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Autore: DalilaRPEW    09/10/2021    0 recensioni
Sono passati tredici anni dal matrimonio di Ian e Mickey, e i rischi di una quotidianità apparentemente sempre uguale forse hanno lasciato qualche brutto segno, strada facendo. Ma Ian e Mickey non hanno nessuna intenzione di perdersi, nessuna intenzione di lasciarsi andare. Forse possono aiutarsi a ricominciare, forse possono scoprirsi innamorati come se questi tredici anni non fossero mai passati.
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Ian Gallagher, Mickey Milkovich
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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7 aprile 2033

Tredici anni, due mesi e sette giorni.
Quattromilasettecentoquarantanove giorni in totale, centotredicimilanovecentosettantasei ore.
Da tutto quel tempo erano sposati e, forse, ormai da un po' il tempo cominciava a farsi sentire.

Per anni non lo avevano avvertito, non si erano accorti del suo passaggio, lo avevano lasciato vivere con loro quasi fosse un terzo inquilino, ma senza mai davvero lasciargli uno spazio suo, senza mai badarci veramente. Adesso, però, d'un tratto s'era come svegliato, aveva messo a soqquadro la casa, aveva rotto tutto quello che aveva potuto e aveva lasciato i cocci sul pavimento, affinché finalmente si accorgessero della sua presenza e ci facessero i conti una volta per tutte.

Mickey pensava a tutte queste cose mentre Ian, a mezzo divano e una poltrona di distanza, leggeva distrattamente chissà quale libro, con l'unico scopo - probabilmente - di irritarlo a morte.

"Potresti evitare di girare le pagine in questa maniera odiosa?" chiese d'un tratto il più grande, non riuscendo più a trattenersi.
"Oh" ribatté Ian, fingendo di riemergere da quel mondo letterario in cui non era mai davvero entrato. "Cavolo, ti dà fastidio? Sarebbe proprio un peccato se decidessi di dover finire questo libro entro cena, allora."
"Entro cena? Ma sei scemo? Ti ho detto che stavo morendo di fame già un'ora fa!"
"E' un vero peccato. Perdonami, ma questa storia è così avvincente che non riesco proprio a staccarmene."
"Oh, andiamo Ian, non fare lo stronzo. Ho finito di cucinare da un pezzo e fra un po' si fredderà tutto!"
"Accidenti. E oggi quale piatto gourmet avresti preparato, dato che sei tornato con tutti quei sacchetti della spesa? Maccheroni al formaggio rigorosamente scongelati nel microonde?"
Mickey non poteva sopportare un minuto di più: "Fanculo a te e al tuo palato raffinato, me ne vado."
In un secondo Ian scattò in piedi come una molla, dimenticandosi completamente della messinscena che aveva allestito fino ad un secondo prima: "Oh, andiamo Mick, stavo scherzando! Su, vieni qui e ceniamo."
"Mi è passata la fame. Mangia pure la mia disgustosa cena oppure ordinati una pizza, non lo so, fai quello che vuoi. Non mi importa. Io vado a farmi un giro."
"Ehi Mickey, fermati dai, dove vai? Vieni -"
Un rumore sordo fece sobbalzare Ian, quella porta non si era mai chiusa in maniera tanto triste.
"- qui" concluse poi, e quell'unica parola solitaria riecheggiò nel loro soggiorno insolitamente vuoto e silenzioso.

D'un tratto svuotato, Ian si accasciò di nuovo sulla poltrona su cui si trovava fino ad un minuto prima, ma per assurdo la trovò infinitamente scomoda, come se all'improvviso quella poltrona non fosse più la sua, quella casa non fosse più la sua.
Lui e Mickey vivevano in quella casa da ormai tredici anni, da quando si erano sposati. Subito dopo il matrimonio non erano rimasti chissà quanti soldi, ma il desiderio di ritagliarsi un angolo nel mondo che fosse solo loro era stato più forte di tutto, quindi avevano messo insieme quei pochi spicci che avevano da parte e avevano comprato quella piccola casetta, che non era certo una reggia ma era loro, e in quel momento non avevano avuto nulla di più da chiedere.
Ed era sempre stata casa loro, casa sua e di Mickey, mai l'aveva vista come casa "sua", e starci da solo non gli piaceva. Soprattutto in quel momento.

