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Autore: thewanderess    08/10/2021    0 recensioni
"Il Maestro è morto, lo hanno ucciso. Sono morti tutti... e io sono rimasto. Sono vivo, capisci? L'ultimo alchimista..."
Genere: Angst, Avventura, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Team Mustang
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 La luce fioca del fiammifero illuminò per qualche istante il volto di Sam, accendendo il tabacco della sigaretta e trasformandolo in un fumo denso e aromatico. August accanto a lui rifiutò un tiro con disgusto. Da qualche parte qualcuno suonava dei tamburi e una chitarra. Si udivano distintamente giovani voci ridere e cantare e mani ansiose battere a ritmo di quella melodia ipnotizzante. 

Sam riusciva quasi a vederla: una ragazza bellissima dalla pelle scura e gli occhi cremisi girare attorno al fuoco, la lunga gonna danzarle sulle caviglie magre, la fronte madida di sudore e un intero villaggio ad ammirarla in adorazione.

“Sai che dovresti fare?” Lo interruppe il compagno di ronda, rubando la cicca accesa tra le sue labbra e buttandola via. “Smetterla di viaggiare con la mente e starmi a sentire.”

Sam lo guardò storto, ma era troppo svogliato per cominciare un litigio. “Che problemi hai?”

“Il mio problema è che se ti beccano a fumare è a me che chiedono spiegazioni… recluta” 

“Come ti pare...” Sam si sistemò meglio il fucile in spalla. “Tanto tra poco finisce il turno. Piuttosto andiamo a fare l’ultimo giro prima di chiuderci dentro.”

August ridacchiò. “Stai pensando ad una ragazza. Si vede.”

Sam si avviò senza rispondere. Non sopportava le chiacchiere fini a loro stesse. Forse era proprio per questo che non amava essere assegnato alle ronde notturne. 

“Già… siete tutti uguali voi soldatini di città. Venite qui tesi, neanche aveste una scopa su per il culo, convinti di potervi rendere utili e chissà quali altre cazzate, con l’uniforme tutta appuntata e lavata dalla mamma…” L’omaccione continuò a blaterare a voce bassa, seguendolo a ruota, senza la minima intenzione di tacere. “E poi invece finite per crollare davanti al primo paio di occhietti dolci.”

“Non ho idea di cosa tu stia parlando.” Sussurrò Sam poco convinto. Svoltarono l’angolo dell’armeria deserta, ritrovandosi nel cortile principale. Era illuminato da alcuni fari puntati sull’ingresso principale e sul parcheggio. Per il resto l’oscurità dominava.

“Parlo delle ragazze di Ishval, broccolo. Quelle piccole sgualdrinelle farebbero girare la testa a chiunque, lo so benissimo. Alla tua età ero qui durante la guerra. A quei tempi non dovevi nemmeno chiedere il permesso. Se una ragazza ti piaceva te la prendevi e finiva lì. Se capisci che intendo…”  August gli assestò una poderosa gomitata sullo stinco levandogli il fiato per pochi secondi, giusto il tempo per farlo desistere dal rispondere a tono a quelle idiozie. August si schiarì la voce e continuò. “Comunque che non ti venga in mente di combinare qualche guaio con una di loro. In tempo di guerra tutto è concesso, ma ora-”

Si interruppe bruscamente, zittito da Sam. Il ragazzo aveva avvertito qualcosa, uno strisciare tra le auto di servizio parcheggiate ordinatamente.

“Sì, ho sentito anche io… ma stai tranquillo, sarà una volpe in cerca di qualche pollaio da saccheggiare. Questa zona ne è piena.”
Avrebbe preferito tramortirlo con un colpo sferrato con il calcio del suo fucile, ma si limitò a scuotere la testa e a precisare che il rumore era stato provocato da qualcosa di decisamente più grosso di una volpe.

