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Autore: Soul of Paper    03/10/2021    5 recensioni
[Imma Tataranni - Sostituto procuratore]
Lo aveva baciato e gli aveva ordinato di dimenticarselo. Ma non poteva certo pretendere dagli altri ciò che non riusciva nemmeno a fare lei stessa. Imma Tataranni - Imma x Calogiuri
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nessun Alibi


Capitolo 63 - La Rabbia


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Allora, dove si trovava ieri sera dalle diciotto in poi?”

 

Santoro, col tono più duro che aveva, lo aveva iniziato a riempire di domande da quando era stato accompagnato nella sala interrogatori da Carminati e Rosati.

 

“Non ho chiesto un avvocato, cosa che sarebbe un mio diritto, ma voglio che questo interrogatorio venga registrato e che sia presente anche il maresciallo Mariani come testimone, visti i pregressi tra di noi, dottore.”

 

“Non è nelle condizioni di porre condizioni, Calogiuri e-”

 

“E o è così o parlerò solo in presenza di un avvocato. Decida lei cosa preferisce, dottore. Ma è un mio diritto ed intendo esercitarlo, se questo interrogatorio non avverrà almeno in condizioni minime di tutela nei miei confronti.”

 

Le vene di Santoro parvero volergli esplodere sulle tempie, ma si impose di ricambiare lo sguardo fisso del magistrato, senza cedimenti, seguendo sia gli insegnamenti di Imma, sia quelli dello studio per il concorso da capitano.

 

Alla fine Santoro fece un cenno verso Carminati e quel maiale uscì, anche lui palesemente furente, tornando dopo un po’ con Mariani - che fu come un’oasi nel deserto, nonostante gli parve anche parecchio preoccupata - ed un registratore.

 

“Allora, dov’era ieri sera dalle diciotto in poi?”

 

“A casa. Cioè, a casa mia e della dottoressa Tataranni, con la dottoressa Tataranni. Da quando sono tornato lì non sono mai più uscito, vista la situazione coi giornalisti,” rispose e vide Mariani registrare e prendere nota.

 

“Quindi mi vuole far credere che lei non è uscito per…” esordì Santoro, consultando poi un tabulato, “sedici giorni?”

 

“No.”

 

Alla sua risposta secca e decisa, Santoro sembrò perdere ancora di più la pazienza e, dopo un attimo di esitazione, gli gettò davanti un fascicolo aperto.

 

Un conato di vomito lo scosse, la testa che gli girava.

 

“Oh mio dio! Ma mo come sta, è ancora viva?!” chiese, senza poterlo evitare, perché quella maschera di sangue non gli sembrava neanche Melita.

 

“E lei come fa a sapere di chi si tratta, maresciallo? Questa donna è irriconoscibile!” obiettò Santoro e Calogiuri si diede dello scemo da solo: lo sapeva ma non avrebbe dovuto saperlo. E questo poteva farlo sembrare colpevole.

 

Pensa, stupido che non sei altro, pensa!

 

“A parte che, visto che sono stato fermato proprio io, è chiarissimo di chi si tratti, e poi l’attaccatura dei capelli ed il segno sul sopracciglio sono inconfondibili.”

 

Santoro, che era stato proiettato verso di lui, con aria trionfante, emise una specie di grugnito e si sgonfiò, tirandosi leggermente indietro, come se stesse pianificando la mossa successiva.

 

Lanciò un’occhiata a Mariani, che lo squadrò come a dire non fare lo scemo!

 

Doveva pesare ogni parola, doveva essere più prudente, non doveva farsi fregare.

 

Per se stesso, per Imma e anche per Melita, che, per quanto lo avesse incastrato, non si meritava di finire così.

 

Chi ti ha fatto questo? E come ti ci hanno tirata dentro in questa storia? - le chiese e si chiese, silenziosamente, sperando che si salvasse e, soprattutto, che potesse ancora avere una vita degna di essere definita tale.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottoressa!”

 

Non era il solito saluto un poco annoiato: gli agenti di guardia all’ingresso della procura erano palesemente sorpresi di vederla.

 

Del resto era comprensibile: era domenica, giorno libero, salvo emergenze, ed inoltre sicuramente sapevano quello che stava succedendo con Calogiuri.


Si limitò però a rispondere con un cenno del capo ed entrò, più decisa che poteva: nessuno le poteva impedire di stare lì, almeno fino a che Mancini non l’avrebbe, prevedibilmente, sospesa. E doveva capire cosa stava succedendo, come procedeva l’interrogatorio di Calogiuri e-

 

“Dottoressa.”

 

Questa volta non c’era sorpresa, ma il suo titolo era stato declinato in quel modo viscido e greve tipico di…

 

“Carminati, che c’è?”

 

L’agente si avvicinò sembrandole sempre più un roditore, un topo, anzi, una pantegana.

 

“Ho l’ordine di portarla subito in una sala interrogatori, dottoressa. Mi segua.”

 

Ci stava godendo come un riccio, e non faceva manco niente per nasconderlo. Evidentemente Santoro lo aveva piazzato lì a farle l’agguato, nel caso si fosse fatta vedere.

 

Avrebbe potuto opporre mille proteste, ma, in fondo, se giocava bene le sue carte, poteva aiutare Calogiuri testimoniando anche lei. Pure se difficilmente le avrebbero creduto.


E poi magari avrebbe ottenuto qualche informazione in più, anche se carpita tra le righe, di come stesse andando lui nel rispondere alle domande.

 

Quindi, per una volta nella sua vita, seguì Carminati senza troppe proteste, pur mantenendo la distanza di sicurezza, che con lui era ancora più ampia che con il resto dell’umanità.

 

Finì nella sala interrogatori numero due, chiedendosi se nella uno ci fosse il suo Calogiuri. Ma tanto erano così insonorizzate che, salvo miracoli, non avrebbe potuto capirlo.

 

E poi Carminati uscì.


Attese.

 

Uno, due, cinque, dieci minuti, mezz’ora, cinquanta minuti.

 

Santoro lo stava facendo apposta, era evidente, per snervarla e per prendersi qualche rivincita, tipica di un maschio omega che si credeva un alpha.

 

Chiunque la conoscesse almeno un minimo sapeva perfettamente che una delle cose che detestava di più in assoluto, insieme ai maleducati, agli impiccioni e agli evasori fiscali, era proprio perdere tempo.

 

Gli avrebbe concesso ancora una decina di minuti al massimo e poi l’avrebbero sentita, molto più di quanto avrebbero voluto.

 

*********************************************************************************************************

 

“E quindi in queste settimane lei è rimasto tutto il tempo a casa della dottoressa Tataranni, nessun contatto con il mondo esterno?”

 

“Visto come mi sta trattando il mondo esterno, ne facevo volentieri a meno, grazie, dottore.”

 

Santoro ormai era paonazzo, si era pure slacciato i primi bottoni della camicia. Gli sembrava di essere lì dentro da un tempo infinito, a rispondere grossomodo sempre alle stesse domande. Quello stronzo sperava di beccarlo in qualche contraddizione, a furia di ripetizioni, ma alla fine, a parte omettere delle indagini parallele con Imma, Irene e per ultimo il beccamorto, stava semplicemente dicendo la verità.

 

“Senta, Calogiuri, parliamoci chiaro, lei è l’unico che può avere interesse a vedere Melita morta!”


“E no, dottore, anzi. Perché mai avrei dovuto ucciderla proprio mo, che tutti avreste subito pensato a me? Chi ha fatto questo è chi ha cercato e sta cercando di incastrarmi, probabilmente per distruggere il maxiprocesso, e l’ha messa a tacere prendendo pure due piccioni con una fava. Toglie di mezzo a me e a lei.”

 

“Ancora con le sue fantasie e le sue manie di grandezza, Calogiuri? Ma che pensa davvero di essere così importante?” lo derise Santoro, in un modo sprezzante, talmente vicino che sentiva le gocce di saliva sul viso.

 

Cercò in ogni modo di trattenersi, per l’ennesima volta quel giorno, di non dargli quello che voleva, di non cedere alle provocazioni e-

 

E la porta si aprì, rivelando il muso suino di Carminati.

 

“Carminati, che c’è?” chiese Santoro, irritato, ma Carminati gli fece cenno di avvicinarsi e gli bisbigliò qualcosa.

 

Santoro fece un mezzo sorrisetto che non prometteva niente di buono e con un “Rosati, lo tenga d’occhio!” uscì insieme al porco.

 

Erano proprio un’accoppiata perfetta.

 

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“E alla buonora!” esclamò, incrociando lo sguardo di Santoro, che si era finalmente degnato di presentarsi, dopo più di un’ora di melina, con il porchettaro appresso.


“A differenza sua, dottoressa, avevo e avrò ancora molto da lavorare, io.”

 

Bastardo!

 

Il puro godimento che leggeva negli occhi del caro collega nel girare il dito nella piaga e nel ricordarle che, presumibilmente, sarebbe ben presto stata sospesa, le fece montare una rabbia tremenda di fronte a tutta quella ingiustizia. Che uno così potesse spadroneggiare e fare del suo lavoro una vendetta personale, mentre chi davvero provava a cambiare le cose, si trovava schernito, incastrato, nei guai, a doversi difendere colpo su colpo.

 

Ma se pensava di farle perdere il controllo e di fregarla, non sapeva ancora chi era Imma Tataranni.

 

“Dov’era ieri dopo le diciotto?”

 

Dritto al punto. Ma pure lei lo sarebbe stata.

 

“Santoro, parliamoci chiaro: non risponderò ad alcuna domanda in presenza soltanto di lei e Carminati. Voglio che sia presente anche il dottor Mancini.”

 

“Il dottor Mancini è molto impegnato e lei non è nella posizione di dettare legge-”

 

“O è così o chiamo un avvocato, Santoro.”

 

“Suo fratello magari? Ah, no, purtroppo è agli arresti! Però le rimane suo nipote.”

 

Le unghie ancora un po’ le spaccarono i palmi: quanto avrebbe voluto tirargli un pugno! Ma per uno così non serviva sporcarsi le mani, anzi.

 

“Santoro, l’ho già aspettata per più di un’ora, cosa che normalmente non farei mai, proprio perché non ho niente da nascondere e voglio collaborare. Ma non sono nata ieri e voglio farlo con persone imparziali e che non abbiano un grave pregiudizio nei miei confronti che, con queste affermazioni, lei non fa altro che confermare. Anche perché non ho avuto proprio nessuna convocazione ufficiale e non sono tenuta a stare qui. Quindi a lei la scelta. Posso sempre andare a parlare con il dottor Mancini non appena uscita da questa stanza.”