Fece un respiro profondo e si odiò per essersi comportato da vero stronzo con suo marito. Non sapeva quando esattamente il declino fosse cominciato, non sapeva quando le risate si erano trasformate in fronti corrugate e i baci improvvisati in mezzo al corridoio erano diventati lotte di supremazia per ogni minima cosa.
Sorrise sommessamente Ian, quando con la mente tornò a tutti gli infiniti baci che si erano scambiati in quei lunghissimi e fulminei anni. Arrivò fino al loro primo bacio, e quasi gli sfuggì una lacrima: erano due ragazzini che non sapevano nulla, né della vita, né dell'amore, di niente. Eppure già allora Ian sapeva che tutto sarebbe passato per quel bacio, e che tutto, dopo di esso, sarebbe cambiato: ricordava perfettamente quanto lo aveva desiderato e ricordava perfettamente la paura che si era impossessata di lui nel momento in cui aveva realizzato che forse Mickey quel bacio non glielo avrebbe mai dato, che forse per lui sarebbe stato davvero sempre e solo uno fra i tanti, un passatempo interscambiabile come milioni di altri. E poi invece quel bacio era arrivato, eccome se era arrivato: nel bel mezzo di un furto in una casa, in pieno stile Milkovich. Ed effettivamente, dopo, tutto era cambiato.
Lentamente Mickey aveva fatto cadere tutte le barriere, lentissimamente, aveva tolto un masso alla volta, si era scoperto e reso vulnerabile, si era mostrato innamorato perso di quel ragazzino dai capelli rossi, esattamente come lo era, come si sentiva.

Si erano innamorati, si erano più o meno messi insieme e avevano provato ad essere felici, anche se erano soltanto due ragazzini, ma ogni volta che si avvicinavano a quella felicità tanto agognata succedeva qualcosa: un paio di poliziotti dentro casa, un disturbo psichico, una fuga in Messico. Poi, invece, tredici anni prima ad un tratto si erano finalmente trovati sereni nello stesso momento della vita, con mille progetti per la testa ma primo fra tutti quello di non perdersi più, di stringersi forte una volta per tutte e di non lasciarsi andare, di esserci - semplicemente - l'uno per l'altro. Per sempre.
Però, forse, non avevano messo in conto che viversi giorno per giorno sarebbe stata un'altra cosa.
Si amavano, nel modo più spontaneo e bello possibile, e avevano creduto che questo sarebbe bastato.

Perché non bastava?

Ian non voleva pensarci, non in quel momento, e non voleva nemmeno rimanere lì fermo un secondo di più mentre Mickey era arrabbiato chissà dove. Raccolse il giubbotto dal divano, imboccò la porta, scese le scale del portico in fretta. Non appena arrivò in fondo al vialetto si accorse di aver dimenticato una cosa importante: tornò indietro, infilò le chiavi nella toppa, rientrò. Corse in cucina e si guardò intorno, non aveva idea di cosa né dove potesse essere. Aprì il frigo, poi il forno. Sorrise: pasta al forno, il suo piatto preferito. Mickey gli aveva preparato il suo piatto preferito. Ecco perché era tornato a casa con tutte quelle buste della spesa.
Ian si sporse per prendere la teglia dal forno e si sentì tremendamente in colpa quando si accorse che era effettivamente fredda come Mickey aveva detto. La prese e l'appoggiò sul tavolo, poi dalle antine subito sotto prese due contenitori: porzionò la pasta e sistemò una porzione in un contenitore e una porzione nell'altro, poi li richiuse con i rispettivi coperchi ed infine li mise entrambi in un sacchetto, assieme a due forchette.
Spense di nuovo le luci dietro di sé, si chiuse la porta alle spalle ed in un secondo si ritrovò di nuovo alla fine del vialetto del cortile. Mentre si dirigeva a passo svelto verso la macchina prese il telefono dalla tasca e chiamò suo fratello.

"Lip? Ciao, sono io. Senti, mi chiedevo: ti va se George vengo a prenderlo io stasera? Così ti risparmi il viaggio e tu e Tami avete più tempo per voi."
"Ian, ciao" rispose Lip dall'altro capo del telefono. "Mi andrebbe sicuramente ma ti ci vogliono due ore per arrivare nel Wisconsin."
"Oh, andiamo! Ce ne metterei altrettante per attraversare la città, no? Lo faccio con piacere, davvero. Parto subito, arriverò prima che tu te ne accorga. Magari tu nel frattempo aiuta George a preparare la sua roba, ok? Resta con me per il fine settimana, finché Fred e Lucy sono al campeggio, come avevamo detto. E tu ti godi due giorni da solo con tua moglie. Ok?"
Lip rise sommessamente: "Ok, grazie davvero, fratello."
"Di nulla, ci vediamo tra poco."
Ciò detto Ian chiuse di scatto la chiamata e salì in macchina, posizionò sul sedile del passeggero il sacchetto con i due contenitori e partì, felice di stare facendo qualcosa di carino, almeno per suo fratello.