“Uno sciacallo allora”

“Diamine, vuoi stare zitto?!”
Sam imbracciò il fucile e, con passi controllati e gli occhi azzurri puntati verso la fonte di quei suoni sospetti, vi si avvicinò intimando il compagno di rimanere indietro. Esplorò lo spazio tra le auto con cautela, aguzzando i sensi, ma non riuscì a sentire più nulla. Se qualcosa c’era se ne era andato. Nemmeno la terra sotto ai suoi piedi sembrava smossa, né si notavano tracce fresche. 

“Te l’avevo detto, si sentono sempre rumori strani da queste parti” Esordì August quando Sam tornò accanto a lui col fucile sulla spalla. “Hanno anche cominciato a circolare delle strane dicerie…”Ridacchiò, notando l’improvviso interesse dell’altro. Soddisfatto, si preparò a sciorinare una storia che sperava fosse lugubre abbastanza da spaventare il ragazzo. August era realmente deciso di fargli abbassare la cresta una volta per tutte.

“E’ iniziato tutto circa un anno fa. Avevano appena completato i lavori alla ferrovia, tonnellate di casse arrivavano ogni giorno da tutta Amestris e dovevano essere smistate. Ovviamente avevano dato a me il compito di sorvegliare i carichi più importanti, specialmente quelli che dovevano finire qui all’armeria. Una sera il turno di guardia toccava a me e ad un ragazzo più o meno della tua età, anche lui fresco fresco di accademia. Quella fu l’ultima volta che lo vidi.”

“Continua.”

August annuì e il suo volto si fece dannatamente serio. “Era una sera proprio come questa, la luna era luminosa e non c’erano nuvole. Era piena estate ma il vento del deserto sferzava come non mai. Hans – era questo il nome del ragazzo – sentì dei rumori provenire da uno dei convogli. Era come se qualcuno stesse armeggiando con dei catenacci o qualcosa di simile, raccontò poi. Fu allora che lo vide, nascosto nel buio, all’interno di un vagone. Lo illuminò con la torcia… era uno spirito, uno jiwaa, come lo chiamano qui. Aveva la pelle di un pallore cadaverico e gli occhi iniettati di sangue. Sibilò contro di lui e lo spinse giù dal vagone, trapassandogli lo stomaco. Lo sentii urlare e accorsi immediatamente, trovandolo a terra tremante con gli occhi spalancati. Quel poveretto si era pisciato addosso dalla paura.”

Sam sbuffò. “Stronzate. Probabilmente si è inventato tutto per giustificare di essersi pisciato nei pantaloni come un neonato.” Si stiracchiò, pronto per chiudere lì la questione, ma fu interrotto da August che alzò la voce.

“Fammi finire! Hans non si fece più rivedere, tornò a casa due giorni dopo. A poche settimane di distanza altri soldati dissero di aver visto lo spirito di nuovo alla ferrovia e dopo qualche mese anche all’interno degli edifici dell’esercito. Sbucava fuori e poi spariva alla velocità della luce attraversando i muri.”

“Solo balle. I fantasmi non esistono, è solo una stupida suggestione. Un fantasma bianco con gli occhi rossi, tornato dal mondo dei morti per… cosa? Vendicarsi con i soldati per i morti di guerra?”

“Esattamente” Annuì August. “La gente di Ishval ha iniziato a parlarne, alcuni lo pregano ogni notte perché venga e si porti via qualcuno di noi come scambio per le vite dei loro cari morti in battaglia. Chiedilo a chiunque, ti confermerà la cosa.”

“E perché allora io non ho sentito nessuno parlarne?”

“Circa tre mesi fa il custode dell’armeria, un uomo di Ishval, disse di averlo visto e di avergli rubato un pezzo della veste strappata e ricoperta di sangue. Ma quando fu il momento di mostrarla a tutti, questa si era volatilizzata. L’uomo decise di sottrarsi all’incarico e il Maggiore Miles vietò a chiunque di parlare di questa storia.”

“Quindi perché me ne parli?” Chiese Sam provocatorio. 