 

Il volto di Santoro si contorse in una maschera di rabbia e pure i suoi palmi non dovevano essere messi meglio dei suoi, anzi, ma quasi si lanciò fuori dalla porta, lasciandola sola con quel porco di Carminati.

 

“Devo dire che sta molto meglio vestita da casa, dottoressa. E pensare che avevo regalato un completino a Calogiuri, che secondo me lei avrebbe molto apprezzato, visti i suoi gusti, ma non lo ha voluto. Ma tanto ci ha già pensato da sola.”

 

Eccalà! Non perdeva tempo per fare le sue battute da maniaco.

 

Avrebbe potuto zittirlo, sarebbe bastata una frase ben piazzata, cretino com’era, ma lo lasciò volutamente proseguire, sapendo benissimo che quelle che stava facendo erano configurabili come molestie sessuali e sperando che Mancini arrivasse prima che Carminati si facesse abbastanza furbo da serrare quella fogna che teneva al posto della bocca.

 

“L’altro giorno ho visto una vestaglietta tigrata che sarebbe perfetta, magari la prossima volta che passo dalle sue parti gliela porto e-”

 

“Carminati!”

 

Il porco fece un salto, mentre lei si dovette trattenere dal ridere: Mancini era arrivato, silenzioso come al suo solito, e lo aveva beccato in pieno. Ed era assolutamente furioso.

 

“Do- dottore, non è come-”

 

Per tutta risposta, lei estrasse il suo telefono dalla tasca, proclamò “nel dubbio che non stessero registrando loro, mi sono premunita io!” e fece sentire a Mancini esattamente cosa era uscito sia dalla bocca di Santoro che da quella di Carminati.

 

Mancini la guardò mortificato, manco le avesse dette lui quelle schifezze, e poi si rivolse a Santoro e Carminati in un modo che entrambi gli uomini - se così si potevano definire! - fecero un passo indietro.

 

“Dottore, è la dottoressa che mi ha provocato e comunque registrare gli interrogatori senza avvisare è illegale e-”

 

“Ed invece condurre un interrogatorio in questo modo, a maggior ragione ad una collega, secondo lei è legale Santoro? Sulla parte di Carminati neanche mi esprimo, perché sarebbe come sparare sulla crocerossa.”

 

“Carminati, esca e poi facciamo i conti dopo. L’avevo pure avvertita, ma qua un provvedimento disciplinare non glielo toglie nessuno, oltre al fatto che sentire certe affermazioni mi fa vergognare non solo di essere il suo superiore, ma anche di appartenere al genere maschile.”

 

“Ma… ma dottore.”

 

“Esca!” gridò Mancini, puntando il dito verso la porta e Carminati, capendo che marcasse male, non se lo fece ripetere due volte.

 

“In quanto a voi due,” proseguì il procuratore capo, alternando lo sguardo tra lei e Santoro, “visti i… conflitti in essere tra di voi, assisterò all’interrogatorio. Ma interverrò solo qualora lo riterrò necessario, intesi?”

 

“Per me va benissimo, dottore,” accettò, perché sapeva che lasciare condurre le domande da Santoro era fondamentale per non sembrare che fossero concordate tra di loro.

 

E pure al collega toccò accettare.

 

“Allora, dottoressa, le ripeto la domanda: dove si trovava ieri dalle diciotto in poi?”

 

Imma prese un respiro, guardando Mancini in quella che era una richiesta non verbale di sapere se Calogiuri avesse mantenuto la versione concordata.

 

Mancini fece un cenno quasi impercettibile del capo, ma capì dall’espressione che si erano intesi.

 

“Ero a casa, con il maresciallo Calogiuri.”

 

“Qualcuno che lo può confermare?”

 

“Non credo... ma credo potreste avere conferma, dai controlli incrociati che sapete fare meglio di me, che il maresciallo era da praticamente due settimane che non usciva da casa nostra. Da quando ci è tornato, per essere precisi.”

 

“E come mai non ha detto a nessuno che il maresciallo fosse rientrato… presso la vostra residenza? Considerando anche il grave conflitto di interessi….”

 

Si voltò verso il procuratore capo, perché era stato lui a farle quella domanda, e la delusione che gli percepiva nella voce non era affatto una recita. Sperava fosse un modo di Mancini di reggere la parte con Santoro e non dare l’idea di favorirla in alcun modo, perché, se avesse provato a fregarla….

 

“Perché ero convinta e sono convinta che Calogiuri non c’entri proprio niente con le accuse che gli hanno rivolto e che lo stiano incastrando. E, comunque, non mi stavo più occupando del maxiprocesso, anzi, e…e vorrei capire che è successo mo, per avermi trascinata qua dentro e per essere venuti a prenderlo in quel modo, manco fosse un ladro.”

 

SCIAFF

 

Guardò la foto che Santoro le aveva letteralmente schiaffato sul tavolo e le mancò il respiro: pur sapendo che Melita fosse in condizioni gravi, era messa ancora peggio di come avesse anche solo potuto immaginare.

 

“E voi pensate veramente che Calogiuri avrebbe… avrebbe potuto mai fare una cosa del genere?! Non solo era a casa con me, ma non sarebbe mai capace di commettere una violenza simile, non è proprio nella sua natura! E poi-” esitò per un attimo, sapendo che quello che stava per dire Calogiuri forse non glielo avrebbe mai perdonato, ma ne andava della sua vita e della sua libertà, “e poi, per quanto posso intuire da queste foto, Calogiuri non è nemmeno in condizioni, neanche volendo, di… di poter ridurre qualcuno in questo modo.”

 

“Che vuol dire?” intervenne Santoro, con tono di sfida, “il maresciallo è addestrato, ha una notevole forza fisica e-”

 

Aveva una notevole forza fisica, Santoro. Aveva. Mo è parecchio sottopeso: quando è tornato a stare a casa nostra era in condizioni tali da richiedere assistenza medica praticamente costante e… e, pure se piano piano si sta riprendendo, non ha le forze necessarie per poter commettere un’aggressione di questo tipo.”

 

“Ma che sta dicendo? Ci ho parlato fino a poco fa e-”

 

“E non mi stupisce che Calogiuri, orgoglioso com’è, non abbia voluto farvi notare il suo stato di salute. Ma ho tanto di prescrizioni mediche e di referti delle visite, delle ultime due settimane, che testimoniano in che condizioni era ed è, a seguito del linciaggio mediatico che ha ricevuto. Fatica… fatica ancora a reggersi in equilibrio, se deve fare movimenti più complessi del camminare o di cose da tutti i giorni, ed ha molta meno forza nelle mani, oltre che coordinazione. Qualunque medico potrebbe confermarlo.”

 

Santoro non ribatté, preso in contropiede, ma anche Mancini aveva un’espressione sconvolta, tanto che parve chiederle se fosse la verità o meno. Proprio non se lo aspettava.

 

E non se lo sarebbe mai aspettata nemmeno lei, di dover in un certo senso tradire la riservatezza e la fiducia di Calogiuri in quel modo. Sapeva già che l’avrebbe odiata per quello. Ma era l’alibi migliore che potesse dargli, forse l’unico in qualche modo dimostrabile.

 

“Il maresciallo è sempre stato magro, mi pare,” riuscì infine ad obiettare Santoro, “e non mi è sembrato così debilitato, proprio per niente. Mi paiono tutte scuse, anche perché lei non è un medico e di sicuro non può misurare la forza fisica di una persona. Ma verificheremo. Dottore?”

 

Mancini annuì e, dopo un ultimo sguardo verso di lei, che le parve un spero che non si sia inventata niente! sparì oltre la porta, insieme al caro collega.

 

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Un mezzo boato e la porta si aprì.

 

Ne entrarono Santoro, con l’aria di essere ancor più sul piede di guerra, seguito dal beccamorto.

 

Ci mancava solo lui, ci mancava!

 

Come minimo lo voleva fregare, aspettava solo quello, lo stronzo! E sì che lo aveva pure detto ad Imma!

 

“Calogiuri, si spogli.”

 

Si sarebbe aspettato di tutto, ma proprio di tutto, ma non quello, tanto che si chiese se non avesse capito male.


“Come?”

 

“Si spogli: si levi maglione e, se ce l’ha sotto, la maglia e pure i pantaloni. L’intimo ovviamente lo può tenere, ma il resto no.”

 

“E in base a che cosa?!” esclamò, l’indignazione che montava e gli si espandeva nel petto, “non avete alcun diritto! A meno che non mi stiate arrestando, ed in quel caso l’ispezione me la faranno in carcere. Pure se non c’avete niente in mano, niente!”

 

“Maresciallo,” intervenne Mancini, e si chiese se l’usare quel titolo che praticamente gli avevano tolto o quasi non fosse un modo per blandirlo e, di nuovo, per fregarlo, “non è in arresto e non dobbiamo perquisirla. Ma dobbiamo verificare alcune cose, per motivi strettamente legati all’indagine.”

 

“Se vi serve sapere se ho segni di difesa, vi accontento subito,” disse, levandosi il maglione ma rimanendo con la t-shirt bianca che ci indossava sempre sotto, sperando con tutte le sue forze che non si notasse troppo quanto fosse dimagrito e che il non avere segni sulle braccia fosse sufficiente per chiudere la questione.

 

“Non basta,” esclamò Santoro, perentorio, distruggendo ogni speranza in tal senso, “si tolga anche la maglia e i pantaloni.”

 

“Le conviene, maresciallo, mi creda,” si inserì nuovamente Mancini, con uno sguardo quasi gentile ed un tono che gli diede ancora più sui nervi.

 

Era finto, fintissimo!

 

Ci pensò per qualche istante. Avrebbe potuto aspettare che avessero un mandato. ma prima o poi lo avrebbero visto comunque e… e non era il caso di tirare troppo la corda e dare loro altri motivi per sospettare di lui.

 

E quindi, con un sospiro, si levò la maglietta e si slacciò i pantaloni, abbassandoli fino alle caviglie, rialzandosi e guardandoli con aria di sfida e con tutta quella dignità che gli stava venendo tolta, anche se dentro di sé tremava dalla rabbia, dall’ingiustizia.

 

E fu allora che vide la cosa peggiore che avrebbe mai potuto vedere: Santoro sembrò sorpreso, molto sorpreso, ma Mancini… lo guardava con un misto di senso di colpa e, soprattutto, quasi di pietà che gli era insopportabile.

 

“Come si è procurato quel livido?”

 

“Dottor Santoro, mi pare evidente che si tratti di un livido vecchio, ormai quasi scomparso. Dobbiamo cercare segni recenti.”

 

Sì, Mancini era decisamente in imbarazzo e non poco. Per quello gli aveva levato le castagne dal fuoco, perché le stava levando anche e soprattutto a se stesso. E poi di nuovo quella specie di pietismo che lo fece incazzare ancora di più.