* * *

Era un'ora ormai che Mickey vagava per la città senza avere minimamente idea di dove stesse andando, ma la verità era semplicemente che non gli importava, giacché l'unico posto di cui gli fosse mai importato se lo era lasciato alle spalle poco prima. Il vento gli tagliava la faccia ma non lo sentiva neppure, aveva la testa così satura di pensieri che già solo il provare a metterci ordine catalizzava ogni briciolo della sua attenzione. Chicago attorno a lui era insolitamente silenziosa, quasi come se qualcuno fosse arrivato dall'esterno ad abbassarne il volume, a rimproverarla perché era troppo rumorosa. Pensandoci, Mickey realizzò di sentirsi così, come una cosa che stava zitta senza essere minimamente abituata a starci, una cosa a cui avevano forzatamente tolto ogni sorta di suono, di vibrazione indipendente. E nessuno più riusciva a sentirlo, a percepirlo.

Ian era riuscito a sentirlo prima di chiunque altro, ad ascoltarlo, e probabilmente era stato l'unico che lo avesse mai ascoltato davvero, l'unico che fosse riuscito ad andare oltre la corazza di silenzi ed omissioni che era firma propria del South Side; e scavalcando quei silenzi era lentamente riuscito ad affezionarsi a lui, a decifrarlo, e poi - addirittura - ad amarlo. Ian lo amava. Lo aveva amato. Mickey però non avrebbe saputo dire se lo amasse ancora.
D'un tratto alzò lo sguardo dai suoi piedi, che guardava ostinatamente da fin troppo tempo, e sorrise vedendo dove lo avevano portato: il campo da football della scuola, il luogo dove tutto era cominciato. Lo stesso luogo in cui lui ed Ian si erano innamorati, giorno dopo giorno, il luogo in cui Ian si allenava per entrare nell'esercito mentre Mickey sparava colpi di pistola all'aria, per aumentare la difficoltà e la carica realistica, ma anche - soprattutto - per infastidirlo. Il luogo in cui aveva condotto Ian dopo essere evaso dal carcere solo per vederlo, quando aveva progettato un'utopica fuga in Messico insieme a lui - una fuga che erano stati ad un passo dal realizzare - e in quello stesso luogo, in quello stesso primo giorno dopo un tempo senza di lui che gli era parso infinito, gli aveva detto la cosa più imbarazzante e più vera che gli avesse mai detto: "Sei sotto la mia pelle".

Mickey ricordava perfettamente quelle parole, ricordava il fremito che aveva percorso Ian nel momento in cui lo aveva sentito dirgli quelle parole, il lampo di paura che aveva attraversato i suoi occhi: quella stessa paura che aveva provato lui e che provava anche in quel momento, quella stessa paura di perdersi di nuovo e di non fare in tempo a ritrovarsi, quella paura costante e irrazionale che l'altro trovasse qualcun altro, trovasse di meglio, qualcosa di più facile e raggiungibile a cui darsi completamente.
Mickey sorrise tristemente. Lui non aveva mai voluto nient'altro, non aveva mai nemmeno pensato che avrebbe potuto o voluto avere qualcos'altro, qualcun altro: Ian era stato ogni cosa per lui, sempre, fin dal primo momento. Ian gli aveva insegnato a non avere paura, e senza paura lui aveva vissuto ogni giorno con Ian al suo fianco, e ogni giorno aveva imparato ad amare un po' di più Ian e un po' di più se stesso, andando lentissimamente incontro alla scoperta - per lui sconvolgente - di non essere poi così sbagliato, nonostante chiunque volesse fargli credere il contrario.