August aprì la bocca per rispondere ma ogni suono gli si bloccò in gola. All’interno dell’armeria si udì distintamente, nel silenzio cupo della notte, un fracasso di vetri rotti, come se qualcuno stesse distruggendo una finestra o un vaso di cristallo. I due soldati si guardarono attoniti. Sam, per dimostrare ad August di non avere alcuna paura, fu il primo ad intervenire. Spalancò la porta d’ingresso dell’armeria e, seguito dall’altro, corse su per le scale col fucile tra le mani tremolanti. August tentò più volte di accendere le luci dell’edificio ma erano stranamente fuori uso. “Attento Sam!” 

Accompagnato solo dalla luce della torcia, il giovane superò la prima rampa di scale, poi la seconda. Il piano di sopra era deserto, fatta eccezione per un’inquietante statua di marmo che in un primo momento lo impaurì, facendogli alzare il fucile d’istinto. August sopraggiunse dietro di lui, poggiando una mano sulla sua spalla per rassicurarlo, sussurrandogli di fare silenzio. Non c’erano vetri rotti in vista ma la porta di fronte alle scale era socchiusa. 

L’omaccione soppesò i propri passi, risultando più silenzioso di un gatto selvatico, nonostante la mole decisamente più grande. Sam, appena dietro di lui, era quasi pietrificato. Di botto una rabbia tremenda lo pervase. Non avrebbe fatto la figura del fesso, non la sua prima settimana di lavoro. Era un soldato addestrato, diamine; un militare che non si lasciava abbindolare da aneddoti inventati su fantasmi e spiriti.

Ringhiò, armandosi di tutto il coraggio di cui era capace e scaraventandosi inavvertitamente su August, spingendolo via, per poi fiondarsi sulla porta. La spalancò con una spallata e al suo interno vide ciò che non avrebbe mai immaginato fosse reale. 

Quello spirito, quel jiwaa, era accanto alla finestra rotta, curvo dietro una scrivania. Lo vide solo per pochi secondi illuminato dalla torcia: biancastro e spettrale, la stazza di un bambino scheletrico e i capelli bianchi. Sparò senza guardare in quella direzione, sospinto indietro dal rinculo dell’arma. Quando riaprì gli occhi e August entrò nella stanza stravolto la creatura era ormai scomparsa.

 

Edward Elric aveva dimenticato quanto fosse soffocante l’aria di Central City. La città, in quegli anni di assenza, si era ingrandita e ingrigita a vista d’occhio ed era più caotica e fumosa che mai. Niente a che vedere con l’aria pura dell’ovest o, tanto per non allontanarsi troppo, del suo villaggio natale.

Su Central era caduto un sottile strato di neve rapidamente trasformatosi in ghiaccio e poi, a causa della pioggia, in una poltiglia marrone che le automobili lanciavano senza alcun ritegno addosso ai passanti. Non c’era niente che avrebbe potuto riportare Edward in quel luogo, soprattutto con i dolori alla gamba che si facevano più acuti man mano che ci si inoltrava nel gelido mese di Novembre. 
Nulla, tranne Alphonse Elric. 

Suo fratello minore gli era seduto di fronte al tavolo della caffetteria, gustandosi famelico una torta panna e fragole e interrompendosi solo per tracannare sorsi bollenti di cioccolata calda. Edward lo fissò tutto il tempo, compiaciuto.

“Mi ci voleva, fratello!” Al si massaggiò lo stomaco pieno e si ripulì un angolo delle labbra sporco di cioccolato. “mi mancava proprio il cibo di Amestris. Mei ci prova ad accontentarmi, ma non è la stessa cosa, eh…” Si interruppe. Ed guardava fuori dalla finestra del locale. “A che pensi?”

Edward tornò in se rapidamente e cominciò a rovistare nella tasca del suo soprabito. 
“Sono tanti anni che non metto piede in città e mi sembra tutto diverso.” sghignazzò, estraendo del denaro e lasciandolo sul tavolo sotto un piattino da caffè. “So che è normale, ma non riesco a farmene una ragione.” 

