Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: Rossini    28/09/2021    0 recensioni
Prosegue la saga de “Le cronache dei draghi e dei re”, cominciata con “L'apprendista di fuoco” e continuata con “L'avvento dei Sette”. Il conflitto è ormai scatenato. Mentre le case nobiliari che governano l'occidente continuano ciecamente a misurarsi tra di loro, l'oriente è chiamato da solo al confronto con un nemico intenzionato ad estinguere l'intero genere umano. Sarà forse possibile sconfiggerlo utilizzando quell'antico e sopito potere chiamato magia? E al fine di utilizzare al meglio tale potere, è forse il caso che i sette maghi dell'origine vengano definitivamente annientati? È partendo da questi interrogativi di base che Constant della Casa Lannister sta infine preparando la sua guerra.
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 8

IL PRINCIPE PIROMANTE

 

 

 

Gino Barron non aveva idea di come si crescesse un neonato. Era un problema bello grosso, cui non aveva avuto modo di riflettere, visti gli eventi concitati capitatigli tutt'insieme al momento in cui aveva deciso di portare con sé suo figlio e farne un Lord, anche se bastardo. Sulla lunga strada a piedi dalla capitale dei Lannister a quella che in teoria era la sua, Altogiardino, era riuscito ad andare avanti in pratica rubacchiando un po' di qua e un po' di là. Aveva la fortuna di essere un giovane alto e prestante, dunque minaccioso verso la media dei popolani che abitavano quelle campagne, finché questi ultimi rimanevano disarmati. Quelli invece che avevano in mano un rastrello o una vanga, Gino li evitava. Lui aveva mangiato, bevuto e dormito poco e niente. Il piccolo invece lo aveva nutrito a intervalli regolari, di circa quattro volte al giorno, servendosi di latte di qualsiasi animale rubato dalle stalle, e – intinto in esso – di un panno abbastanza doppio piegato come a simulare una tetta. Lui sapeva che non era la stessa cosa, ma il piccolo pareva apprezzare comunque. Tutto ciò non risparmiò al giovane Lord i pianti notturni, rumorosi e disperati, che arrivavano a prescindere da se il neonato si fosse nutrito o meno. Gli sembrava quasi come se glielo facesse apposta a cominciare a gridare, come se lo stessero maltrattando, specialmente nei momenti più delicati in cui, con suo padre, si trovava da qualche parte che nei pressi di una casa o di una fattoria abitata. Durante esattamente uno di questi momenti di disperazione, all'improvviso, un'idea gli balenò per la testa. Era una cosa anche scontata ma che, sempre a causa di quella concitazione che non l'aveva mai lasciato da quando Daessenya lo aveva fatto evadere dalle prigioni di Castel Granito, a Gino non era ancora arrivata. Lui e il piccolo si trovavano in effetti circa a metà del percorso principale che connetteva le Terre dell'Ovest da quelle dell'Altipiano: un po' prima, per dire la verità. E a quell'altezza c'era un luogo che Gino conosceva bene, anzi quello forse che conosceva meglio in tutto il Westeros: la sua Lungotavolo, il podere dove era cresciuto e dove aveva campato serenamente per tutti i suoi primi quindici anni. Dopodiché, c'era tornato sporadicamente, ma molti vecchi amici erano ancora là. E le case, e le grotte, e gli alberi, e le pareti amiche erano ancora tutte là. Era il luogo ideale dove fermarsi, fare una pausa e concedersi una lunga riflessione. Svoltò dunque verso casa.

Il problema della zona della Dodecapoli era che era molto boscosa e le strade – per lo più viottoli sterrati e veri e propri sentierelli – difficilmente erano dritti e praticabili. Anzi: erano tutti pieni di curve e giravolte, per aggirare questa collinetta piuttosto che quella macchia troppo intricata di piante spinate. Gino e il piccolo c'impiegarono quindi un giorno pieno prima di arrivare al primo piccolo centro abitato dove poter trovare un po' di cibo e una coperta per la notte, e altri due di bosco fitto per raggiungere Lungotavolo, che si trovava esattamente al centro della Dodecapoli: sempre meglio delle ancora circa tre settimane di viaggio che gli sarebbero spettate, se il giovane Lord avesse preso la decisione di scendere direttamente ad Altogiardino. Per fortuna, a Lungotavolo – cosa che non era scontata – ritrovò davvero molte delle cose, come se non fossero cambiate. Anche se ora la famiglia padrona del castello avrebbe dovuto essere quella dei Barthalo, comunque questi ultimi non avevano cambiato pressoché nulla, neanche i drappi della famiglia originaria. Jon, il giovane capostipite dei Barthalo e vecchio amico/nemico di Gino, non aveva mai fatto mistero della sua intolleranza verso la vita periferica che il bosco riservava a tutti i cittadini – nobili o plebei – che risiedevano nella Dodecapoli. Infatti aveva sempre seguito Gino nelle sue imprese presso l'alta corte della capitale che una volta era stata dei Tyrell (e in parte lo era ancora, visto che Shanty Tyrell aveva proprio sposato Gino). Quindi sì: di norma il castello ora apparteneva a Jon, ma di fatto Jon lo aveva lasciato ai suoi vecchi abitanti e ai vecchi scudieri e servitori di Gino. Certi volti furono quelli della memoria: vecchi uomini e vecchie donne della plebe che Gino stava ora solo ritrovando con qualche riga in più, qualcuna più marcata. Certo qualcuno di loro aveva perduto il marito, qualcun altro la moglie, ma le perdite erano state rimpiazzate da altri lavoratori che erano tutti quei bambini e bambine con cui Gino aveva avuto a che fare fin da piccolino. Una in particolare, Peyra, Gino l'aveva sempre considerata come una sorta di migliore amica e confidente, solo che non aveva certo l'età per lavorare, ai tempi in cui entrambi avevano bazzicato Lungotavolo nello stesso momento. Ora Peyra era una sorta di governante, una che conosceva bene ogni angolo e ogni lavoratore della casa: era un po' il ruolo che anche sua madre aveva avuto. Sua madre che – Peyra informò il Lord – era venuta a mancare il mese scorso per via di una polmonite, che però se l'era portata senza troppi travagli e senza troppi pensieri. La signora Peyrette era morta in serenità, e questo era quello che per sua figlia contava.