Mickey si avvicinò alla recinzione del campo ed in un paio di falcate la scavalcò, proprio come aveva fatto innumerevoli volte insieme a quel ragazzino che poi sarebbe diventato suo marito. Camminò lentamente al suo interno, e finalmente arrivò sotto le gradinate: il loro posto, quello di sempre.
Quand'era successo che tutto era cambiato? Quando aveva smesso di essere la persona con cui Ian aveva deciso di passare il resto della sua vita?
Forse non aveva fatto abbastanza, forse nulla era servito davvero, forse gli sforzi non erano stati sufficienti.

Lui ed Ian non si sopportavano più, sembravano tornati ai tempi in cui condividevano una cella di otto metri quadri, si irritavano costantemente per ogni minima cosa, e Mickey non sapeva più cosa farci.
Si odiava per il modo in cui era riuscito a diventare insopportabile per Ian, e al solo pensiero che poco prima era stato capace di innervosirsi per come girava le pagine di un dannatissimo libro si sentì stupidissimo. Ci aveva provato quel giorno, si era alzato la mattina con l'intenzione di parlargli una volta per tutte e chiedergli cosa lo rendesse infelice, ma poi... Gli aveva cucinato il suo piatto preferito seguendo alla lettera una stramaledetta videoricetta, voleva solo che si sentisse amato non una virgola in meno di quanto lui lo aveva sempre amato, ma poi...
Poi la paura aveva preso il sopravvento, l'idea che tutto ormai fosse irrimediabilmente cambiato si era impossessata di Mickey e lo aveva reso insopportabile, come sempre ormai negli ultimi mesi. Spaventato a morte e sempre all'erta.
Ian poteva vivere senza di lui, poteva cavarsela senza troppi problemi, ma per lui perdere Ian significava perdere tutto, tutto per davvero: perdere l'unico posto in cui si fosse davvero sentito al sicuro, a casa, perdere la prima e unica famiglia che lo avesse amato incondizionatamente, perdere l'amore che aveva rincorso per una vita intera mentre contemporaneamente cercava di autoconvincersi che non avesse bisogno di lui, proprio come non aveva bisogno di nessun altro; che, se non si era mai legato a nessuno, non doveva di certo farlo col primo ragazzetto dai capelli rossi che incontrava. In realtà, però, prima ancora che potesse accorgersene, Ian era diventato tutto, aveva occupato ogni angolo lasciato vuoto da altri sgomitando silenziosamente, facendosi spazio in un luogo che Mickey stesso credeva che dovesse rimanere vuoto.

Mickey fece un respiro profondo, si guardò attorno: c'era una mezza luna timida in cielo che provava a fargli compagnia, ma lui non avvertiva niente, percepiva tutto in maniera estremamente attutita, come se fosse lontano: lontano da tutto, lontano da niente; poteva succedere qualunque cosa o anche nessuna, ma lui avrebbe solo imperterritamente continuato a sentirsi come una cosa posata in un angolo e dimenticata.
Quel campo da football gli appariva così familiare, eppure allo stesso tempo gli sembrava appartenesse ad un'altra vita, un'altra esistenza in cui tutto era più incasinato ma anche infinitamente più semplice. In quella vita Ian e Mickey erano ancora due ragazzini innamorati che facevano a botte con lo sventurato di turno e poi fuggivano insieme per le vie di Chicago, senza fiato, e senza fiato alla fine della corsa si fermavano per scambiarsi un bacio frettoloso, condividendo con l'altro l'ultimo anelito di vita rimasto nei polmoni.

Forse era tutto lì, era lì la verità: si erano amati così tanto da consumarsi, e ora - dopo anni e anni - non era rimasto quasi niente, erano solo la cenere sbiadita del fuoco che avevano faticato ad accendere per tutta la vita.
Mickey camminò un po' a vuoto prima di decidersi a fermarsi in un punto e sedersi, senza però mai smettere di guardarsi affannosamente intorno, nella speranza di trovare un senso a quello che stava accadendo nelle loro vite. Era strano perché più guardava quel campo e più acquisiva coraggio, riusciva ad andare con la mente infinitamente indietro nel tempo e a ricordare ogni singolo momento che aveva trascorso con Ian, e assurdamente pian piano si rese conto che, quando tredici anni prima avevano deciso di sposarsi, non avevano minimamente la quiete e la stabilità necessarie per farlo, eppure lo avevano fatto lo stesso, perché si amavano ed era quella l'unica cosa di cui gli fosse mai importato; tutto il resto era un contorno a cui avrebbero badato successivamente.
Ecco, Mickey lo realizzò all'improvviso: negli ultimi tempi erano diventati bravissimi a badare al contorno, ma si erano progressivamente dimenticati della sostanza.