 

“Comunque sì, magro è magro, ma non mi pare così debilitato e privo di forze.”

 

“In che senso privo di forze?” gli scappò, mentre un’ipotesi, una sola, gli veniva in mente, ma non ci poteva credere, che lei gli avesse fatto pure quello.

 

“Se non lo sa lei, Calogiuri, lo deve chiedere alla sua bella, che sostiene che praticamente non è più in grado di fare nulla.”

 

“Il suo bimbo adorato!” lo derise Rosati, mentre pure Santoro si lasciò scappare una risata.

 

Non ci vide più. Fece per fare un passo ma non ci vide di più del tutto e sentì qualcosa tirarlo giù, fino a picchiare contro le piastrelle dure e fredde della stanza.

 

Si rese conto, mentre la vista gli si appannava per le lacrime di rabbia, che era inciampato nei suoi stessi pantaloni.

 

E poi la mano elegante, ben curata, di quello stronzo di Mancini, e tutta quella maledetta commiserazione dietro a quegli occhialetti nuovi. Che avrebbe tanto voluto far fare loro la fine dei precedenti.

 

“No, grazie!” sibilò, provando a tirarsi in piedi, raggranellando gli ultimi sprazzi di dignità che gli erano rimasti, ma quando dall’essere accovacciato provò a estendere le ginocchia, gli cedettero e finì di nuovo per terra, riuscendo a malapena a pararsi il colpo con le mani.

 

Si sentì afferrare per le spalle e, prima di poter protestare, mentre le guance gli bruciavano di rabbia e di umiliazione, si trovò praticamente tra le braccia di Mancini e poi di nuovo seduto.

 

“Non si muova da qua, che ci manca che cada di nuovo. Le mandiamo un medico. Rosati, pure lei non si muova ed eviti le battute, che oggi non è giornata e non ci metto niente a sospenderla. Santoro, venga con me.”

 

Il magistrato gli sembrò voler ribattere ma Mancini lo fulminò in un modo che rivaleggiava con quello di lei - ed il solo pensiero gli fece ancora più male delle cadute - e, in fretta e furia, sparirono nuovamente, lasciandolo lì a leccarsi le ferite, letteralmente.

 

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“Dottore?”

 

Non era tanto stupita dal ritorno di Mancini che anzi, se lo aspettava pure, ma dal fatto che fosse da solo.

 

Sperava che fosse un buon segno.


“Dottoressa…” esordì lui, sedendosi poi davanti a lei in un modo quasi imbarazzato che no, non prometteva niente di buono, “ovviamente la devo sospendere dal servizio, finché la posizione del maresciallo Calogiuri non si sarà chiarita. Ma immagino lo avesse già intuito.”

 

Si limitò ad annuire perché sì, aveva sperato nel contrario ma era giusto quella, una speranza, molto improbabile per giunta.

 

“Può andare nel suo ufficio a recuperare le sue cose e poi la faccio riaccompagnare a casa, che qua fuori già ci stanno i giornalisti.”

 

“Manco avevo fatto in tempo a rimettercele le mie cose. Non mi ci vorrà molto. I giornalisti invece, sempre sul pezzo noto. Ma da chi le prendono le informazioni?!”

 

“Non lo so, dottoressa, non lo so. Ma mi creda, mi piacerebbe scoprirlo quanto e forse pure più di lei.”

 

“Va beh…” sospirò, perché non era il caso di perdere tempo in convenevoli, “Calogiuri come va? Sta ancora sotto interrogatorio?”

 

Vide Mancini darsi un’occhiata in giro e poi guardarla fisso negli occhi, pronunciando, deciso, “lo sa bene che non posso darle questo tipo di informazione.”

 

“Ma non penserete di fermarlo?!” esclamò, indignata e pure disperata, perché Calogiuri, per come era ridotto, la galera mo non se la poteva proprio permettere, “non tenete niente in mano, niente!”

 

“Dottoressa, per evitare… l’inquinamento di prove, il dottor Santoro ha chiesto il fermo cautelare, fintanto almeno che verranno terminati tutti i rilievi.”

 

“Ma Calogiuri è debilitato, dottore, lo ha visto pure lei, immagino!” protestò, tirandosi in piedi, non riuscendo a trattenersi più dall’alzare la voce, “ci manca solo che finisca in una cella! Se volete farlo morire del tutto-!”

 

Il procuratore capo, a sua volta, si alzò, dritto come un fuso e proclamò, in un tono che le parve una sentenza incontrovertibile, “farò quello che devo fare, dottoressa, nell’interesse delle indagini e di tutte le persone coinvolte.”

 

Si sporse in avanti, la rabbia che le ribolliva nello stomaco, fino a sentire la bile in bocca, e sussurrò, “non mi faccia pentire di essermi fidata di lei, dottore, che se no qua faccio un casino. E lo sa come sono fatta, che non mollo il colpo, fosse l’ultima cosa che faccio!”

 

“Ed invece lei lo ha già fatto diverse volte, dottoressa. Farmi pentire di essermi fidato di lei, intendo. Ma agirò in modo professionale, come ho sempre fatto.”

 

Le venne da ridere, ma era una risata dura, amara.


“Come ha sempre fatto?! Dottore, o lei soffre di amnesia selettiva o… mi pare che in alcune circostanze la professionalità se la fosse proprio scordata, o mi sbaglio?”

 

Mancini scoppiò in un attacco di tosse e divenne rosso peggio di un peperone crusco.

 

Ma, dopo uno sguardo strano, che poteva voler tutto e niente, il peggio ed il suo contrario, se ne andò e la piantò lì, senza dire un’altra parola.

 

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“Tu?”

 

“Alzati e seguimi.”

 

Il tono duro e secco non lo stupì, affatto. Ritrovarsi davanti a Conti, peraltro da solo, lo sorprese moltissimo invece.

 

Avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma sapeva benissimo non solo che non fosse il momento migliore per farlo, ma anche che, visto quanto era testa dura Conti, non sarebbe servito a molto.

 

Quindi si alzò e fece come gli era stato chiesto, passando davanti, nel corridoio stretto e buio, a Santoro, che lo guardò malissimo, e a Mancini, impettito accanto a lui, e pure lui non scherzava. La pietà si era sostituita ad uno sguardo quasi omicida.

 

Ma forse era meglio così.

 

Uscirono per una porta laterale e Conti praticamente lo buttò in auto, mentre intorno a loro una folla di giornalisti gridava il suo nome.

 

Temeva di sapere dove lo avrebbero portato ma, allo stesso tempo, era stranamente rassegnato al suo destino.

 

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Valentina pareva fulminarla con lo sguardo come a dirle te l’avevo detto!

 

“E lo so, Valentì, lo so. Quando sono venuta a Roma sapevo che sarebbe stato tutto più difficile. Forse non mi immaginavo così tanto,” sospirò, decidendosi a ritirare la cornice nello scatolone, insieme ai suoi pochi altri effetti personali.

 

Anche perché parlare con una foto era decisamente insensato, e le ci mancava solo che qualcuno dubitasse della sua salute mentale.

 

Chiuse lo scatolone, incastrandone i lembi meglio che poteva, ma il “dottoressa!” alle sue spalle per poco non le fece cascare tutto.

 

“Signorina Fusco!” esclamò, voltandosi e trovandosi di fronte alla sua bionda ormai quasi sicuramente ex cancelliera, “mi ha fatto prendere un colpo, mi ha fatto prendere! Che ci fa qua?”

 

Era domenica ed era quindi giorno libero per lei.

 

“Ho sentito le notizie e… e volevo capire se avesse bisogno di qualcosa e… e poterla almeno salutare stavolta.”

 

Nonostante la chioma tinta male ed il completo attillato, che voleva fare Ferrari dei poveri ma che la faceva soltanto sembrare una commessa di un negozio di abbigliamento low cost, provò un inatteso moto di tenerezza verso Asia.

 

Non era poi così male, anzi, e, per qualche motivo inspiegabile, sembrava esserle più affezionata di quanto si aspettasse. E di quanto si meritasse, visto come la trattava.

 

“Quindi è venuta ad accertarsi che questa volta me ne vada per davvero?” ironizzò, perché non era tipa da smancerie e perché poteva essere l’unica ipotesi logica.

 

Asia sorrise.

 

“Diciamo che… non è facile lavorare con lei, dottoressa, ma sicuramente sono stati degli anni indimenticabili, nel bene e nel male.”

 

Le si piantò un nodo in gola e gli occhi le si fecero maledettamente umidi. Asia era più intelligente di quanto le avesse mai dato credito e sapevano tutte e due che quello, almeno lavorativamente parlando, era un addio.

 

“Le auguro che il mio successore sia indimenticabile solo nel bene. Ma, visti i colleghi che ho conosciuto negli anni, non glielo garantisco,” ribattè quindi, per poi congedarsi con un, “grazie di tutto, veramente!” ed un rapido abbraccio che si guadagnò un mugolio di sorpresa.

 

E poi, cercando di inghiottire la commozione, si avviò verso la porta, pronta a lasciare quella procura, nella quale non sarebbe più tornata se non per qualche processo, si sperava non da imputata.

 

“Imma!”

 

“Ma che c’avete stasera?!” esclamò, perché di nuovo per poco non le era cascato tutto dalle mani.

 

Ma stavolta la colpevole dell’attacco alle sue coronarie era nientepopodimeno che la gatta morta.

 

“Puoi venire un attimo nel mio ufficio, prima di andare?” le chiese, in un tono abbastanza basso da essere indice di un discorso da fare lontano da orecchie indiscrete.

 

Non se lo fece ripetere due volte e ci entrò, aspettando giusto giusto che la porta si richiudesse alle loro spalle, prima di chiederle “dov’è Calogiuri? Che sta succedendo?!”

 

E fu allora che la gattamorta le mise le mani sulle spalle che, se non c’avesse avuto il cartone in mano, se le sarebbe scrollate di dosso subito.

 

“Imma, adesso devi soltanto andare a casa e cercare di rimanerci il più possibile nei prossimi giorni: è la cosa migliore che puoi fare, anche per lui.”

 

“Ma le indagini-”

 

“Appunto! Devi lasciarci lavorare, Imma, da soli. Perché, se scoprissero delle ingerenze ora, sarebbe fatale per te e per Calogiuri. Vai a casa e cerca di fidarti di me per una volta!”

 

Il tono e lo sguardo di Irene le sembrarono stranamente sinceri, e poi si trovò schiacciata in un mezzo abbraccio, il cartone che le si infilava tra le costole.

 

Sperando che non fosse l’abbraccio di Giuda!

 

“Ti accompagno, che fuori ci sono già i giornalisti appostati e non puoi tornare a piedi.”

 

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Girò la chiave nella toppa e la serratura blindata scattò, la porta che si girò sui cardini.