Peyra,poi, aggiornò Gino anche su un mucchio di altre cose. A partire dalla politica su all'Altopiano, che al giovane Lord giustamente era ormai sfuggita di mano da diverse settimane: più o meno fin da quando i Lannister lo avevano sconfitto in battaglia e preso prigioniero. Sebbene fortissima si era levata la protesta della famiglia Tyrell e dell'a loro sempre più vicino Jon Barthalo, che chiedevano una liberazione senza indugi del giovane loro Lord, il quale Gino ancora era, a quanto pareva, nei corridoi segreti della diplomazia più sussurrata – cosa che Gino aveva in effetti già previsto quasi da subito – si vociferava che chi comandasse ad Altogiardino fosse in realtà piuttosto freddo nel considerare la palese ed unica vera ipotesi realistica: quella del pagamento di un riscatto. Sempre a quanto si diceva, e a quanto Peyra aveva sentito dire da chi a Lungotavolo si occupava di quelle cose, a spingere per una soluzione in positivo erano più che altro ambienti vicini alla Corona, anche se non il re personalmente. Lord Braff insomma, ancora una volta, si stava muovendo in autonomia e in segreto da tutti perché Gino fosse liberato. Caro, manipolatorio Braff: alla fine, quella – più che il suo mestiere – era la sua natura. Se una cosa poteva essere risolta senza offese, senza affronti, e senza scontri, allora il Maestro dei Sussurri c'era sempre e si adoperava per risolvere i problemi. Incredibile come in quegli anni, nonostante il carattere ontologicamente misterioso del personaggio, Gino avesse imparato a conoscere almeno quelle qualità del suo vecchio amico della Capitale. Forse era il caso che, prima di tornare ad Altogiardino, il giovane Lord si recasse da lui alla Capitale. Da Braff e dal re, per realizzare finalmente quel gesto di omaggio da lungo tempo richiesto e rimandato. Braff e il re in effetti erano le persone che più di tutte in quel momento potevano aiutarlo a riprendersi quello che gli spettava, molto più che Jon, Shanty e i suoi parenti che – a quanto diceva Peyra – avevano fino a quel momento fatto un po' le orecchie da mercante. Certo, il neonato non poteva più fare quella vita: aveva già viaggiato parecchio, per essere un esserino di pochi giorni. Bisognava che rimanesse lì a Lungotavolo e che fosse costantemente sotto controllo. Già di Peyra Gino si sarebbe fidato ciecamente, ma certo tutto sarebbe stato perfetto se il giovane Lord avesse saputo che in quel momento a mandare avanti la baracca ci fosse ancora lì il vecchio Rollo. In effetti, il fatto che Gino non l'avesse ancora incontrato era un po' sospetto. Anche se caparbio e pieno di ragioni, Rollo era un uomo molto anziano: era già vecchio quando aveva fatto da precettore a Gino negli anni della sua infanzia. Pensare che anche lui nel corso di quei famosi giorni concitati se ne fosse andato, raggelava il sangue nelle vene del giovane Barron, ma purtroppo non poteva essere un'eventualità da escludere totalmente. Con il cuore di colpo balzatogli in gola, ma voce ferma e piena di serietà, il giovane decise di chiedere alla sua vecchia amica Peyra: «L'ultima volta che eravamo ad Altogiardino, Rollo mi è parso un po' stanco. Così gli ho suggerito di tornarsene qui alla Dodecapoli, a riposare. Lui è...?»

«Vivo. Ma purtroppo non per molto, secondo il curatore»

«La mia decisione lo ha...?»

«Oh, no, Gino: stai scherzando? Assolutamente no. Rollo è un uomo estremamente vecchio. E ha dato a questa vita tutto quello che poteva dare. È giusto che adesso trovi ristoro. Non c'entra niente il viaggio che ha fatto per ritornare a casa. Lui ci ha cresciuti... tutti quanti, con immensa passione. Ci ha reso uomini e donne liberi, perché consapevoli delle cose del mondo. E questo a prescindere da se eravamo figli di un Lord o... di una governante»

«Per me è stato quasi come un padre»

«Per tutti noi, Gino»

«Dov'è ora?»

«A casa sua, circondato dai suoi familiari. Vieni, andiamo a trovarlo». In realtà anche Peyra doveva avere con Rollo un qualche legame familiare, forse era una sua lontana pronipote, o almeno così a Lord Gino pareva di ricordarsi.

