre (lui dovette stozzare una risata o avrebbe svegliato l'intero plotone). Un paio di volte c'erano state imboscate, ma un paio di frecce scoccate da un'amazzone rossa avevano scoraggiato altre incursioni.

Le labbra tagliate lo dilettavano volentieri con storie insignificanti che colavano di tanto agognata normalità.


A volte anche in altri modi.
Con altre parti.


Però erano molto silenziosi. Furono sul punto di essere scoperti solo una volta e fu forse quella più divertente di tutte, con lui che doveva fisicamente tappargli la bocca per evitare che la tentazione di far imbarazzare a morte la sfortunata guardia di turno diventasse incontenibile mentre rimanevano stretti assieme nel momento assolutamente peggiore per cercare di tenere la voce bassa.


Probabilmente fu quella la volta che successe.


Nessuno dei tre ci credette, inizialmente. Lo volevano? Loro due, sicuramente. Lei lo aveva scoperto per prima, abituata a riconoscere i segni nei suoi vari animali, ed era stata una sorpresa magnifica; lui, quando glielo aveva detto, prima stentò a crederci e poi quasi non riuscì più a parlare dall'emozione.

Il diretto interessato ci era rimasto come un palo nella sabbia e non aveva saputo cosa fare o dire o immaginare. Lo voleva? Non ci aveva neanche pensato. Non lo aveva neanche considerato. Avrebbe dovuto? Questo tipo di cose non gli era mai stato spiegato, e ora aveva un limite di tempo per decidere se lo voleva o no.


Finì col non decidere. Lasciò la natura fare il suo corso.


Era cresciuto così, lasciando che il tempo lo attraversasse, che la Luna lo portasse dove doveva, no? Sarebbe andato tutto bene.


Si fidava.


Andò tutto bene davvero. Mesi senza un problema.

Poi un giorno sentì prima bagnato, poi un male tremendo, andò assolutamente nel panico, e si risvegliò diverse ore dopo madido di sudore sdraiato su delle lenzuola pulite, senza il peso sullo stomaco che lo aveva costretto per settimane a dormire sul fianco e con ancora il fiatone.


Gli venne detto in seguito (tra risate incontenibili) che si era convinto, per qualche oscuro motivo, di dover andare in una grotta in culo ai lupi per fare quel che doveva, ma grazie al cielo lei lo aveva intercettato mentre cercava di trascinarsi via pateticamente e capendo cosa stava succedendo a tempo di record lo aveva praticamente lanciato sul letto; da lì in poi si era organizzata, preparata, e aveva fatto e pensato a tutto il resto.
 

Quando finalmente glielo portò, felice come non l'aveva mai vista, era stanca come se quella che avesse urlato per le contrazioni fosse stata lei.

In fondo lo avevano fatto nascere entrambi.

 

Lo prese con le mani che già tremavano per lunghi brividi e gli occhi lucidi, sbigottiti, come se le dita avessero dovuto attraversare il fagotto. Era piccolo, e soffice, e strillava come se lo stessero torturando. Lo strinse al petto scarnificato, ridendo piano quando la pelle tiepida e rossastra si appoggiò alla sua, con i pugni chiusi e gli occhietti serrati. Lei circondò le sue spalle scure con un braccio e rise a sua volta, euforica.
 

Lo dovevano dire a lui. Gli dovevano scrivere, subito, subito! Lo doveva sapere, sapere al più presto... Riuscivano già a vederlo, che leggeva e rileggeva per convincersi che non era uno scherzo, e poi che gridava (quante poche volte aveva gridato!) ai suoi uomini, estatico, che era finalmente arrivato!

Lei gli avrebbe scritto. Subito. Lo avrebbe dato al messaggero che passava a quest'ora – necessità assoluta, da consegnare veloce, velocissimo!


La guardò scrivere con la mano scossa da tremiti due pagine intere con una grafia davvero atroce ma leggibile, infilarle nella busta e scappare a farla imbucare appena si asciugò l'inchiostro; attese che gli tornasse accanto, ugualmente distrutta, e che lo stringesse in un altro abbraccio, e finalmente Oitesch, che al mondo aveva messo un figlio, si permise di appoggiare la testa e addormentarsi di botto.

 

-



Barcollò in casa sentendosi fin troppo pesante e spaventosamente leggero allo stesso tempo. Si appoggiò al muro a riprendere fiato e pregò che le gambe riuscissero a sostenerlo ancora un po'. Strinse forte il fianco: la sensazione appiccicosa gli faceva girare la testa.


Un pianto lontano.


Tekeal...


Per mezzo di un qualche miracolo dispensato forse troppo generosamente, riuscì a salire la rampa di scale ed entrare nella camera.

La culla era agitata da un lamento inconsolabile.


Prese suo figlio cautamente tra le mani tremanti, e passò debolmente un dito vicino alle piccole labbra. Un pugnetto vi si chiuse attorno nel tentativo di portare almeno una falange nella bocca senza denti: aveva fame.

Si accasciò a terra e aprì appena la casacca.


La casa tornò a sprofondare nel silenzio.


Respirò piano. Profondamente. Tekeal aveva smesso di lamentarsi; era tiepido contro il suo petto. Accarezzò la sua testolina chiara sovrappensiero.

Non gli assomigliava per nulla.

Forse solo nei capelli tanto spessi – suo padre li aveva fini, fini...

Gli scappò uno sbuffo dal naso.

Lo avrebbero certamente scambiato per il figlio della sua povera madre sterile.

Sarebbe stato tanto semplice... Non avrebbe potuto dar torto a chi avrebbe eventualmente commesso tale sbaglio.


Aveva gli occhi pesanti.


Non ancora.

Non ancora.


Tekeal smise. Sazio.

Controllò che digerisse appoggiato alla sua spalla. Poi lo rimise nella culla.


Una gamba gli si piegò mentre i denti presero a tremargli. Strinse debolmente la mano di suoi figlio, sforzandosi di rimanere cosciente, di vegliare su di lui.

Appoggiò la testa stanca vicino al suo bambino.


Al suo piccolo Crepuscolo.


Molto piano, prese a cantare una ninnananna nella sua lingua madre.

 

Lei entrò come una furia, chiamando a gran voce lo sposo di suo marito. Se i corpi esanimi sulla via di casa non l'avevano spaventata a morte, ci stavano riuscendo adesso il silenzio innaturale delle stanze e la scia secca che rincorse sui gradini verso la porta socchiusa che avrebbe dovuto proteggere suo figlio.

Lo trovò addormentato in un sonno di pietra, tenendo tra le piccole dita tozze una falange di pallida cannella sotto un fisso sguardo d'ambra.

Chiamò piano il nome con cui condivideva senza rimorso l'amore delle loro vite; solo quando gli si avvicinò si rese conto che dalle labbra appena schiuse di Oitesch, che non aveva nemmeno trent'anni, non proveniva alcun respiro.

   
 
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