 

Buio.

 

Silenzio.

 

Fu un colpo trovarla così, anche se se lo aspettava, come si aspettava la palla di pelo che le saltò sulle gambe, travolgendola, che ancora un po’ le sfuggiva di mano la scatola e ci finiva schiacciata sotto.

 

I giornalisti erano scatenati, pure più delle altre volte e… e il fatto che Calogiuri ancora non fosse rientrato non era un buon segno, affatto.

 

Come che non avesse avuto sue notizie.

 

Mollò il cartone all’ingresso - che tanto quelle cose per un bel po’ non le sarebbero servite - si levò i tacchi e, massaggiandosi i piedi doloranti, saltellò fino al divano, dove afferrò il telecomando.

 

Doveva capire che cosa stava succedendo e non si sarebbe affatto stupita se i maledetti reporter fossero stati più informati di lei.

 

Stava per schiacciare il tasto rosso, quando suonarono alla porta e stavolta il telecomando le cadde di mano, cascandole pure su un piede.

 

Trattenendo un mugolio di dolore, si avviò a fatica verso l’ingresso, che chiunque ci fosse stava bussando violentemente alla porta.

 

“Arrivo!” urlò, spaventata, sapendo che quello era un altro pessimo segno.

 

Si infilò le scarpe e preparò sottomano la borsa, temendo che volessero fermare anche a lei.

 

E poi, in mezzo a quel delirio, le toccò pure abbrancare Ottavia per la collottola, che stava già grattando alla porta come un’assatanata.

 

“Chi è?!” gridò, a pieni polmoni.

 

“Sono io, apra!”

 

“Conti?” domandò, sorpresa, anche se effettivamente quel porco di Carminati era fuori gioco ormai, almeno per un po’.

 

Aprì di poco il legno, incrociando lo sguardo di Conti e poi…

 

Azzurro.

 

Non perse altro tempo e spalancò la porta, incredula e allo stesso tempo felice come non lo era forse mai stata, di vedere anche Calogiuri accanto all’altro maresciallo.

 

Pure lui sembrava meravigliato quanto lei. Ma, quando i loro sguardi si incrociarono, notò una strana durezza.

 

Era ancora incazzoso, e certo!

 

“Calogiuri deve restare a disposizione, e anche lei, dottoressa. Per ora non hanno disposto il fermo cautelare, ma a patto che stia, anzi che stiate qua in casa il più possibile, altrimenti Mancini potrebbe rivedere la sua posizione.”

 

Sospirò, ed era in egual parte frustrazione e sollievo.

 

Alla fine Mancini non l’aveva fregata. E forse era stata un po’ troppo dura con lui ma, quando si trattava di Calogiuri, non ci capiva più niente e non riusciva proprio a trattenersi.

 

Con un cenno a Rosati, che stava all’angolo del pianerottolo, Conti se ne andò, freddo, meccanico e preciso come era stato fino ad allora.

 

Probabilmente avevano lasciato qualcuno sotto casa a tallonarli, su quello poteva scommetterci tranquillamente qualsiasi cifra.

 

“Calogiù, entra, dai!” esclamò, facendo per prenderlo per un braccio ma lui si scostò bruscamente e quello le fece perdere per un attimo l’equilibrio e la presa su Ottavia che, riscossasi dalla paralisi, si buttò addosso a papà suo con altri mugolii che avrebbero dovuto essere vietati dalla convenzione di Ginevra.

 

E per poco non cascò all’indietro pure Calogiuri, ma si appoggiò alla porta e ricambiò le coccole e le fusa, accarezzandola per cercare di tranquillizzarla.

 

Quanto l’avrebbe voluta pure lei una carezza, una sola le sarebbe bastata, sia per accertarsi che non fosse un sogno e che lui fosse veramente ancora lì con lei, almeno per il momento, sia per sapere che le cose tra loro non erano messe così male. Ma invece, quando riprovò ad avvicinarsi, Calogiuri si allontanò di nuovo, ed entrò in casa mantenendo una distanza di sicurezza, oltre che un’aria cupa e nera come la pece, che per lei erano una coltellata.

 

Le cose erano messe così male.

 

“Come stai? Come ti hanno trattato? Che è successo?” gli chiese, perché, incazzato o no, non poteva trattenere la sfilza di domande alle quali era da ore che cercava disperatamente una risposta.

 

Ma Calogiuri si limitò ad avvicinarsi al divano, un poco tremolante sui piedi. Troppo, nonostante Ottavia non aiutasse, per quanto si muoveva.

 

“Ma hai mangiato qualcosa? Mo ti preparo la cena e-”

 

“Smettila, Imma! Non sei mia madre!”

 

Aveva gridato talmente forte che Ottavia si buttò a terra e si nascose per un attimo dietro al divano, per poi guardarlo preoccupata.

 

“Ma che c’entra questo mo, Calogiuri?! E certo che non lo sono, che ci mancherebbe altro, ci mancherebbe! Anche perché, visto com’è mamma tua! E-”

 

“E non fa niente, perché tu così mi tratti: come un bambino! Sempre! Che ancora un po’ ci manca solo che mi dai pure il biberon e stiamo a posto, per tutto quello che hai fatto nelle ultime settimane! E mo non me ne sono accorto soltanto io, ma lo vedono benissimo pure gli altri”

 

“Ma che dici?! E gli altri chi?! Che stavamo sempre soli?” esclamò, completamente presa in contropiede, perché si sarebbe aspettata una sfuriata per Mancini o… o per altro, ma non questo, mai.

 

E fu allora che Calogiuri le fece uno sguardo che era puro tradimento, peggio ancora di quando gli aveva chiesto di incastrare Lolita.

 

E bastò quello per capirsi, per capire che lui sapeva benissimo quello che aveva dovuto fare per averlo lì con lei invece che in galera.

 

“Ma perché?” le chiese, e non era più un urlo, anzi, teneva la voce rotta che pareva sull’orlo del pianto, “perché lo hai dovuto fare, Imma? Perché mi hai dovuto umiliare così? Non era già abbastanza, eh? Tutto quello che avevo dovuto subire con Mancini, Santoro, Carminati e tutti quegli altri stronzi?!”

 

“Calogiù…” sussurrò, sentendosi comunque una merda, anzi, una cloaca intera, “lo so, ma… ma era l’unico modo, l’unico appiglio che avevo per tenerti fuori da una cella. E lo sai che, nelle tue condizioni, stare in carcere è l’ultima cosa di cui hai bisogno e-”

 

E lo dovrei decidere io di cosa ho bisogno, IO, e non tu! E invece, lo vedi che mi continui a trattare come un bambino? Come… come se fossi troppo debole per decidere da solo! Ed è così che mi hai fatto sentire: debole! Mi sono dovuto spogliare, Imma, davanti a tutti! Pure a quello stronzo di Mancini che, dopo tutto quello che mi ha fatto, mi ha pure guardato con pietà, neanche fossi un povero invalido. E lo sapevi che lo avrebbero fatto. E lo sapevi che non avrei mai voluto che nessuno mi vedesse ridotto così e-”

 

“E pure se sono tutti degli stronzi, Calogiuri, e pure se ti giuro che li strozzerei tutti con queste mani, uno a uno, Mancini compreso, preferisco mille volte che tu stai qua, odiandomi, piuttosto che saperti là dentro, con la gente che ci sta là dentro, e che hai contribuito pure tu a mandarci là dentro.”

 

Una specie di misto tra un singhiozzo ed un ghigno amaro e poi Calogiuri la pugnalò con un, “e invece io avrei preferito forse stare in galera. Almeno là avrei potuto dimostrare di essere capace di difendermi da solo. E sicuramente mi avrebbero trattato di merda, e sarei stato in pericolo, ma mi sarei evitato tutta questa… pietà che non sopporto più!”

 

Peggio che se le avesse mollato un ceffone. Anche se non lo avrebbe mai fatto. Ma a ferire con le parole lo aveva imparato da lei.

 

“Pietà?!” gli urlò di rimando, perché non poteva e non voleva credere a quello che stava sentendo, a quello che gli stava uscendo dalla bocca, “non è pietà, ma amore, Calogiuri, amore! E mo stai esagerando!”

 

“Amore?” ripeté, pronunciando quella parola, la parola che per lei era più difficile pronunciare in assoluto, in un modo quasi sprezzante, “per te l’amore è controllare tutto e tutti, Imma. Ma io non sono Valentina e non sono Pietro, non funziona così! E mo, se mi vuoi scusare, ho bisogno del bagno, perché, se ti interessa saperlo per annotartelo sulla cartella clinica, no, non ci sono ancora andato oggi!”

 

E si voltò e se ne andò, lasciandola lì appesa come un salame, Ottavia che da dietro al divano la guardava malissimo, anche mentre sentiva la porta del bagno venire sbattuta con tanta forza da rimbombare per tutta la casa.

 

Si lasciò cadere sul divano, lasciandosi andare alle lacrime e menando due pugni al cuscino.

 

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“È ora?”

 

Quegli occhioni azzurri lo guardavano in un modo che avrebbe voluto solo poter stare lì per sempre. Ma il dovere chiamava - e pure la prudenza.

 

“Sì. Se non mi avvio perdo la corriera,” sospirò, alzandosi dal divano dov’era seduto con lei e con Noemi, che guardava i cartoni, ed avviandosi per recuperare cappotto e valigia, ignorando due paia di occhi tristi che erano una pugnalata.

 

Ed estrasse pure il cellulare di tasca, che aveva silenziato per godersi il momento con loro, in quel rito che ormai ogni domenica segnava il ritorno al mondo reale.

 

Ma fece quasi fatica a sbloccarlo, perché lo trovò intasato di notifiche: messaggi, chiamate perse, e per un attimo gli prese un colpo che fosse successo qualcosa a Valentina o a Imma.

 

Tirò un sospiro di sollievo quando si rese conto che loro due erano invece proprio tra i contatti che non avevano inviato nulla.

 

Almeno fino a che notò che, oltre ai colleghi e ai compagni di calcetto, ci stava pure un messaggio di Vitolo.

 

Hai visto che era davvero un violento? E tu che ti sei pure scusato!

 

C’era sotto un articolo e ci cliccò sopra per vedere una foto del fratello di Rosa, scortato da altri agenti e, facendo scorrere rapidamente il testo, scoprì che la ragazza che aveva testimoniato contro di lui in tribunale era stata trovata pestata a sangue e che quindi lui era il principale sospettato. Secondo l’articolo, probabilmente sarebbe stato arrestato da lì a poco.

 

“Pietro!”

 

Gli bastò incrociare lo sguardo di Rosa, bianca come un cencio, pure lei con il cellulare in mano, per capire che anche a lei era già arrivata la notizia.