I due si recarono dunque alla casa del loro antico precettore, sempre modesta, nonostante i necessariamente lauti onorar che Rollo aveva avuto il modo di accumulare nell'arco della sua lunghissima esistenza. Quando arrivarono, furono sorprendentemente accolti da sguardi come di gioia, oltre che di commozione. Qualcuno disse: «Lord Gino! Oh, è un miracolo!». Gli spiegarono che il febbricitante vecchio ex precettore era da almeno mezza giornata che – ormai quasi sicuramente giunto per davvero alle soglie dell'ultima stazione – invocava il nome del suo giovane Lord, come se volesse dargli un ultimo saluto, un'ultima lezione, prima di congedarsi per sempre. Tutti i presenti avevano preso la situazione per quello che anche Gino l'avrebbe presa: i tipici deliri di un vecchio febbricitante prossimo alla dipartita. Ma la presenza di Gino in quel luogo, giusto in quel momento, non poteva non acquisire quasi il senso di un presagio. Quante probabilità c'erano che, giusto in punto di morte, Rollo invocasse Gino e quello – senza aver ricevuto messaggi di alcun genere – finisse per cercarlo presso la sua casa, dove se ne stava ricoverato? Era uno di quei tanti fatti inspiegabili che nella vita Gino pure non poteva che ammettere con se stesso gli fossero capitati. Come tutta quella questione della spada millenaria e dei suoi possessori: perché proprio a lui? Braff era uno che in questo genere di cose sapeva muoversi, mentre Gino... più che altro ci caracollava. Eppure l'inspiegabile avveniva al mondo. E fortemente lo chiamava, come anche in quell'ultimo caso: quello del suo morente vecchio precettore che lo chiamava dal capezzale.

Gino entrò nella stanza semibuia sommessamente, in assoluto rispetto del momento e della situazione che stava per affrontare. Sarebbe stato il suo secondo lutto personale nel giro di un mese. Rollo era tutto ciò che gli rimaneva della sua famiglia: una volta rotto il legame con lui, Gino aveva sì ancora Lungotavolo, ma poi non molto altro. Ci sarebbero state sempre braccia aperte e un pasto caldo nella sua città natale, ma fuori di essa... il buio assoluto. Solo Braff: che il buio assoluto un po' lo incarnava lui stesso. Di certo Gino non poteva fidarsi del re, visto che era uno straniero che non conosceva. E di certo lui non si fidava dei Tyrell né di Barthalo. Niente da fare: senza neanche più Rollo, a Gino non restava che Lungotavolo e il suo bambino. E come poteva un giovane così a secco di possibilità, riconquistare una delle capitali economiche del Regno?

Peyra era immediatamente dietro di lui nell'ingresso presso la stanza dove Rollo stava riposando; e, dopo di loro, una delle figlie più giovani del vecchio (una donna comunque cinquantenne). Dopodiché basta: i parenti pensarono che in effetti Rollo potesse desiderare di vedersi con Gino in una certa intimità. Giunto proprio al capezzale del maestro, Gino gli prese la mano e sorridendogli, lacrime agli occhi, disse solo: «Oh, Rollo...»

«Mh... mh?» mugugnò il vecchio. Era sveglissimo, ma senza forze. Gino capì subito che non l'aveva riconosciuto, che gli stava domandando chi fosse.

«Sono Gino. Il tuo vecchio allievo»

«V-voi» biascicò ancora il vecchio con fatica «e-eravate un pargoletto. E-e ora s-siete... s-siete... un Lord. Il mio Lord»

«Mi piacerebbe essere degno di almeno la metà dell'affetto che mi dài. E mi piacerebbe esser stato un allievo più in grado di mettere in atto almeno una metà delle tue lezioni»

«L-le lezioni non vanno messe in atto. L-le lezioni danno un modello, da cui r-ricavare poi... la propria storia. Siete stato tra i miei allievi m-migliori, ve l'assicuro»

«E tu il migliore dei maestri»

«Sì, m-ma ora... ora... c'è qualcosa che è n-necessario che facciate. D-dovete, d-dovete... riprendervi ciò che è vostro»

«Altogiardino non è mai stata nostra. Francamente, non solo non so come fare ma... non so neanche più se mi va di farlo»

«No... no... non Altogiardino. Lungotavolo. T-tu devi riprenderti la Dodecapoli»

«Ma la Dodecapoli... è sotto Altogiardino e quindi...»

«N-no! Da quando è Jon il padrone qui, non a-arrivano più finanziamenti. La t-terra sta morendo. Presto arriverà una c-ca... c-carestia»

«Ha ragione» sentì d'inserirsi Peyra, anche lei sommessamente, «pure se pure Jon è di queste zone, in realtà ci ha abbondato. Dirotta tutto quello che prima veniva qui, verso lidi che non conosciamo. Ma pensiamo che c'entri Altogiardino, se non addirittura la Capitale»

«La Capitale?» chiese Gino.

E Rollo: «C'è stato un complotto! Jon, i Tyrell e Lord Braff nel nome del re... l-loro hanno ucciso vostro padre»

«Mio padre? Ma mio padre è stato ucciso da Constant Lannister...»

«Non è così. Vostro padre era in procinto di allearsi con Constant: non si fidava più di Lorthan e Shane e del nuovo re che volevano servire. S'incontrò con Braff e lo fece prigioniero. Lui usò la sua magia e riuscì ad evadere, ma prima di farlo uccise vostro padre. E consegnò Lungotavolo a Jon. Poi accadde che gli stessi Tyrell risultarono a un certo punto scomodi al nuovo re, e così misero voi su ad Altogiardino. Ma questo non cancella il complotto originario: i Tyrell, i Barthalo, Braff e il re. L-loro si liberarono di vostro padre, e poi s-sì vi hanno messo ad Altogiardino: ma sotto il loro controllo. F-facendovi dimenticare della Dodecapoli. Tornate alla Dodecapoli, Lord Gino. Tornate alla Dodecapoli, m-mio Lord».