Tuttavia questo a Mickey non andava bene, come avrebbe potuto. I fronzoli erano una cosa a cui non aveva mai badato, e non poteva accettare che ora stessero cercando di portargli via l'amore della sua vita.
Non importava quanto potesse esserci intorno, non importava la vita che passava e scorreva rumorosamente, né quella silenziosa e quasi invisibile, non importava il buio che avrebbe potuto attraversare e nemmeno la luce: Ian sarebbe stato il suo primo pensiero, sempre, ad ogni costo, fin troppo vivido e forte ma mai abbastanza da essere fuori misura.

"Ti amo, cazzo" sussurrò Mickey fra sé e sé, scalciando via un po' di terra ai suoi piedi.

In un attimo l'immagine di Ian invase ogni suo pensiero: i capelli rossi che erano stati l'ossessione di anni e anni, gli occhi verdi, le lentiggini che gli costellavano il viso e che Mickey conosceva una per una - avrebbe potuto disegnarle ognuna al proprio posto, se glielo avessero chiesto -, le fossette che gli si formavano in maniera adorabile ai lati della bocca ogni volta in cui anche solo accennava un sorriso, gli occhi stretti in una risata e sempre così pieni di gioia, di vita.
Ian era suo marito. Ian aveva scelto lui, ancora e ancora, in una singola volta che era la scelta di una vita intera. Aveva scelto lui. Con tutti i guai e i problemi. Lo aveva scelto, ancora e ancora, sempre.

"In fondo" pensò Mickey "non devo fare altro che farmi scegliere ancora una volta."

Era ingiusto che dubitasse dell'amore di Ian, era stato ingiusto farlo anche solo per un secondo, e non avrebbe voluto farlo mai più.
Mickey scattò deciso su da terra, doveva assolutamente tornare a casa e parlargli una volta per tutte, voleva solo che Ian gli dicesse che cosa non andava, poi lui avrebbe fatto tutto il resto: si sarebbe rimboccato le maniche e avrebbe ritrovato la forza e i mezzi per ricominciare, come ogni volta in cui era stato necessario, senza mai però avvertire la fatica.