 

“Persino nostra madre mi ha scritto! Per dirmi di non farci vedere più, dopo che abbiamo disonorato la famiglia! Ma… Ippà sarà pure un po’ scemo, ma non è un violento, non farebbe mai una cosa così.”

 

“Lo so,” la rassicurò, e si stupì nel constatare che non era solo un modo per consolarla, ma che lo pensava realmente, per quanto avesse potuto odiare il maresciallo in passato.

 

Pure se non stava a casa sua - purtroppo! - afferrò il telecomando e, nonostante le adorabili proteste della peste, girò sul primo canale di notizie che trovò.

 

Dovettero attendere poco, giusto il tempo dei risultati delle partite pomeridiane, e le parole “nuovo scandalo alla Procura di Roma!” e un “Tata! Iene!” che veniva da vicino alle sue ginocchia, annunciarono la comparsa di Imma, accompagnata da una collega, che uscivano dalla questura. Imma aveva in mano uno scatolone che diceva più di mille parole.

 

“Dottoressa Tataranni, è stata sospesa dal servizio?”


“Dottoressa Tataranni, è vero che il maresciallo è stato trovato a casa sua?”

 

“A casa nostra! ” sibilò Imma, sottolineando l’ultima parola con orgoglio misto ad indignazione, “e comunque il maresciallo Calogiuri è innocente e lo dimostreremo. Ma sicuramente non qua a voi, ma nelle sedi competenti. E mo lasciateci passare!”

 

Le grida dei giornalisti si fecero ancora più forti ma Imma, scortata dall’altra PM e da un’agente donna bionda, si fece strada tra loro quasi a spintoni, salì su una macchina elegantissima e se ne andò.

 

Si voltò alla sua destra e capì subito che pure lei era terrorizzata quanto lui. Non solo per il casino inimmaginabile e gravissimo che stava succedendo, ma perché… evidentemente Imma e suo fratello erano tornati insieme.

 

E mo sarebbero stati ‘azzi amari, anzi, amarissimi, pure per loro.

 

“Che dicono chelli? Che fa Tata? Che c’enta cio?”

 

Spense rapidamente la TV, prima che Noemi li travolgesse con altre mille domande, si guardò con Rosa, che pareva sull’orlo dello svenimento, e gli venne spontaneo abbracciarla forte.

 

“Non ci torno a Matera stasera,” proclamò, decidendolo mentre le parole gli si formavano in bocca.

 

“Come non torni a Matera?” esclamò lei, stupita.

 

“Chiederò qualche giorno di ferie e nessuno me le può negare, con tutto quello che sta succedendo. Rimango qua a Roma, finché non ci si capisce qualcosa di più.”

 

“Ma potrebbe… potrebbe essere ancora più rischioso e-”

 

“E lo faccio pure per Valentina, mica solo per te,” la rassicurò, facendole l’occhiolino, anche se lo sapeva pure lui che stava rischiando grosso - altro che pestaggio! - per poi aggiungere, più serio, “e comunque, in una situazione così, qua da sola non ti ci lascio.”

 

Gli mancò letteralmente il fiato perché si trovò stritolato in un abbraccio, che ricambiò meglio che poteva.

 

Almeno fino a quando delle manine che gli picchiavano sul fianco lo fecero staccare per prendere in braccio Noemi, che stava praticamente cercando di saltare loro addosso per venire inclusa nell’abbraccio, mentre continuava a chiedere di Tata e Cio.

 

“Noè, che non sei contenta che Pietro rimane ancora un poco qua?”

 

La mitragliata di domande si fermò per un attimo e Noemi gli chiese, con un entusiasmo che in altre circostanze lo avrebbe commosso tantissimo, “davveo stai qua?”

 

“Diciamo che sto a Roma un poco di più, anche se stasera mi sa che devo andare a parlare con Valentì. Ma prima, che ne dici se cuciniamo noi qualcosa per la mamma?”

 

“Sììììì! Pizza! Pizza!”

 

E, così, tra gli ululati di Noemi, la accompagnò a lavarsi le mani, sperando di riuscire in qualche modo ad uscirne da quella situazione.

 

Tutti interi, possibilmente.

 

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Chiuse la porta alle sue spalle, l’aria del corridoio che gli sembrò gelida rispetto all’umidità del bagno.

 

Uscito da quella bolla in cui si era rifugiato, per cercare in qualche modo di sfogare il dolore e la rabbia che lo mangiavano dentro, alle sue orecchie giunsero, chiare e nitide, delle urla scomposte che si accavallavano, in un frastuono infernale.

 

Riconobbe di sottofondo la musichetta ansiogena tipica dei telegiornali e, temendo cosa potesse significare, si avviò verso la sala, dove ci trovò Imma, ferma impalata sul divano, il telecomando in una mano ed il cellulare nell’altra. Un’espressione che pareva fatta di pietra.

 

Ignorò il rimescolio di emozioni nello stomaco, al vederla così, e si voltò verso il televisore.

 

E ci trovò quello che si aspettava, ma che non avrebbe mai voluto trovare, schiaffato su un canale nazionale di news ventiquattro ore.

 

Si rivide trascinato in procura e poi scortato fuori, in mezzo alla calca. Pure così, pure in tutto quel casino, riusciva chiaramente a notare quanto fosse malconcio. E la cosa gli faceva una rabbia incredibile.

 

“Dottor Santoro! Qual è la posizione del maresciallo Calogiuri? Resta il principale sospettato?”

 

Santoro non aveva risposto, ma aveva fatto una specie di ghigno che era già una risposta.

 

“Il maresciallo Calogiuri che, secondo voci di corridoio, non sarebbe nuovo ad episodi violenti, non è stato fermato, ma il cerchio intorno a lui sembra stringersi sempre di più.”

 

Secondo voci di corridoio.

 

Chissà di chi erano le voci che aveva sentito il giornalista, se di Carminati, di Rosati o dello stesso Santoro.

 

E poi la botta finale: il volto di Melita, o quello che ne rimaneva, coperto di sangue - che chissà da chi l’avevano avuta quei bastardi quella foto! - affiancato al suo.

 

D’istinto, allungò la mano per afferrare il telecomando dalla mano di Imma, che non poteva sopportare di sentire altro, ma, nello sporgersi, sentì tutto il sangue andargli verso i piedi e gli girò la testa.

 

Si trovò mezzo abbracciato da Imma, che lo sorreggeva e lo aiutava a sedersi.

 

Si allontanò subito da lei, rintanandosi nell’angolo del divano: in quel momento quel contatto gli faceva troppo male, lo faceva sentire inutile ed era l’ennesima umiliazione per lui.

 

Gli venne di nuovo da piangere e cercò di trattenersi, mentre dava pugni al cuscino: uno, due e-

 

E si trovò la mano bloccata prima di poter sferrare il terzo.

 

“Basta! Ci manca solo che ti trovano con lividi sulle mani, mo.”

 

Imma, che gli teneva le dita tra le sue, lo guardava con occhi pieni di preoccupazione, ma il tono era quasi severo.

 

Gli venne ancora più rabbia, si liberò la mano e gli uscì un, “non sono un cretino! Lo so benissimo! Ma in qualche modo mi devo pure sfogare e-”

 

“E allora sfogati con me, parlami, Calogiuri, maledizione, parlami! E lo so benissimo che non sei un cretino e non mi sembra di averti mai trattato come tale, anzi,” gli urlò quasi, e si sentì picchiare un dito sul petto, “e non ti ho mai trattato come un bambino, o come un figlio - se non forse ai primi tempi che ti ho conosciuto, che c’avevamo un rapporto un poco più ambiguo da quel punto di vista, ma pure tu mi trattavi come una figura quasi materna allora.”

 

In effetti era vero, ma-

 

“Ma poi le cose sono cambiate, per fortuna: tu hai iniziato a vedermi come una donna e io… se non ti avessi visto come un uomo, non avrei mai rivoluzionato tutta la mia vita per stare appresso a te e di sicuro non avrei mai e poi mai accettato di sposarti e… di cercare di avere un figlio da te.”

 

Le ultime parole erano cariche di un dolore quasi lancinante ed ebbe l’ennesima conferma di quanto quel figlio mancato fosse una ferita ancora aperta e viva per lei.

 

“Però forse potrei cominciare a pensarlo mo, se continui a comportarti come… come un adolescente incazzato, roba che manco Valentina faceva queste sceneggiate!”

 

Fu come uno schiaffo dritto in faccia, stava per protestare ma lei continuò a premergli sul petto e concluse con un, “ho fatto quello che avresti fatto pure tu, se ci fossi stata io al posto tuo. E, se soltanto riuscissi per un attimo ad essere razionale, lo sapresti anche tu.”

 

Io? Tu pensi veramente che ti avrei costretta a spogliarti davanti a… a che ne so, a Irene e a Matarazzo o alla D’Antonio?”

 

“Se l’alternativa fosse stata farmi finire in galera dove ci stanno gli affiliati dei Mazzocca e dei Romaniello? Voglio proprio sperare di sì!”

 

“Ma te lo avrei chiesto Imma, te lo avrei almeno chiesto prima di farlo, ne avrei parlato con te e-”

 

“E pure io ne avrei parlato con te e te lo avrei chiesto, se ne avessi avuto il tempo. Ma quando avrei potuto farlo, eh, Calogiù, me lo dici quando?! Che ti hanno portato via e non sapevo se e quando ti avrei più rivisto?”

 

Forse fu la disperazione negli occhi di lei, che parevano quasi neri e brillavano di lacrime e di rabbia.

 

Forse fu che una parte di lui si mise per un attimo nei suoi panni e sapeva che… che tutti i torti non li aveva. Che… al solo immaginarla in galera, avrebbe smosso mari e monti per impedirlo e-

 

“Ma che pensi che non lo capisco come ti senti? Ma lo sai almeno quante umiliazioni ho subito io, quanti rospi ho dovuto ingoiare io? Ma ho sempre tirato avanti e sto ancora qua, a lottare. E, se vuoi dimostrare a tutti che sei un uomo, è questo che devi fare: lottare, senza lasciarti andare! E lo so che lo puoi fare!”

 

Gli venne come un groppo in gola, mentre provava un qualcosa che manco lui riusciva bene a spiegare.


Ed Imma, fiera e bella in quel modo impossibile che aveva soltanto lei, si alzò in piedi e con un “a proposito, devo sentire Valentina mo, prima che lo sappia dai giornalisti, se non lo sa già!” si allontanò, lasciandolo lì con qualcosa che bruciava nel petto, appena sotto a dove percepiva ancora il calore delle sue dita.

 

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“Ma che è?!”

 

Notò con imbarazzo che alcuni altri passeggeri intorno a lei si voltarono, forse prendendola per matta, ma poi proseguirono lungo i binari, verso le uscite.