Fu dicendo queste ultime parole che Rollo chiuse per l'ultima volta i suoi occhi stanchi ed esalò il suo ultimo respiro. Sebbene probabilmente non avesse mai preso una spada in tutta la sua vita, Gino aveva imparato a conoscere Sir Rollo come un uomo dall'azione controllata, ma decisa. Difficilmente avrebbe detto quelle parole se non fosse stato sicuro del fatto suo, anche se Gino non riusciva a capacitarsi il perché non gliel'avesse detto prima. Era come se Rollo avesse scoperto di quel complotto solo recentemente. E poi... Braff uccidere suo padre? In realtà, sì, era vero: tutto tornava. E questo significava che Gino non aveva alcun motivo per odiare re Constant, ma ne aveva di numerosi per odiare Lord Braff e il re che serviva. Il re presso il quale lui aveva deciso di recarsi, almeno prima che il vecchio Rollo non gli rivelasse tutto quello che aveva saputo. “Come l'hai saputo, Rollo? E chi te lo ha raccontato? E perché lo ha fatto?”; queste domande nella testa di Gino sarebbero rimaste senza risposta purtroppo. Eppure avevano avuto un nuovissimo e del tutto inatteso effetto: Gino era tornato a dubitare. Poteva più fidarsi dell'uomo che il più caro dei suoi amici considerava un assassino? Anzi niente meno che l'assassino di Lord Barron di Lungotavolo. Gino non aveva mai avuto chissà quali rapporti con il suo severo padre, ma suo padre aveva avuto la lungimiranza di affidarlo fin da piccolo a Rollo. E tutto quello di buono che Gino era divenuto, lo doveva al caro, affezionatissimo, vetusto Rollo. No: non avrebbe mancato di rispetto al più caro dei suoi amici e al più savio dei suoi mentori. Se Rollo aveva pensato che Braff e il re, come Jon e i Tyrell, fossero dei traditori, allora con questa consapevolezza Gino sarebbe andato avanti. Ma aveva bisogno di Braff e del re, adesso. L'unica cosa di nuovo era che finalmente li avrebbe trattati con gli stessi modi con cui loro avevano trattato lui sino a quel momento. Con le belle parole, e tanta manipolazione. Era un modo di fare e di essere che non gli apparteneva: non sapeva se sarebbe stato bravo. Tuttavia, ora che Rollo era morto, gli rimaneva l'unica vera carta spendibile da giocare nel gioco dei troni.

 

 

 

Stancamente, Hana riaprì gli occhi. C'era un enorme frastuono attorno a lei. Anzi, non era un frastuono: erano suoni normalissimi, ma che per qualche motivo alle sue orecchie... rimbombavano. Si attutivano e poi riesplodevano. Ricordò subito chi era e che cosa stava facendo prima di addormentarsi: stava per avere il suo bambino. Stava litigando con il re suo marito, e poi si era sentita male e... il bambino aveva preteso di venir fuori, forse con qualche giorno di anticipo rispetto a quello che i maestri curatori avevano vaticinato. La cara, paffuta, Septa Yullhia le venne incontro, con un sorriso rassicurante. Le disse: «Altezza, come vi sentite? Avete perduto molto sangue, siete debilitata»

«Stanca. Come se non riuscissi a muovere un arto»

«Provateci». Hana alzò il braccio destro. Non sentì che si stava muovendo, ma lo vide muoversi: era bello arzillo. Ancora Yullhia: «Le funzioni corporali sono tutte a norma. Ci avete solo fatte prendere uno spavento». Il sorriso della santa donna era veramente giulivo, Hana quasi l'avrebbe abbracciata, se solo ne avesse avuta la forza. Si osservò un po' attorno. Era in una delle sue camere da letto, anche se non la principale, e in stanza – oltre a lei e alla Septa – c'era anche un maschio: il curatore che l'aveva aiutata a tirar fuori il piccolo. Di spalle, costui stava armeggiando con una brocca d'acqua e degli attrezzi: probabilmente stava ripulendo. Hana si rese dunque conto che sì: mancava qualcosa. In quella camera non c'erano i vagiti di un lattante. Si preoccupò. La Septa glielo lesse negli occhi e, accarezzandole i capelli, fece: «No, Altezza, Altezza... non c'è da animarsi: il piccolo sta bene. È già stato nutrito e si è anche calmato. Voi siete stata sedata, quindi vi siete persa il momento esatto, ma... lui sta bene, è con suo padre ora»

«Voglio vederlo. Septa, voglio vederlo adesso»

«Ehm... S-sì...» balbettò quella, con un certo e sospetto imbarazzo. Si rivolse al curatore: «Maestro, la regina vuole vedere il bambino»

«Ah» fece quello, anche lui con uno strano tono di voce, «Sì, è ovvio. Andiamo», e rapidamente i due uscirono dalla stanza. Hana s'era aspettata che almeno uno dei due restasse, mentre l'altro andava a prendere il piccolo: non funzionavano così questo genere di cose? Per lei era tutto nuovo giustamente: quello era il suo primogenito. Decise di lamentarsi: era la regina, ed era una mamma ricoverata, era un suo diritto. Disse con la forza che poteva recuperare: «No! Dove andate? Che uno resti qui! Che uno resti qui con me!». Non la degnarono di alcuna risposta. Si sentì all'improvviso tutto il contrario di una regina. Anzi si sentì come al tempo in cui, per diverse settimane, il suo regale marito l'aveva rinchiusa in una torre: prima che considerasse la possibilità di sposarla. Fragile quindi, e vulnerabile, e piccolissima. Ma durò poco. Qualcuno arrivò abbastanza presto, ma senza portare il bambino con sé.