Rimettendo apposto il portafogli l’occhio gli cadde sulla foto di famiglia che teneva sempre con sé. Sorridevano tutti. Al tempo dello scatto a Nina mancavano i due denti davanti ed Alexander la prendeva sempre in giro.  

“Credo che la difficoltà più grande sia accettare che siamo noi ad essere cambiati. Sono successe talmente tante cose.” Si alzò per stiracchiarsi, mugugnando di dolore. “Viaggiare tutta la notte attraverso il deserto è stancante anche ora che esiste la ferrovia. Mi chiedo quando inventeremo modi di viaggiare più comodi e veloci.”

“Almeno non devi andartene in giro con una protesi d’acciaio…” Ed lo seguì, spostando manualmente la gamba a cui era installato l’automail. “O con un’armatura.”

“Mi tengo stretto il mio dolore alla schiena.”

I due si avviarono verso l’uscita salutando rapidamente. Il personale del negozio, composto da giovani donne trafelate, non mancò di rispondere al saluto con entusiasmo. Era passato tantissimo tempo ma da quelle parti si parlava ancora di lui, l’Alchimista d’Acciaio, e del fratello che improvvisamente aveva iniziato a farsi vedere in giro senza quell’ingombrante armatura.

All’esterno la temperatura era notevolmente più bassa e nonostante un timidissimo sole avesse fatto capolino tra i nuvoloni ancora carichi di pioggia, il vento sferzante vanificava ogni tentativo dei raggi di portare sollievo e calore. Da quasi ogni palazzo si ergevano nuvolette di fumo nero, segno che anche così presto gli abitanti avevano acceso il camino.

“Abbiamo ancora qualche ora prima che il treno per Resembool riparta, che facciamo?” Chiese Alphonse, scansando un passante particolarmente di fretta. Erano arrivati da neanche un’ora dopo circa dodici ore di viaggio e diversi cambi. Per chiunque altro sarebbe stato un tragitto infinito, ma l’avere suo fratello accanto dopo quasi un anno senza vederlo aveva fatto volare il tempo. 

“Un’idea ce l’avrei, Al.” 


La villa in cui vivevano Gracia ed Elicia Hughes si trovava poco lontano dal centro, in un quartiere residenziale abitato principalmente da famiglie di giovani ufficiali e veterani in pensione. Un luogo tranquillo e pulito, come notarono i due fratelli aprendo il cancello e percorrendo il vialetto che conduceva alla porta d’ingresso dipinta di bianco. Bianche erano anche le pareti esterne della casa, sotto l’edera rampicante spoglia, e c’era solo un po’ di neve accumulatasi in ghiaccio sul giardino curato. Il caos della grande città era scomparso in quella zona per dar spazio alla quiete.

Alphonse teneva in mano un pacco sottile appena acquistato in un vecchio negozio di dolci e la sua valigia, ma fu comunque lui il primo a bussare alla porta. Edward, imbarazzato, rimase dietro di lui con le mani ben calcate in tasca. 

Gracia Hughes non era cambiata affatto dall’ultima volta che si erano visti, alcuni anni fa. La donna aveva mantenuto un aspetto giovanile e gli irrimediabili segni dell’età sembravano non aver avuto alcun effetto su di lei. In quella casa il tempo si era fermato. “Edward, Alphonse!”

Un sorriso le aveva illuminato il volto. Non l’avevano mai vista più solare. 
“Che sorpresa gradita, sono così felice di vedervi! Cosa vi porta qui?”

“Siamo sulla strada per Resembool e abbiamo pensato di venire a trovare te ed Elicia.” Esordì Al dopo aver ricambiato il saluto con un gesto impacciato della mano. Il darle del tu gli parve oltremodo bizzarro.

“Ci siamo permessi di portare un regalo.” Edward era solito riservare quel garbo e le buone maniere a pochissime persone. Una di quelle era proprio Gracia. “Come scusa per il disturbo.”