 

Lei invece rimase piantata lì, perché quando era scesa dal treno, dopo aver fatto un pisolino di qualche ora - per recuperare in parte la notte semi insonne dalla rabbia e frustrazione - si era trovata un botto di messaggi e notifiche.

 

Ignorò per un attimo i social ed aprì l’app di messaggistica dove c’erano le persone a lei più vicine. Notò subito che pure Carlo le aveva scritto.

 

Pensare a lui le diede una sensazione un poco strana. Forse per quello non seppe resistere e aprì il suo contatto.

 

Mi dispiace tantissimo! Se hai bisogno io ci sono e spero che si risolva tutto in fretta. Posso chiamarti quando te la senti?

 

Le prese un colpo: le parve quasi un messaggio di condoglianze, anche se, a quanto pare, qualsiasi cosa fosse successa forse era risolvibile.

 

In quel momento, le squillò il telefono in mano.

 

Papà

 

“Pronto?”

 

“Hai sentito tua madre?”

 

La concitazione che aveva nella voce decisamente non era normale, soprattutto per lui che era sempre così tranquillo.

 

“No, ma che succede?”

 

“Sei ancora in giro? Dove sei?”

 

“Sono appena arrivata a Roma, pà, e mi sono trovata con un botto di messaggi. Ma è successo qualcosa? Mi devo preoccupare?”

 

“Mamma probabilmente è ancora impegnata,” ribattè lui, e Valentina non potè fare a meno di notare come, per l’ennesima volta, non avesse risposto alla sua domanda, “ma io sto… sto arrivando a Roma.”

 

“A Roma? Di domenica sera? Ma che succede? Il nonno? La nonna?”


“Ma va, no! Non preoccuparti per nonna, che è immortale!” ironizzò lui, ma a lei tutto veniva tranne che da ridere, “ma mi devi promettere che mi aspetti prima di leggere i messaggi, va bene? E prova a chiamare tua madre, soprattutto.”

 

“Ma sei sul bus?”

 

“S- sì, sì.”


“Strano c’è poco rumore e-”

 

Proprio in quel momento, sentì grida e urletti di un bimbo.

 

“Ecco, mo sì che la riconosco la Marozzi!”

 

“Devo andare mo, Valentì. Che qua c’è poco campo. Aspettami a casa, va bene?”

 

“Va bene,” rispose, ancora più scombussolata.


Fece appena in tempo a mettere giù che si trovò con altre due notifiche di chiamate perse.

 

Mamma

 

Con la certezza ormai che fosse successo qualcosa di grave, per non dire una disgrazia, provò a richiamarla ma la linea era occupata.

 

“Maledizione!” imprecò, beccandosi qualche altra occhiata in cagnesco.

 

Stava per arrendersi, ritirare il cellulare e cercare in qualche modo di tornare a casa per aspettare papà, quando il telefono di nuovo si mise a squillare.

 

Mamma

 

“Pronto?! Ma si può sapere che succede?!”

 

“Valentì, finalmente!”

 

Sua madre le parve quasi senza fiato, oltre che agitatissima, cosa che non era lei.

 

“Scusami, ma non ho proprio potuto chiamarti prima. Dove stai? Hai già visto le notizie?”

 

Era da quando pensava che fosse scomparsa a Maiorca che non la sentiva così.

 

“Sto a Termini, mà, e no, non ho visto le notizie ma ho tipo tremila messaggi da leggere e papà mi ha appena chiamato che sta venendo a Roma. Si può sapere che cazzo è successo?!”

 

Silenzio.

 

Manco un rimprovero per la parolaccia, niente.

 

Mo aveva veramente paura.


“Aspetta un secondo solo, Valentì,” la sentì sussurrare e poi come un borbottio in lontananza, ma non riusciva a capire che stesse dicendo e a chi.

 

“Ci stai ancora?” udì infine, col tono melodioso di sua madre che per poco non le spaccò un timpano, visto che aveva alzato completamente il volume per cercare di carpire qualcosa.

 

“E dove vuoi che stia mà? Ma si può sapere che succede? Mi stai facendo paura!”

 

“Lo so, Valentì, ma… se sta arrivando pure papà tuo… appena arriva venite qua, subito.”

 

“Ma a casa tua?” le domandò, sorpresa, visto che nelle ultime settimane era stata molto restia a vedere gente.

 

“Sì, sì. Devo parlarvi, a tutte e due.”

 

“Lo sai che così non mi tranquillizzi, sì?”

 

“Lo so, ma… non sono cose di cui posso parlare al telefono, Valentì.”

 

“Va bene. Va bene. Avviso papà ed arriviamo.”

 

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Sospirò, chiudendo la telefonata, ed alzò lo sguardo verso quegli occhi azzurri, così preoccupati.

 

“Grazie… grazie della comprensione, Calogiù,” sospirò di nuovo, lasciandosi ricadere sul divano, perché si sentiva stremata e la giornata non era ancora finita, anzi, “lo so che… lo so che non volevi farti ancora vedere da Valentì e soprattutto da Pietro ma-”

 

“Ma tanto a che serve? Ormai mi hanno visto tutti. Tanto vale! E poi… e poi non voglio che tu abbia problemi in famiglia per causa mia.”

 

Quella frase ed il modo in cui la pronunciò le fecero tenerezza e rabbia insieme.

 

“La mia famiglia?” gli domandò, voltandosi del tutto verso di lui, che se ne stava ancora arroccato nel suo angolo del divano, “anche tu sei la mia famiglia, Calogiù! E quindi, se non mi vuoi dare problemi….”

 

Lui si morse le labbra e fece un’espressione strana, ma poi si tirò in piedi, anche se era ancora un poco barcollante, facendole però segno di non seguirlo e, visto che era tutto sommato stabile, se ne guardò bene.


“Vado… vado a cambiarmi, che mica posso accoglierli in accappatoio,” proclamò, avviandosi verso la loro stanza da letto.

 

Oltre all’ansia, le ci mancava solo il magone mo!

 

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Nonostante fosse fissa dietro la porta da mezz’ora ormai, il suono del campanello la fece sobbalzare lo stesso.

 

Spalancò subito, trovandosi davanti a Valentina e Pietro. Lui che c’aveva delle occhiaie tremende, ma tremende proprio - ma mica era partito di notte? - ma pure Valentina non scherzava - anche se lei probabilmente le teneva per un motivo più piacevole, beata gioventù!

 

“Ma si può sapere che succede? Cos’è tutto questo mistero?! Non ne posso più!” sbottò subito sua figlia, con quel tono di voce che perforava i timpani e che, come minimo, era già stato udito da tutto il palazzo.

 

“Entrate, su!” li invitò, prendendo la figlia per un braccio e facendo spazio a Pietro, per poi richiudere subito il portoncino.

 

“E allora?!”

 

“E allora mo ti spieghiamo. Pietro, tu sai già tutto, immagino, visto che stai qua e non a Matera?”

 

Pietro si limitò ad annuire con un sospiro.

 

“Va beh, datemi i cappotti e poi sedetevi sul divano, che vi dobbiamo spiegare.”

 

“In che senso dovete?” chiese Valentina, mentre le mollava il giaccone, guardando tra lei e suo padre.

 

“Non io e papà, Valentì,” chiarì, prendendo un respiro e lasciando cadere i cappotti su una delle sedie libere, prima di prendere un secondo respiro, ancora più lungo del precedente, e decidersi a chiamare, “sono arrivati! Vieni!”

 

La porta della loro stanza da letto si aprì e ne uscì Calogiuri, vestito con un maglione e dei jeans che avrebbero dovuto mascherarne la magrezza, ma che si vedeva subito che erano troppo grandi per lui.

 

“Che cosa?! Che cosa ci fa qua questo stronzo?!”

 

Era stata Valentina ad urlare, e si era tirata in piedi, incazzosa peggio di lei quando proprio le girava male, e stava marciando verso Calogiuri.

 

“Valentì, aspetta!” gridò, riuscendo ad abbrancarla per un braccio, pure se lei cercava di divincolarsi, che a Calogiuri per come stava messo mo, sua figlia lo stendeva che non ci metteva niente.

 

“Aspetto che cosa, eh, mà, che cosa?” le urlò lei, in faccia, strattonandole via il braccio - ma che era una moda, mo? - per poi gridarle, sprezzante, “se te lo sei ripreso, puoi evitare tutta questa pantomima! Che tanto non lo accetterò mai! Ma che sei scema e-”

 

Stava per cedere all’impulso di tirarle un ceffone quando per fortuna Pietro si mise in mezzo, come ai vecchi tempi, tenendo Valentina per le spalle, “Valentì, e su, dai. Lasciamoli almeno parlare!”

 

“Che cosa?! Non dirmi che sei d’accordo pure tu! Che questo bastardo-!”

 

Ed in quel momento preciso avvennero due cose, più o meno nello stesso istante.

 

Valentina si voltò verso Calogiuri, che era a pochi passi da loro, con l’aria di chi era pronta all’assalto, ma poi si bloccò, mentre lo guardava dall’alto in basso.

 

“Ma… ma come ti sei conciato?” gli chiese, finalmente con un tono che non raggiungeva gli ultrasuoni, stupita e turbata, “e che hai fatto ai capelli? E ai vestiti?”

 

“I capelli glieli ho dovuti tagliare io, Valentì, e lo sai che non sono un granché come parrucchiera, e per il resto-”

 

“Diciamo che… che ho avuto un po’ di problemi di stomaco e ho perso peso, ma sto cercando di riprendermi,” intervenne Calogiuri, mortificato.

 

“E quindi soltanto perché c’ha avuto problemi di stomaco,” riprese Valentina, con un sarcasmo che le fece capire quanto la minimizzazione di Calogiuri, ovviamente, non l’avesse convinta, “te lo sei ripreso in casa?”

 

“No, Valentì, no, non è solo perché… perché Calogiuri è stato male. Ma perché c’ho avuto svariate conferme e prove che non mi ha tradita e che è stato incastrato. Mo non ti posso spiegare, non vi posso spiegare, perché sarebbe rischioso, ma… ma diciamo che quelli che lo hanno incastrato devono aver scoperto che stavamo arrivando vicini alla verità, perché… perché…”

 

“Perché hanno ridotto Melita - la ragazza che ha testimoniato contro di me - in fin di vita, con un pestaggio,” si inserì Calogiuri, levandole le castagne dal fuoco, e Valentina spalancò la bocca e lo guardò quasi con paura.


“Valentì, sta cosa è successa ieri e Calogiù stava qua con me: sono due settimane che sta qua con me e che non è mai uscito. Ma il collega che si occupa delle indagini ce l’ha su a morte con noi, con me soprattutto, e… e quindi vuole farcela pagare e sta indagando su Calogiuri. E pure io sono stata sospesa e… e mo meno usciamo e meglio è, ma… volevo mettere subito in chiaro con voi che lui non c’entra niente.”