Il Gran Maestro Irwin era un uomo molto giovane: doveva avere più o meno l'età di Hana, e dunque persino qualcosa meno dello stesso re Gabryaerys, il quale era a sua volta notoriamente uno dei monarchi più giovani mai assurto al Trono di Spade. Eppure Irwin, come Gabryaerys, era stato in grado di raggiungere uno status di elevatissimo prestigio e potere e un incarico, unico nel suo genere, che – Hana immaginava – doveva essere ben complesso da agguantare! Lei non ci aveva mai avuto molto a che fare: tutte le volte che aveva incontrato il Gran Maestro, i due non erano stati soli: riunioni del Concilio del re o feste ufficiali, cose così. Quella volta invece Irwin, con i suoi fluenti riccioli biondi e i suoi estremamente fascinosi occhi azzurri, si recò da lei da solo. In una circostanza del tutto fuori luogo per Hana, benché logica a ben pensarci: a corte era noto che il Gran Maestro aveva qualcosa a che fare con il vecchio mondo religioso della città, Septe e Septon in particolare. O meglio: Hana non sapeva quanto questo fosse noto, per esempio non aveva idea se Gabryaerys lo sapesse, ma ai tempi del breve regno di suo fratello Axelion, invece, ad Hana risultava che almeno metà del Concilio Ristretto ne fosse al corrente. Ora, non solo il Gran Maestro Adlai era quindi amico dei preti, ma era anche il capo assoluto del potere scientifico in città, l'ultimo decisore insomma (Sua Maestà esclusa) per tutto ciò che riguardava l'istruzione, l'educazione, le scuole, gli ospitali. E quindi ecco spiegata la facilità con cui, nella circostanza in cui lei aveva appena partorito, Irwin riuscì a trovare un modo per rimanere da solo con lei. Sia la Septa (più indirettamente) che il curatore (direttissimamente) erano dei più o meno suoi sottoposti. Era anche molto inquietante poiché, al di là dell'espressione affabile che aveva nel viso, quello che il Gran Maestro in quell'esatto momento poteva concretizzare nei suoi confronti poteva persino essere una minaccia. Forse non ne era esattamente il tipo (non era quella l'impressione che Hana aveva di lui), ma a Roccia del Re tutto poteva essere. Nonostante la debilitazione, nonostante la stanchezza, la regina decise quindi di reagire nel solo modo che sapeva. Contraccambiò Irwin con un sorriso pure lei, e disse con enorme formalità: «Mio Lord Gran Maestro, sono lieta di vedervi. Vi siete occupato personalmente del parto?»

«N-no io...» rispose quello, forse preso un po' di sorpresa, «sono più un teorico, Altezza. Ma naturalmente vi ho affidato al migliore dei cerusici per parti che le scuderie reali erano in grado di fornire, al momento un po' improvviso del travaglio. In realtà è il secondo migliore a Westeros, il primo si trova alla Cittadella, purtroppo. Chiedo venia, ho fatto del mio meglio»

«Scherzate? Avete fatto benissimo. Molto più del vostro dovere. Posso vedere il piccolo?»

«S-sì, Altezza, ma prima... vi starete chiedendo il perché della mia improvvisa visita, subito dopo il vostro risveglio...»

«Me lo chiedo, ma avrei la priorità di vedere mio figlio, prima»

«Maestà... è necessario che io vi parli viso a viso, prima che le circostanze non possano più permettercelo. E temo che andranno sempre più rarefacendosi»

«Vi assicuro che una volta portatomi il principe, io...»

«Oh, benedetta figliola, lui è sano e in salute: ve l'assicuro. Attendete un momento, il tempo di una comunicazione...»

«Sapete, non capita spesso che un uomo della vostra età mi chiami figliola»

«Preferireste... Hana?»

«Perché, avete terminato i “Vostra Altezza”?»

«No» chinò il capo Irwin, contrito, «certo»

«Comunicatemi dunque. E poi portatemi mio figlio»

«Lady Hana, voi sono sicuro che sapete che... io possiedo una corrispondenza particolare con certi ambienti del Credo dei Sette»

«Certo che lo so»

«E Sua Maestà il re ne è al corrente?»

«Non lo so. Io non gliene ho mai parlato. Ma posso dirvi che, sulla carta, finché non si tratti di un pericolo per la mia vita o per quella del bambino che è appena nato, il Credo avrà sempre una ferma alleata nella mia persona. Sono cresciuta sotto l'ala dei Sette Dèi»

«Benissimo. Voglio che sappiate che vi basta un cenno, una missiva ben serrata, perché io mi mobiliti per mettervi in comunicazione con loro, qualora lo vogliate»

«Vi ringrazio, ora...»

«Volete che vi porti vostro figlio, certamente. È in arrivo. Nel frattempo, Altezza, devo chiedervi: voi avete avuto modo di riflettere sulla cerimonia di battesimo del piccolino? E... confrontarvi con il re in merito a questo?»

«Sì. Si farà secondo il rito tradizionale, che al re questo piaccia o meno»

«E per quanto riguarda Yashua...?»