“Non lo siete affatto. Venite dentro: in casa il camino è acceso” 
La dimora della signora Hughes era proprio come la ricordavano, ordinata e dalla pulizia impeccabile, sicuramente merito di chi vi abitava. Alphonse ed Edward seguirono Gracia nel grazioso salottino. L’aria era tiepida e lo scoppiettare del camino li fece sentire come a casa. Si sedettero su uno dei due divanetti di velluto verde scuro, mentre la donna scartava il suo regalo proprio davanti a loro.

“Oggi siamo stati anche al Quartier Generale.” Al tolse il soprabito, sfoggiando una camicia xingese di seta blu scuro, che per un attimo attirò l’attenzione della donna. “O almeno ci abbiamo provato. Il Generale non era presente.”

“Non ci vede da anni e non si degna neanche di mostrare il suo muso baffuto.” Aggiunse Edward indispettito.

Gracia sorrise comprensiva. “Sono sicura che se avesse potuto vi avrebbe ricevuti. E’ sempre così disponibile e gentile! Pensate: qualche settimana fa è stato il sedicesimo compleanno di Elicia e lui le ha fatto recapitare a scuola un enorme bouquet di fiori. Le altre ragazze erano così gelose!”

Edward pensò che tali dimostrazioni plateali erano proprio da Mustang, così come il candore faceva parte della personalità della moglie di Maes Hughes.   

Gracia, però, si incupì all’improvviso. “A Central City la situazione non è facile. Ci sono scontri quasi ogni giorno, anche violenti, tra gruppi di Ishvalan e cittadini di Amestris. E la cosa peggiore è che I giornali non fanno altro che fomentare la rabbia. Sono convinta che la gente di Ishval si sia guadagnata il diritto di dire la propria ma per molti qui non è così.”

Ed rimase esterrefatto e rinunciò a servirsi di un cioccolatino che Gracia aveva offerto.

Alphonse notò l’espressione perplessa del fratello. “Sei fuori dal mondo, Ed? A Xing giungono sparute voci, so che Ishval strepita per l’indipendenza.”

“Era già difficile lavorare alla ricostruzione di Ishval… adesso deve in parte occuparsi dell’ordine pubblico” Riprese Gracia. “Senza contare tutte le altre incombenze militari. E’ decisamente sotto pressione, non credo di averlo mai visto così esausto… ma vi prego di non dirglielo, se vi capita di incontrarlo. Non vorrebbe mai che qualcuno lo sapesse.”

Entrambi promisero di non farne parola. Continuarono a chiacchierare amabilmente delle rispettive famiglie, del lavoro e del clima glaciale di quell’anno, quando avvertirono la porta d’ingresso aprirsi e, poco dopo, un piccolo cagnolino bianco schizzò dentro il salotto.
Poi entrò Elicia, accompagnata da un anonimo ragazzino dai capelli neri.

“Guarda chi è venuto a farci visita!” 

Elicia non diede il tempo ai due uomini di alzarsi e corse loro incontro, cingendoli in un abbraccio caloroso.

“Elicia sei così…”

“…Alta!”

In effetti la ragazzina era diventata decisamente più alta della madre. Se, durante l’infanzia, la figlia di Hughes era la copia spiccicata di Gracia, crescendo I tratti paterni si erano fatti più prepotenti. E lei sembrava andarne fiera. “Tutti mi dicono che più cresco più somiglio a mio padre” Disse, sfoggiando un’improvvisa timidezza. “Spero sia vero.”

Ed e Al non poterono fare a meno di guardarsi ed esclamare, all’uniscono, “Lo è!” 

Quel ragazzo smilzo rimasto all’ingresso del salotto, invece, cominciò a mostrare segni di disagio. “Vieni Selim, ti presento i miei amici.”

Selim salutò timidamente. Teneva un pesante libro sotto il braccio. Era pallido e smunto, ma i tratti del viso erano inconfondibili. Era perfettamente identico a quello che, una volta, era stato l’homunculus Pride. Solo un po’ cresciuto.