* * *

La porta di fronte ad Ian si aprì di scatto, e la luce proveniente dall'interno della casa lo inondò in un attimo.
"Guarda un po' chi si vede" lo accolse subito Lip, protendendosi verso di lui per abbracciarlo.
"Ciao fratello, come stai?" chiese Ian di rimando, ricambiando l'abbraccio.
"Non mi lamento. A proposito, io e Tami ti siamo davvero grati per essere venuto a prendere George. Non avrei mai pensato che tre figli potessero portare via così tanto tempo. Certo, i figli sono impegnativi e lo sai prima ancora di farli, ma non si ha la minima idea che si impossesseranno di ogni singolo momento della tua vita. Fortuna che li amo più di qualunque altra cosa... Ma questi due giorni da solo con mia moglie mi servivano, ci servivano. Quindi grazie, davvero."
"Smettila di ringraziarmi, idiota. Forza, fammi entrare" disse Ian varcando la soglia, poi continuò: "Dov'è il mio nipotino preferito?"
"Zio Ian!" una voce squillante raggiunse le orecchie di Ian giusto un secondo prima che riuscisse a scorgere un missile di sette anni con i ricci biondi che correva verso di lui.
Ian si abbassò sulle ginocchia e subito lo afferrò, stringendoselo stretto stretto per qualche secondo.
"Mi sembra che qualcuno qui sia felice di vedermi" disse ridacchiando, staccandosi da suo nipote.
"Zio Ian, che facciamo ora che andiamo via? E domani? Mi porti al parco? Ho migliorato tantissimo la mia tecnica di lancio, devo assolutamente farti vedere. E domenica che facciamo? Andiamo a vedere la partita?"
"Ehi calma, calma, scheggia" cercò di placarlo suo padre. "Non devi fare impazzire lo zio, ok? Devi fare il bravo, altrimenti-"
"Altrimenti la mamma verrà subito a riprenderti personalmente" concluse Tami, comparendo sulla soglia del soggiorno. "Ciao Ian" continuò poi, abbracciandolo. "Come stai?"
"Oh, benone, davvero benone." Ian si accorse di non essere stato troppo convincente, ma sperò che nessuno dei presenti ci avesse fatto caso.
"Torni ora da un funerale?" chiese Lip, sarcastico.
Colpito e affondato.
"No no, davvero, sto bene. E' solo ce ho discusso con Mick prima di venire qui. Ma davvero, è una sciocchezza."
"Ehi, ehi. Non voglio che tu debba avere anche la preoccupazione di George se hai già i tuoi problemi" provò a dire Lip, ma subito venne interrotto.
"Scherzi? Sono felicissimo di passare del tempo con questo mostriciattolo, è il migliore scacciapensieri del mondo."
"Sicuro?" chiese suo fratello, con un mezzo sorriso accennato e una strana luce negli occhi.
"Sicurissimo" rispose Ian, solenne. Poi, chinandosi di nuovo, aggiunse: "Allora Georgie, sei pronto? Dov'è la tua roba?"
"Eccola lì" disse il bambino, indicando orgogliosamente lo zainetto rosso che aveva preparato all'ingresso. "Sono più che pronto."
"Perfetto allora, direi che possiamo andare. Saluta mamma e papà, su."
Tami e Lip, chiamati in causa , si chinarono contemporaneamente a salutare il loro bambino più piccolo, era ancora troppo strano per loro vederlo fare delle cose 'da solo'.
"Ok tesoro, fai il bravo, va bene?" disse uno dei due.
"Non fare impazzire tuo zio" concluse l'altro.
"Ma cos'è che volete da me? Sono sempre bravissimo! Forza zio, andiamocene, questi due sono troppo appiccicosi."
Ian rise assistendo alla scena, poi raccolse da terra lo zaino di suo nipote, il quale, essendo finalmente riuscito a staccarsi dai suoi genitori, correva già come un fulmine verso la porta, urlando: "Ciao mamma, ciao papà, vi voglio bene! Ci vediamo fra due giorni!"
Ian rispolverò il sorriso di prima e disse: "Saranno due giorni divertenti."
"Più di quanto credi" dissero in coro Tami e Lip.
A quel punto Ian si avvicinò ad entrambi e li abbracciò.
"Grazie ancora fratello, ci vediamo domenica sera" fece Lip.
"A domenica! E mi raccomando..." fece una pausa, con aria ammiccante. "Divertitevi" concluse poi, e strizzando l'occhio ad entrambi si chiuse la porta alle spalle e raggiunse suo nipote.

"Allora marmocchio, sei pronto per questi due giorni?" chiese Ian, raggiungendo George vicino alla macchina.
"Prontissimo, zio! Che facciamo adesso? Andiamo subito a casa tua?"
Ian aprì lo sportello della macchina proprio mentre George gli poneva quella domanda, e, vedendo il sacchetto che aveva appoggiato sul sedile del passeggero, disse: "No, io avrei un'altra idea. Ti va di fare un pic-nic notturno?"
"Wow, dici davvero? Certo che mi va!"
"Perfetto allora, andiamo" disse subito Ian, con un po' più di leggerezza nel cuore. "Sai indicarmi un parco da queste parti?"
"Certo, ce n'è uno proprio qui vicino, ti indico io la strada. E' il parco dove mi porta sempre papà!"
Ian allora accese il motore e partì. Ascoltava le indicazioni di suo nipote quasi ad un livello inconscio della mente, e ad un livello inconscio governava il volante e cambiava le marce, mentre in realtà il livello primo dei suoi pensieri era occupato da un unico chiodo fisso: Mickey.
Dov'era? Cosa stava facendo? Era così strano che improvvisamente trovasse 'innaturale' scrivergli, chiamarlo, chiedergli semplicemente come stesse e assicurarsi che stesse bene; perché in fondo era quello che aveva fatto per tutta la vita, fino a quel momento, e che senza alcun dubbio avrebbe voluto continuare a fare per la restante parte: prendersi cura di lui, sempre, a qualunque costo.