«Beh, conta meno del re per quanto mi riguarda. Vi ripeto: l'unica cosa che potrebbe farmi cambiare idea, sarebbe la minaccia di un serio pericolo per me e per il mio bambino. Ma farò quanto in mio potere perché la situazione sia risolta secondo il nostro... a quanto pare comune interesse, Gran Maestro»

«Allora è tutto» sorrise Irwin «Ricordate quello che vi ho detto in merito al ponte di congiunzione fra voi e il Credo. Sia io che Septa Yullhia siamo sempre a vostra disposizione»

«Certo, grazie. Ora...»

«Il bambino. Solo un momento» fece Irwin, e le diede le spalle. S'incamminò verso la porta, fece un cenno con la testa a qualcuno e poi si dileguò. Meno di un minuto dopo, Gabryaerys era seduto accanto al letto di Hana, e il pargoletto tra le di lei bianche braccia. Sorridendole, innamorato, quasi commosso, quasi in lacrime, il re stregone fece dunque rivolto alla sua consorte: «Questo è il dono più bello che abbia mai ricevuto», e con estrema convinzione aggiunse anche: «So che non attendi il mio permesso, ma sappi che per quanto mi riguarda possiamo battezzarlo in qualsiasi modo tu preferisca. Quando, dove e come vuoi. Io non entrerò nella scelta: dopo un regalo del genere, questo è il minimo che ti devo». La baciò. Hana si godette il momento: probabilmente non sarebbe durato a lungo. I litigi tiepidi e le incomprensioni celate sarebbero ritornati, magari più duramente di prima. Ma in quel momento, l'unica cosa che lei desiderava era rilassarsi, sentirsi al sicuro, e soprattutto far sentire sicuro il frugoletto che aveva tra le braccia. Lo osservò intensamente per capire a chi somigliasse. Si sentì una madre un po' strana, nel momento in cui – a una prima occhiata – non seppe bene inquadrarlo. Era sicuramente bellissimo, ed era sicuramente profumatissimo di un odore particolare; uno che, a quanto aveva avuto modo di capire, facevano solo i lattanti alle prime settimane. Ma... non era ancora facilissimo distinguerne i tratti. Gli occhi erano sul sottile, come i suoi? Ma chiari, come quelli del re? Niente da fare: troppo presto e troppa stanchezza. Hana decise di limitarsi ad accarezzarlo e, a un certo momento, le sue dita palparono come una specie di indurimento sulla guancetta sinistra del bambino. Il principe aveva una minuscola scaglietta di drago: come quelle che suo padre aveva in buona parte della metà anteriore del corpo.

 

 

 

Sir Elthon Applegate e i suoi ragazzi erano ormai quasi giunti alla piana di Alberocasa. Era stato un lungo viaggio il loro, partiti con l'ordine diretto di Lord Applegate (suo padre) di ritornare solo con il principe Daniel al loro seguito. Daniel infatti aveva promesso a quel Lord dell'estremo nord che lo avrebbe aiutato con gli usurpatori Willoughby che in questo momento occupavano il loro castello e le loro terre. I Willoughby, che dietro di loro avevano niente meno che Uryon Worchester, l'orso del nord, e – più indirettamente – perfino il nuovo re sul Trono di Spade: Gabryaerys Naharis Targaryen. Da mesi ormai, anziché vivere nel castello dove erano cresciuti, gli Applegate (padre e figlio) e i loro cavalieri e cortigiani vivevano sparpagliati per tutto quell'arcipelago di minuscoli villaggi di poche anime che, nei secoli, erano andati formandosi qui e là dove resisteva almeno in parte un po' di vegetazione. Nel bene o nel male, sotto l'egida dell'albero con la mela, quegli uomini e quelle donne avevano vissuto vite abbastanza sicure ed abbastanza serene. Per questo gli Applegate erano amati e rispettati, e per questo i loro ex sudditi – ove potevano – li accoglievano con gioia. L'idea di un loro ritorno, rispetto che quella di un'eterna sottomissione agli stranieri dalla stella bianca incisa sugli scudi, era sicuramente la loro preferenza. Ma ancora per molto così avanti non si poteva andare. Lord Applegate, suo figlio Sir Elthon e tutti i loro consiglieri lo sapevano bene: o in poco tempo succedeva qualcosa in grado di svoltare le dinamiche del conflitto e riprendersi almeno un pezzo del territorio, o gli Applegate e i loro cavalieri avrebbero dovuto mollare anche le case dei loro sudditi più ospitali, al dominio dei Willoughby e lasciare per sempre quei lidi. Il cibo nell'estremo nord era quello che era e, per quanto prima di essere sgombrati dal castello loro fossero stati in grado di trafugarne una buona parte, adesso stava per terminare. Era soprattutto questa la ragione per cui il Lord della mela aveva spinto suo figlio alla ricerca del principe perché mantenesse la sua promessa e, con i suoi poteri di Piromante, abbattesse una volta e per tutte la compagine dei Willoughby.

Ma Daniel, che Elthon e il suo contingente insieme a un piccolo stregone di nome Terwyn erano stati in grado di liberare dalla sua prigionia di Forte Terrore, aveva deciso di non mantenere la sua promessa, o comunque di non mantenerla subito. Dunque era con le mani vuote e il cuore pieno di tristezza che l'erede di Alberocasa si stava recando da suo padre per riferirgli l'amara novità: stavano tutti per lasciare l'estremo nord. Ma l'amara verità invece fu lui a scoprirla non appena giunto al piccolo villaggio di Kramwelth: una sessantina d'anime in tutto, che erano diventate una novantina da quando una parte della corte e del cavalierato di Alberocasa vi si era rifugiata. Tra questi, anche il vecchio Lord. Per qualche motivo, truppe dei Willoughby in gran numero avevano occupato il villaggio. Anzi, il motivo poteva esserci, anche se Elthon rifiutava di crederlo: qualcuno aveva tradito. Qualcuno nel villaggio aveva soffiato a una qualche autorità vicina alla stella del nord, che il Lord e parte dei suoi cavalieri erano lì e ora... che ne era d suo padre?