 

“E che ne sai, eh?!” esclamò Valentina, fulminandolo con un’occhiataccia e poi guardandola, preoccupata, “che con lui c’hai i prosciutti sugli occhi, mà, da sempre e-”

 

“E Calogiuri non è un violento e non sarebbe mai stato capace di… di fare quello di cui lo accusano. Ti garantisco che… che ci vogliono uno stomaco ed una violenza non comuni, per fortuna.”

 

Valentina non disse più niente ma prese in mano il cellulare e, prima che glielo potessero impedire, aprì uno degli innumerevoli link che le erano arrivati.

 

Le uscì un conato, e divenne ancora più pallida del solito, mentre si metteva una mano davanti alla bocca e poi guardava lei, e poi lui, fisso fisso. Calogiuri non distolse lo sguardo, anche se lo vedeva che tremava come una foglia.

 

“Ok, ok, non… non ti ci vedo a… non è possibile,” pronunciò infine Valentina e sia lei che Calogiuri tirarono un sospiro di sollievo.

 

Almeno fino a che Valentina non si rivolse di nuovo a lei e disse, “ma il tradimento, mà? Quello… quello invece… altro che crederci! Che quella… anzi, questa poveraccia, ancora un po’ poteva fargli la radiografia.”

 

“Valentì, ti ho già detto che non ti posso e non vi posso spiegare mo, perché sono cose che riguardano un’indagine delicata e, come avrai notato, pericolosa, molto pericolosa. Ma quei… quei dettagli intimi di Calogiuri li hanno scoperti in un altro modo e li hanno riferiti a Melita. E mo, per evitare che lei potesse ammettere di aver mentito in tribunale….”

 

“Ma… ma se sapete tutte queste cose, perché lui sta ridotto così e non è stato scagionato e a te ti hanno sospesa?”

 

“Perché le prove che abbiamo sono ancora deboli, Valentì, e… e non ci metterebbero niente a smontare tutto e far sparire quelle che possiamo ancora raccogliere. Ma ti devi fidare di me, Valentì,” la pregò, prendendole il viso tra le mani e guardandola dritta negli occhi, “devi fidarti di me e del fatto che non starei mai e poi mai con un traditore, figuriamoci con un violento!”

 

Valentina sospirò.

 

“Sul violento ti credo. Sul traditore… diciamo che se non hai mollato papà dopo Cinzia Sax....Va beh che pure tu lo hai cornificato e quindi eravate pari.”

 

Sia Calogiuri che Pietro scoppiarono in colpi di tosse, in stereo praticamente.

 

Uomini!

 

“Voglio vederti le braccia!” esclamò Valentina all’improvviso, girandosi verso Calogiuri, di nuovo serissima.

 

“Ma Valentì, non-”

 

“Ti ricordo che sto studiando da assistente sociale e mi stanno insegnando a… a riconoscere i segni di violenza, sia ricevuta che data. Fammi vedere le braccia.”

 

Stava per protestare nuovamente, ma Calogiuri le fece cenno che non c’erano problemi e si tirò su le maniche.

 

“Va bene. Ti… ti credo, vi credo. Anche se non so come fate sempre ad infilarvi in tutti questi casini!”

 

“E sapessi quanto me lo chiedo pure io, Valentì!”

 

“Ma… ma allora… sono due settimane che siete tornati insieme? Perché non mi hai detto niente?”

 

Eccallà: come sembrava essersi calmata, tornava con il tono da inquisizione.

 

Lo aveva preso da lei, però, quindi non poteva lamentarsene troppo.

 

“Era per questo che non mi volevi mai vedere? Mi hai presa per il culo un’altra volta?!”

 

“Valentì, e su!” intervenne Pietro, prima che potesse farlo lei, “mi pare evidente che, vista la situazione, dovessero essere prudenti, pure per non metterti in pericolo.”

 

Di nuovo, la solidarietà di Pietro la sorprese - roba che manco ai vecchi tempi aveva tutto sto coraggio con sua figlia! - ma la sorpresa finale doveva ancora venire.

 

“Se tua madre non ti ha detto niente è stata solo colpa mia, Valentina. Come… come hai notato non sono messo bene e… e non volevo farmi vedere da nessuno nelle condizioni in cui stavo. E poi… e poi volevamo trovare più prove possibili, prima che si scoprisse che eravamo tornati insieme e che chi ha fatto tutto questo mangiasse la foglia e-”

 

“E mo invece della foglia, si sono mangiati tutta l’insalata,” concluse Valentina, passandosi una mano sulla fronte e poi sugli occhi, “del resto la discrezione non è proprio una dote tua e di mamma.”

 

Il sarcasmo non mancava mai, ma almeno non sembrava più furiosa e pareva aver capito veramente.

 

Per un attimo calò un silenzio denso, nessuno che osava fare la mossa successiva, ma poi Imma notò che Pietro teneva un’espressione strana.


“Che c’è Piè?”

 

“Niente, Imma, è che… lo so che avete fatto… quello che avete potuto ma… eravamo tutti molto preoccupati per te e mo lo siamo ancora di più. Avresti potuto fidarti almeno di me, lo sai che sulle tue indagini sono sempre stato una tomba.”

 

“Ma tutti chi?” gli chiese Imma, non capendo.

 

A Pietro partì un altro colpo di tosse, prima che pronunciasse un, “beh, pure Diana, ad esempio, stava molto in pensiero per te!”

 

Si morse la lingua perché non poteva certo dirgli che Diana sapeva già tutto. Ma quindi di chi stava parlando Pietro? Qualcosa non le tornava, ma che cosa?

 

“Va beh… forse mo è meglio che andiamo e che vi lasciamo riposare, che avrete avuto una giornata non facile,” pronunciò lui, prima che lei potesse dire qualsiasi altra cosa.

 

Ma doveva ammettere che teneva ragione: si sentiva allo stremo delle forze, e Calogiuri era sempre più tremante.

 

“Va bene. Non… non potremo vederci ancora per un po’. Siamo sotto sorveglianza, sicuramente vi avranno visti entrare e… e non vogliamo coinvolgervi troppo nei nostri casini.”

 

“Per quello è un po’ tardi mà: avresti dovuto pensarci prima di decidere di fare la PM e di mettermi al mondo!”

 

Una fitta di senso di colpa, perché il suo fondo di verità Valentina ce l’aveva e… e perché non era l’unica creatura che aveva pensato di coinvolgere in quell’enorme casino che era la sua vita.

 

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“Allora, papà, vieni a stare da me?”

 

Valentina lo guardava curiosa, alla luce fioca del lampione vicino a casa di Imma.

 

Esitò per un attimo.

 

“Per… per questa notte va bene, ma poi vado al b&b, che l’appartamento è piccolo e non ti voglio disturbare, che c’hai da studiare!”

 

Doveva capire come dividersi tra Valentina, Rosa e Noemi.

 

E come non farsi beccare, soprattutto, che va beh che il fratello di Rosa gli era sembrato molto debilitato ma… non era proprio il momento per aggiungere pure quello a tutto il resto.

 

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Silenzio.

 

Valentina e Pietro si erano portati via con loro il frastuono e li avevano lasciati nel silenzio più totale.

 

Che però continuava a non essere confortevole, anzi.

 

Alla fine cedette e si girò verso di lui, trovandolo ad osservarla sempre con quello sguardo indefinibile.

 

“Puoi andare pure prima tu in bagno. Che tanto io la doccia già l’ho fatta.”

 

Sospirò: non era esattamente quello di cui sperava di parlare, anzi.

 

Ma il peggio fu quando Calogiuri si avviò verso il divano ed iniziò a riaprirlo, per estrarre la parte letto.

 

“Aspetta!” lo fermò, toccandogli un braccio, finché non si voltò nuovamente a guardarla, “ma che vuoi veramente dormire qua? Con tutto quello che sta succedendo? Dovremmo stare insieme, uniti.”

 

Nel pronunciare l’ultima parola, gli aveva preso pure la mano, ma Calogiuri deglutì e scosse il capo, “Imma, non lo capisci che è proprio per… per tutto quello che è successo, che ho bisogno di starmene un po’ da solo mo?”

 

Sospirò, delusa e di nuovo con quel nodo in gola.


“La capa tosta non te la leva nessuno, eh?” gli chiese, amara.

 

“Senti chi parla.”

 

“Va beh,” proclamò, dopo il tempo necessario perché la voce non le si spezzasse, lasciandogli mano e braccio, “me ne vado in bagno e a letto. Se cambi idea, sai dove trovarmi.”

 

Di sicuro non lo avrebbe pregato oltre.

 

Si avviò verso il corridoio, con una fortissima voglia di piangere e di urlare, che però contenne, anche se a fatica.

 

Entrò e sentì come un mugolio che proveniva dall’armadietto sotto il lavandino.

 

Lo aprì e ci trovò Ottavia, arrotolata tra la carta igienica ed i flaconi dei detergenti.

 

Si chiese come ci si era infilata dentro e, soprattutto, come aveva poi richiuso l’anta.

 

“Ma che fai? Giochi a nascondino mo?”

 

Ottavia la guardò in un modo che pareva dirle dammi torto!

 

“Eh che non lo so, Ottà, che tu sei furba, sei? Di sicuro più di me! Tieni più istinto di conservazione!” le toccò ammettere, abbassandosi per prenderla in braccio, “ma mo se ne sono andati tutti, tranquilla. Ci sta solo papà che fa l’offeso.”

 

Ottavia le diede una leccata ed una musata alla guancia e poi balzò per terra, con quella regalità che tanto le invidiava, ed uscì dal bagno, chiaramente per correre da papà suo.

 

Femmine!

 

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“A chi scrivi?”

 

Fece un mezzo salto e gli cascò il telefono sul lenzuolo.

 

Un pessimo segno.

 

“Una donna?” lo incalzò, sentendo una fitta di fastidio.

 

“Mi hai spaventato, Valentì!” esclamò lui, recuperando il cellulare.

 

“Non mi hai risposto, papà!” gli fece notare, avvicinandosi per squadrarlo meglio, che a lei mica la si faceva fessa.

 

Suo padre sospirò e parve esitare un attimo e poi le rispose, “stavo scrivendo a Rosa. Rosaria.”

 

“La sorella di Calogiuri?” domandò, confusa, “ma vi sentite ancora?”

 

“S- sì, sì, diciamo di sì,” le rispose, in un modo che le fece dubitare che fosse tutta una palla e che non stesse affatto scrivendo a lei, ma a un’altra, “voleva sapere come… com’era la situazione di suo fratello e di Imma, prima di provare ad andarli a vedere di persona, che mo con la bimba non ci riesce.”