"Ecco, siamo arrivati."
Questa informazione proveniente da suo nipote lo riportò con i piedi per terra, e d'un tratto Ian si ricordò dov'era e cosa stava facendo, per cui si girò verso George con un dolcissimo sorriso sulle labbra e disse solo "Andiamo".
Recuperò il sacchetto con la loro cena e dal bagagliaio della macchina pescò un telo che avrebbero usato per sedersi. Poi si incamminarono verso l'ingresso del parco, camminarono per qualche metro nell'erba e infine si sistemarono in una posizione strategica tra un albero che li faceva sentire favolisticamente protetti e un lampione che li illuminava delicatamente.
"Tieni" disse Ian, porgendo a George una forchetta ed il contenitore con la pasta. "Ti piace la pasta al forno, vero?"
"E a chi non piace" disse saggiamente il bambino agguantandola, e, dopo aver preso un boccone decisamente troppo grande, aggiunse: "Ma è buoniffima! Fi l'ha fatta?"
"Lo zio Mickey" rispose Ian, lasciandosi sfuggire un sorriso malinconico.
"Cavolo! Non sapevo fosse così bravo a cucinare!"
"Nemmeno io..." rispose flebilmente Ian, e di nuovo cadde in quell'abisso di pensieri grigi e sensi di colpa.

Il concetto di cucina per Mickey Milkovich assomigliava molto ad una pizza surgelata da riscaldare nel forno, Ian fino a poche ore prima avrebbe potuto giurarlo, eppure Mickey gli aveva cucinato il suo piatto preferito come se per lui fosse la cosa più normale del mondo. Non glielo aveva nemmeno detto, aveva pazientemente aspettato per più di un'ora che lui semplicemente si decidesse ad alzare il culo dalla poltrona e andasse in cucina per cenare con lui. Come sempre, come ogni giorno da tredici anni.
E lui? Lui che aveva fatto in cambio? Niente, era solo riuscito ad essere incredibilmente antipatico, fingendo di leggere un libro di cui non gli importava nulla, anteponendo un libro di cui non gli importava nulla a suo marito, il quale invece stava così disperatamente cercando di avere un contatto con lui.
Antipatico ed irriconoscente, questo era stato. Irriconoscente dell'immensa fortuna che aveva fra le mani, ingrato, ingrato dell'avere a fianco l'unica persona che aveva sempre immaginato ad occupare quel posto. E tutto perché?
Perché, perché, nemmeno lui sapeva davvero perché. Era solo attanagliato da mesi da una paura figlia della quotidianità ormai scontata, attanagliato dal terrore che quella vita sempre uguale a se stessa alla lunga non sarebbe più bastata, non sarebbe più stata abbastanza; così come lui, che da un momento all'altro rischiava di non essere più abbastanza, di non ricevere più abbastanza.
Ma lui cosa dava? Cosa dava ad una persona che aveva promesso di amare sconfinatamente per tutta la vita? Come lo amava, quanto lo amava?
No, non era abbastanza. Non era abbastanza viversi di fianco passivamente come se questo fosse già il massimo da dare e da ricevere, il massimo a cui aspirare. Non era abbastanza dormire nello stesso letto, mangiare attorno allo stesso tavolo se quelli erano solo spazi da abitare contemporaneamente e mai da condividere davvero.
Non era abbastanza promettersi di amarsi, rispettarsi e onorarsi se poi si dava sempre per scontata la presenza dell'altro.
Ad Ian venne quasi da ridere, pensandoci: mai avrebbe creduto che prima o poi sarebbe caduto nell'errore di dare per scontato Mickey Milkovich, la persona più straordinaria che avesse mai conosciuto, la persona che più aveva amato nella sua vita e a cui più volte aveva dovuto dire addio, la persona che più aveva tacitamente inseguito ed aspettato, senza quasi ammetterlo nemmeno a se stesso, la persona che con cui fin da ragazzino aveva sognato di costruire tutta una vita, un'esistenza tranquilla, fatta proprio di quei baci improvvisati e dolcissimi dati in mezzo al corridoio in un momento qualunque, quei baci che avevano il solo scopo di dire 'ehi, la mia giornata è un casino e ho una miriade di cose da fare, ma ti amo, e questo mi fa andare avanti'.