Ed e Al restarono interdetti e guardarono Gracia nel disperato tentativo di ricevere supporto, ma la donna si limitò a sorridere come sempre e ad invitare la figlia e l’amico a sedersi e mangiare qualche leccornia. Entrambi si fiondarono sulla scatola senza farselo ripetere due volte, iniziando a scartare più praline possibili.

Elicia, con ancora la bocca piena, chiese ai due uomini: “Vi ricordate di Mira? L’ultima volta che siete venuti era così piccola!”

Ed si distrasse a malapena dal guardare  Selim che, visibilmente imbarazzato da quell’attenzione sgradita, continuava ad ingurgitare cioccolata ripiena. “Certo. Non somiglia per nulla ad Hain.”

Elicia notò l’espressione del ragazzino, cercando di mediare. “Loro sono Edward e Alphonse Elric, te ne avevo parlato.”

Lui deglutì a fatica, annuendo. “Ssì. Beh, piacere”

“Selim, come sta tua madre?” Edward, ancora frastornato, suonò inavvertitamente inquisitorio.

“Mia madre sta bene, sì. Stiamo bene.”

“Se puoi, mandale i nostri saluti!” Alphonse corresse il tiro.

Selim annuì, un po’ sospettoso. “Lo farò volentieri. Forse ora però dovrei andare…”

Elicia si lamentò ma il ragazzo non attese oltre. Raccolse un paio di dolci dal tavolino in mezzo ai divani e corse via. “A domani Elicia! Arrivederci signora Gracia!” I presenti lo sentirono fermarsi di botto all’ingresso, per poi tornare indietro ed inchinarsi, conciliante, coi due ospiti per salutarli. Poi andò via davvero.

“Credo che non mi riprenderò più da questo incontro…”

Al e Gracia risero di gusto mentre Elicia chiese confusa di cosa stessero parlando, senza ricevere risposta.

 

Fuori dalla finestra il vento ululava forte e I fiocchi di neve roteavano vorticosamente prima di posarsi.

Alexander Elric era appoggiato, braccia conserte, al davanzale della finestra. La sua camera era immersa nel buio e nemmeno Nina era sveglia. Hain, probabilmente, dormiva sotto la scrivania dell’officina mentre la mamma era al lavoro. 

Aspettare suo padre era diventata più una necessità che un piacere. Vederlo ritornare trionfante dopo un lungo viaggio gli donava un senso di serenità familiare che, durante le sue assenze più o meno lunghe, ogni tanto rischiava di perdersi. 

Alex aveva davvero provato a dormire, quella sera, ma come era prevedibile non era riuscito a prendere sonno. E non aveva neanche avuto il coraggio di raccontare a qualcuno dei suoi incubi. Nina l’avrebbe sicuramente raccontato alla mamma. E la mamma l’avrebbe sicuramente trattato come un bambino piccolo, pauroso e bisognoso di protezione. In parte era vero, Alex stava per compiere solo dieci anni. Ma poi suo padre sarebbe venuto a saperlo e di conseguenza chissà che avrebbe pensato di lui.
Un ragazzino orfano costretto dalle circostanze ad unirsi all’esercito, contro un bimbo che prova terrore per qualcosa di irreale che avviene solo durante I sogni?

Erano circa due settimane che continuava a sognare la guerra civile di Ishval. Era sicuro fosse colpa del maestro che gliene aveva parlato a scuola, d’altronde era già successo. Eppure I sogni erano così vividi, ricchi di particolari e di storie che sembravano tremendamente reali. Era quello ad inquietarlo di più.

In ogni caso, solitamente, gli incubi sparivano quando suo padre tornava a casa. Quindi non c’era motivo di preoccuparsi. Alexander avrebbe atteso, come sempre, di rivedere Ed attraverso il vetro della finestra, stanco ma felice, e poi avrebbe potuto prendere sonno una volta per tutte.
  
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