 

Le pareva tutto molto strano.

 

“E come mai ti scrive a quest’ora?” gli fece notare, visto che era tardissimo, ed un orario per tutto un altro genere di messaggi.

 

“Presumo perché Noemi dorme e mo tiene le mani libere, finalmente.”

 

Le venne un poco da ridere, ripensando a quel piccolo tornado, che in effetti non si poteva perderla d’occhio manco un minuto o chissà che combinava.

 

“Sai che un poco mi manca Noemi? Alla fine, a piccole, anzi, piccolissime dosi, è tenera.”

 

Suo padre sembrò quasi meravigliato: in effetti lei non aveva mai avuto un particolare amore per i bambini urlanti, anzi.

 

“Magari… quando si sistemano un poco le cose… possiamo fare un altro pranzo in famiglia. Tipo a pasqua? Visto che tanto ormai mamma e Calogiuri sono tornati insieme e mi sa che ci resteranno pure, se stanno resistendo a tutto sto casino.”

 

Per tutta risposta, suo padre esplose in un paio di colpi di tosse e le parve molto a disagio all’idea.

 

Sospirò.

 

“Ma che è, papà? Non dirmi che ancora non ti è passata la gelosia per mamma. Mi sembrava che l’idea di vedere… il maresciallo… come lo chiami tu, non fosse più così tremenda, no?”

 

Suo padre fece una mezza smorfia ed un’espressione strana che non capì.

 

“Diciamo che… i pranzi di famiglia sono sempre imbarazzanti e poi… ogni volta succede un casino.”

 

Le venne da ridere, perché era vero, purtroppo.


“Va beh… ma mo che quel cretino del marito di Rosa non ci sta più, magari per una volta possiamo farci un pranzo in pace. Sempre se non vengono ad arrestare qualcuno, che non si sa mai,” scherzò, infilandosi sotto le coperte dal suo lato del letto e buttandogli le braccia al collo per abbracciarlo forte forte.

 

“Valentì…” si sentì sussurrare nell’orecchio, in un modo stupito e commosso.

 

“Pure questo mi era mancato, lo sai papà?” ammise, mentre tutto le ricordava di quando stava male da bimba, ma pure da ragazzina, e si rifugiava tra mamma e papà nel lettone e lui la stringeva forte, facendole passare ogni paura.

 

E, anche se sapeva benissimo che suo padre non aveva quel potere di proteggerla da tutto, si sentì comunque in pace, come era da tanto che non le succedeva.

 

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Allungò una mano ed afferrò il cellulare.

 

Erano le tre del mattino.

 

Si sentiva esausto ma non riusciva a prendere sonno: stava troppo male e, come chiudeva gli occhi, gli sembrava di venire di nuovo strattonato e portato via.

 

L’unica consolazione era Ottavia, che gli si era addormentata sulla pancia, tipo scaldino.

 

Ma gli mancava Imma, il suo calore al suo fianco, il profumo dei suoi capelli. Anche se, quando lo toccava, gli veniva d’istinto di irrigidirsi.

 

Non capiva come si sentiva nei suoi confronti ed era arrabbiato sia con lei che con se stesso per questo.

 

Un rumore improvviso e poi un altro e, anche nella penombra, vide un movimento nel corridoio e mise infine a fuoco Imma.

 

Il fiato gli si bloccò in gola, quando notò come non era vestita: indossava la camicia da notte fucsia, con quegli spacchi profondi che lo avevano sempre fatto impazzire.

 

Lei si bloccò - lo aveva sentito! - e quindi non poté più far finta di stare dormendo.

 

Si guardarono, occhi negli occhi, e rimasero così, come bloccati, per attimi che gli sembrarono interminabili.

 

“A- avevo bisogno di un po’ d’acqua,” mormorò infine lei, con voce rochissima, camminando verso il frigorifero.

 

La vide aprirlo e poi spalancare l’anta dell’armadietto sopra al lavabo, mettendosi sulle punte per prendere un bicchiere, visto che era a piedi nudi.

 

Deglutì: era un’arma impropria, una vera e propria tortura, da denuncia era!

 

Ma Imma richiuse tutto e, col bicchiere in mano, si voltò verso di lui e bevve, lentamente, troppo lentamente, mannaggia a lei, continuando a fissarlo dritto negli occhi.

 

E lui non riusciva a distogliere lo sguardo, si sentiva come ipnotizzato.

 

La tentazione di dire qualcosa, anzi, di fare qualcosa era fortissima, ma non poteva cedere solo perché a lei non riusciva a resistere.

 

Doveva ragionare stavolta, non col cuore o con altro, ma con la testa.

 

Pure nel buio vide chiaramente un paio di gocce sfuggire dal bicchiere e scenderle sul collo.

 

Stava per mandare tutto a quel paese e cedere le armi, quando lei abbassò il vetro, ormai vuoto, lo appoggiò nel lavandino e, dopo un ultimo sguardo fiero, se ne tornò verso il corridoio e la stanza da letto, a passo lento e quasi felino, fino a sparire dalla sua vista, lasciandolo lì, ancora più confuso e scombussolato di prima.

 

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“Giorgio, che succe- de?”

 

Già la convocazione di primissima mattina l’aveva messa in allerta.

 

Trovarsi davanti, oltre che a Giorgio, quell’idiota di Santoro, non migliorò le cose, per niente.

 

“Che ci fa lei qua?” ebbe pure l’ardire di domandare, quel cafone.

 

“Potrei chiedere la stessa cosa di te. E allora?” chiese, rivolgendosi di nuovo a Giorgio, perché le doveva più di qualche spiegazione.

 

“Allora vi ho convocato perché… considerati i pregressi che avete col maresciallo Calogiuri e quanto successo negli ultimi giorni, ho deciso che del caso di aggressione alla Russo me ne occuperò personalmente, anche per evitare tensioni in procura e garantire la massima imparzialità possibile.”

 

Spalancò gli occhi: quello non se lo aspettava proprio e neanche Santoro, che infatti si alzò ed iniziò a protestare ma Giorgio lo bloccò con il cenno d'una mano.

 

“Dottor Santoro, lo sa anche lei che non ci andrò affatto leggero nei confronti del maresciallo, anzi. E a lei resterà l’indagine riguardo alla corruzione nei confronti della Russo e sulle testimonianze falsate al processo, mentre a te, Irene, resterà ovviamente tutto quello che riguarda il maxiprocesso. Dobbiamo collaborare tutti, fare fronte comune.”

 

Le fece un cenno alla fine, impercettibile da chi non lo conosceva più che bene, che la tranquillizzò, come la tranquillizzò il notare che Santoro pareva essersi calmato.

 

Giorgio era riuscito a non fargli tenere il caso ed era quella la cosa più importante. Per il resto doveva solo lavorare sodo, insieme a lui, per cercare di togliere Calogiuri dai guai.

 

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“Prego, prego.”

 

“Grazie, dottore.”

 

Era finalmente solo, dopo aver in qualche modo evitato l’ennesima crisi in procura, e poteva finalmente ricevere Mariani che era in attesa da un po’, secondo quanto riferitogli dalla sua segretaria.

 

“Mi dica, Mariani, ci sono novità? Aggiornamenti sulle condizioni della Russo?”

 

“Melita… cioè la Russo è stabile, dottore. Non è peggiorata ma non sta neanche migliorando. Rimane in coma, anche perché l’emorragia cerebrale deve ancora riassorbirsi e poi… avrà bisogno degli altri interventi, se riesce a superare questa fase.”

 

Annuì: sarebbe stato un miracolo se avesse mai ripreso conoscenza e, soprattutto, coscienza piena di sé e di quello che le era successo.

 

“Inoltre la scientifica sta proseguendo con le analisi sui campioni di DNA rinvenuti, ma per ora sappiamo solo con certezza che i frammenti di pelle trovati sotto le unghie della Russo non sono di origine umana. Un giaccone di pelle, probabilmente, o qualche altro indumento o accessorio di pelletteria.”

 

Sospirò, prendendosi per un attimo il naso tra le dita, per poi riposizionarci gli occhiali: ci aveva sperato, ma sarebbe stato troppo facile.

 

“Allora dovremo verificare tra gli oggetti personali del maresciallo Calogiuri: se c’è qualcosa di simile, con dei graffi, o se manca qualcosa.”

 

Mariani annuì, con una professionalità ammirevole, considerata l’amicizia tra lei ed il dannato maresciallo, e poi proseguì, “inoltre… inoltre è uscita fuori un’altra cosa, dottore, anche se non so se abbia rilevanza con tutta questa storia.”

 

“Cioè?”

 

“I medici mi hanno detto che… che sembra che Melita abbia avuto una gravidanza in passato, perché ha il segno di un cesareo o… o di un’interruzione di gravidanza in uno stadio molto avanzato. Non è recentissima, ma non parrebbe nemmeno così ben cicatrizzata. Secondo i dottori, non ha più di un anno, al massimo.”

 

Merda!



 

Nota dell’autrice: Ebbene sì, finalmente ce l’ho fatta a finire di scrivere e a postare un nuovo capitolo! Mi scuso tantissimo con voi per l’assenza lunghissima, ma sono intervenuti impegni, le vacanze ed un blocco dello scrittore molto più ostinato del previsto.

Ora sembra che l’ispirazione sia tornata e spero che questo capitolo non abbia deluso troppo l’aspettativa e sia valso la lunga attesa. Da ora in poi spero davvero che le pubblicazioni possano tornare costanti.

Imma e Calogiuri sono immersi in tutto questo enorme casino, ora si è anche scoperto che forse Melita era incinta e la situazione si complicherà sempre di più. Allo stesso tempo, nel prossimo capitolo ci saranno alcuni avvenimenti e rivelazioni fondamentali, sia per il giallo che per la vita personale dei nostri personaggi.

Vi ringrazio tantissimo per l’affetto con cui avete seguito questa storia e spero continuerete a farlo pure dopo questa lunga pausa. Vi ringrazio per tutti i messaggi di sostegno che ho ricevuto in queste settimane, davvero mi avete incoraggiata tantissimo a continuare e a cercare in ogni modo di superare il mio blocco.

Un grazie particolare a chi ha aggiunto questa storia nei preferiti o nei seguiti e a chi mi ha lasciato una recensione: le vostre opinioni mi sono preziosissime per capire come vanno le cose, e mai come questa volta vi chiedo di farmi sapere che ne pensate, in positivo e negativo, per capire se sono ripartita col piede giusto o meno e in cosa posso migliorare.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare tra due settimane, domenica 17 ottobre, sperando nel frattempo di avere anche più notizie sulla nuova stagione di Imma.

Grazie ancora! 

 
   
 
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