I cavalieri che Elthon si portava appresso, erano i migliori della bianca piana, dunque abbastanza eclettici: portati sì per la battaglia, ma anche per missioni più delicate come quella – riuscita – di andare a recuperare il principino dai poteri di fuoco, giù nella parte più meridionale del Grande Nord. Adesso bisognava entrare a Kramwelth senza entrare a Kramwelth, cioè farlo riuscendo a mantenersi nascosti dai troppi soldati della stella del nord che ronzavano per quelle quattro stradine. Se lo scontro fosse accaduto direttamente, Sir Elthon e i suoi sarebbero stati fottuti. Elthon domandò al più anziano dei suoi cavalieri, più anziano anche di lui, Sir Brotch, come organizzare quello che aveva in mente. Innanzitutto Brotch gli disse che per quella missione erano in troppi: loro erano circa una dozzina, qualcosa di più. Bisognava entrare in tre o in quattro. Alla fine si optò per il numero di cinque, inclusi gli stessi Elthon e Brotch. Guidati dalla sapiente esperienza di quest'ultimo, si mossero con agilità, come spie. Uccisero parecchi Willoughby accoltellandoli alla gola, dopo averli sorpresi dalle spalle. Fecero parecchia strada in questo modo, tanto che a un certo momento cominciarono a sentirsi sicuri. Il nuovo problema ora era: dove si trovava il Lord padre di Elthon? Dove lo tenevano nascosto? Era incatenato? Tutte queste erano domande che non avrebbero avuto risposte se non avessero interrogato qualche d'uno. Lo fecero: ma il primo appuntato che trovarono, non sapeva proprio niente. Gli diedero un colpo in testa e proseguirono. Il secondo, l'indirizzò verso un generico piazzale su una collinetta di neve rialzata e lì, poco oltre, una struttura militare temporanea. Diedero un colpo in testa anche a lui e proseguirono ma, per sicurezza, decisero di fermare un terzo soldato, il quale confermò l'esistenza della struttura, ma disse alla squadra degli Applegate di svoltare sulla sinistra anziché sulla destra, come a loro risultava. Si sentirono perduti, ma continuarono con solerzia e convinzione. Purtroppo, marciando costantemente a una certa velocità ma sforzandosi di risultare silenziosi, accadde che all'ultimo dei loro venne per pura sfortuna a cadere un pugnale dalla fodera. Esso rimbombò contro il sentierello roccioso. Un arciere posto su una struttura sopraelevata che dava l'idea di un vecchio carro dismesso con le ruote fuori asse, vide l'uomo di Elthon e lo colpì al petto, uccidendolo quasi sul colpo. Poi, gridando, denunciò la loro presenza al villaggio intero.

I cavalieri di Lord Elthon combatterono valorosamente, fino allo stremo delle forze, come Elthon non li aveva mai visti in vita sua. E li aveva visti spesso in azione: avevano affrontato insieme mille battaglioni e contingenti. Una volta, tra le lande desolate del nord anche oltre l'Ultima Porta, avevano pure avuto a che fare con un gigante, anche se in quel caso lo scontro si era risolto in parità: nessuno di loro ci aveva lasciato le penne, nonostante qualche osso rotto, e a il gigante a sua volta era riuscito a correre via, spaventato e con la coda tra le gambe, ma comunque in piedi. E ora quell'ultima impresa alla torre dei Bolton, non era stata mica semplice come il principe Daniel avrebbe potuto pensarla. Scoprire lui dove si trovasse, interrogare mezzo nord, avventurarsi fin quasi alla Grande Quercia – oltre Dunwark – e parlare con il misterioso piccolo stregone che poi aveva scelto di accompagnarli... tutto questo era stata una grande avventura. Una grande avventura che Elthon era stato lieto di condividere con quei ragazzi.

Circondati da nemici palesemente più scarsi e meno addestrati all'arma bianca di loro, ma in numero spropositatamente più grande, alla fine Sir Elthon della Casa Applegate li vide cadere uno ad uno. Prima Chett, poi Leghonwolf e infine anche il vecchio, grosso e burbero Brotch che, nel tirare le cuoia, con già almeno un due o tre dardi conficcati in varie parti del corpo, si portò appresso altri due Willoughby, tirandoli a sé e conficcandoli sulla punta del suo spadone, prima che anche le loro spade gli trapassassero definitivamente il ventre e lo stomaco. Brotch sputò del sangue prima di morire e poi, rivolto ad Elthon, con sguardo vispo e quasi sereno, annunciò: «Per Alberocasa!».

Quei quattro cavalieri erano appena morti per Alberocasa, per la liberazione della terra dove erano cresciuti, e che adesso si trovava violentemente e coercitivamente occupata dagli uomini della stella. Erano morti per un'ideale di libertà. Ed Elthon non poteva deluderli. Non poteva fare diversamente: continuò a combattere fino all'ultimo respiro, nell'assoluta convinzione che fosse giunto il suo momento. Che Alberocasa l'avesse chiamato, e che sulla sua terra innevata lui avrebbe esalato il suo ultimo respiro. Come un figlio dell'estremo nord doveva morire: avvolto nel manto candido della terra che lo aveva accolto, fatto suo per una vita intera, anche se la vita di un cavaliere ancora giovane.

Un colpo nemico che non aveva visto, costrinse a un certo punto il giovane e biondo Sir a poggiare un ginocchio. Lì capì che era finita. Elthon chiuse lo sguardo, convinto che ormai prossimo sarebbe arrivato il colpo alla schiena o al collo, per spiccargli via la testa. Invece quello che gli giunse fu una voce. Una voce gracchiante, catarrosa, ma non troppo bassa. Elthon riaprì gli occhi: la voce apparteneva a quello che presumibilmente doveva essere il comandante di quel campo occupato. Era un vecchio un po' curvo, dal sorriso maligno e le borse sotto gli occhi più gonfie che il Sir avesse mai veduto. «Siete Sir Elthon» fece il vecchio «niente meno che il rampollo degli Applegate. Merce pregiata. Mi presento: il mio nome Hennycker. E ho l'ultima parola in tutto quello che succede dentro questo accampamento»

«Porco di un Willoughby» replicò Elthon orgoglioso. Sputò ai piedi del comandante dell'accampamento (in realtà aveva mirato più in alto, ma dalla posizione in ginocchio cui si trovava, la mira non era stata delle migliori). Quindi continuò a testa altissima: «Uccidetemi ora! E fate di me un martire. Il martire delle terre bianche occupate»

«Ma se ho appena detto che per me siete merce pregiata» fece ancora Hennycker. Schioccò le dita e qualcosa si mosse tra le fila numerose dei soldati Willoughby che erano accorse. Elthon vide suo padre il Lord, incatenato e grondante sangue. Ancora Hennycker: «Ne consegnerò ben due a Lord Waldo, e lui farà di me come minimo il suo secondo in comando in tutto il Nord estremo. Voi, signori, siete ogni garanzia che ho per la mia vecchiaia»

«Signore!» esclamò qualcuno dal manipolo. E un altro ugualmente, pochi attimi dopo: «Signore!». A questo punto fu lo stesso comandante a dire, guardando in alto, dietro Elthon: «Ma che cazz...». Elthon a sua volta, si voltò come poteva; vide un bagliore. Un bagliore di fuoco incantato che colpì d'improvviso l'attenzione di tutti. Rapido e terribile come la mannaia di un boia, s'abbatte sui suoi nemici, lasciandoli inermi. Era il principe Daniel. Era lui, ma non era lui. Era un uomo diverso rispetto a quello che, fino a poche settimane prima, Sir Elthon e i suoi avevano salutato presso il bivio sulla via della Grande Quercia. Il vecchio principe Daniel non sapeva fare quelle cose! Si muoveva come scivolando al di sopra di una lingua di fuoco che lui stesso creava e da lui stesso si estingueva, e che lasciava abbrustolito tutto quello che toccava. E poi anche i capelli del principe sembravano presi da un qualche stato di magia: erano di fuoco! Le sue sopracciglia erano di fuoco, e più inquietante di tutte: anche le sue pupille erano di fuoco. Un campione completamente fuori da qualsiasi schema umano, sbaragliò ovviamente tutti quei nemici senza neanche il rischio di un piccolo contraccolpo. In poco tempo, gli uomini e gli stendardi dei Willoughby a Kramwelth furono cenere.

Successe tutto molto rapidamente. Subito dopo aver pronunciato quella sua ruvida esclamazione di stupore, il comandante Hennycker disse anche: «È il Principe Piromante! Ritirata! Portate via i prigionieri!». Si mise in moto con uno scatto di sorprendente velocità per essere un vecchio mezzo curvo e, per di più, con indosso un'armatura di evidente peso medio. Praticamente sparì prima ancora che Elthon comprendesse che cosa fare. Il Sir degli Applegate tentò primariamente di tenere sott'occhio dove i Willoughby portassero il suo prigioniero padre, incatenato e vessato molto più di quanto non fosse lui medesimo. Ma, per sua grande contrizione, lo perse. L'arrivo di Daniel aveva causato troppa confusione. Troppi soldati alti, grossi e armati fino ai denti, fino a un momento prima pronti a tagliargli la testa, scappavano ora a destra e a manca, avvolti nelle fiamme. Elthon riuscì a liberarsi: tirò lungo e improvvisamente la catena verso di sé, colpendo uno dei suoi aguzzini. L'altro lo eliminò con uno spadino che riuscì ad acchiappare dal terreno, improvvisamente ritrovatosi coperto di metalli e ferri caduti. Si guardò intorno. Non vide più suo padre. Lo chiamò; lo chiamò disperatamente. Ma giusto nel tempo che ritrovò il suo equilibrio, anche il nuovo e potentissimo principe Daniel aveva terminato il suo lavoro. Metà dei Willoughby di Kramwelth (comandante incluso) erano riusciti a scappare via, e metà avevano preso fuoco. Daniel scese dalla sua lingua di fiamme incantate, estinguendola, e all'improvviso si spense anche il fuoco dei suoi occhi e dei suoi peli. Aveva una barba un po' lunga: pareva invecchiato. Gli venne incontro. Elthon ammise: «Non sapete quanto lieto io sia di vedervi mio Lord, mio re»

«Lord va già bene, Elthon» fece il principe, aiutandolo a mettersi ben ritto. «Ma il vostro unico re» continuò «è un infante, e si chiama Napoleon Lannister».

   
 
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