Amare Mickey gli aveva permesso di andare avanti per anni.
E poi? Cos'era successo? Come aveva potuto dimenticarlo? Come aveva fatto all'improvviso a credere che quello che riceveva fosse più importante di quello che dava?
Mickey non gli aveva mai fatto mancare niente, mai, mai un briciolo d'amore in meno rispetto al giorno prima, mai un'attenzione in meno, mai un gesto carino in meno.
Mickey era l'amore della sua vita da quella volta in cui avrebbe potuto dargli un pugno ed invece l'aveva baciato. Era l'amore della sua vita da quella volta in cui aveva scientemente deciso di fargli più bene di chiunque altro, piuttosto che male come chiunque altro.
Era l'amore della sua vita da allora, anche se allora non lo sapeva, ma da allora glielo aveva confermato, giorno dopo giorno, guaio dopo guaio.
I guai, con Mickey al suo fianco, non erano mai stati davvero tali, erano solo l'ennesima avventura da vivere insieme, l'ennesimo pretesto per innamorarsi ancora di più.
E adesso?
Ian sentì una lacrima fredda solcargli la guancia, e proprio mentre stava desiderando fortemente che George non se ne fosse accorto, lui gli disse: "Ehi zio, perché piangi?"
"Niente Georgie, non ti preoccupare, è solo che a volte vorrei che le cose non fossero così complicate..."
"In che senso complicate? Intendi tipo... Un problema di matematica?"
"Sì Georgie, diciamo di sì, tipo un problema di matematica."
"Beh, allora perché ti preoccupi? A me piace la matematica, e ho capito che ogni problema si può risolvere, anche quelli che sembrano impossibili. Basta trovare il modo giusto."
"Il modo giusto, eh?" chiese Ian, tristemente. "Quanto vorrei sapere qual è..."
"Dai, ti aiuto io! Forza, dimmi qual è il problema, e poi cercheremo insieme il modo di risolverlo."

Ian sorrise fra le lacrime che ormai erano completamente fuori dal suo controllo. Non pensava che oberare un bambino di sette anni con problemi relazionali da adulti fosse una buona idea, ma dall'altra parte George sembrava essere proprio un buon ascoltatore, e Ian non voleva che pensasse che non aveva fiducia in lui, quindi provò a fornirgli una versione attenuata della situazione, fallendo però miseramente.
"Sai, io e lo zio Mickey oggi abbiamo litigato..."
"Mh-mh, dimmi tutto" fece il piccolo, con sguardo estremamente attento e serio, con il mento appoggiato alle mani e i gomiti a loro volta appoggiati sulle gambe incrociate.
Di nuovo, Ian trattenne a stento un sorriso commosso.
"Non è che abbiamo proprio litigato, direi anzi che il problema è proprio che non abbiamo litigato e... Non lo so... E' come se non riuscissimo più a parlare. Io e Mickey in realtà non abbiamo mai avuto bisogno di così tante parole, però... Il fatto è che è successo tutto così in fretta... Un giorno siamo innamoratissimi ai piedi di un altare a prometterci amore eterno, e il giorno dopo sono passati tredici anni e non sappiamo più come facessimo ad amarci così bene. Avevamo un progetto, lo stesso progetto, e ora non mi ricordo nemmeno più che progetto fosse, chissà se lui se lo ricorda... Mi manca, sai? Mi manca anche quando è seduto a mezzo metro da me, mi manca quello che eravamo, mi manca avere un progetto insieme a lui. Poi ogni tanto lo intravedo, quasi fosse un vecchio amico che passa a salutarmi. Lo vedo che combina una delle sue solite cazzate e lo ritrovo, ritrovo quel ragazzino combina guai per cui avrei fatto di tutto. Ma anche ora farei di tutto per lui, sai? Mickey non è mai stato perfetto, ma era perfetto con me, per me. E lo è ancora. Lui c'è, forse sono io che non lo vedo più..."
Ian abbassò gli occhi sulla pasta al forno che aveva davanti, e per un attimo provò lo stupidissimo e infantile impulso di abbracciarla, quasi fosse una cosa 'fisica', solo perché veniva dalle mani di Mickey, quasi fosse una sua estensione, quasi fosse lui.
"E adesso non so cosa fare, capisci? Perché mi manca da morire, ma come fai a dire a una persona che ti cammina accanto che ti manca? Gli sembrerei pazzo. Vorrei solo sistemare tutto ma non so nemmeno da dove cominciare, potrei combinare un disastro dietro l'altro. E se poi va male? E se finiamo per lasciarci e divorziare?"
In un secondo gli occhi di Ian si riempirono di nuovo di lacrime. Disse solo "Non invecchieremo più insieme", poi scoppiò definitivamente a piangere, nascondendo il viso fra le mani.
A quel punto George si alzò e andò verso suo zio, si mise alle sue spalle e gli buttò le braccia al collo, appoggiando il mento sulla sua spalla destra.
"E' meno terribile di quanto pensassi, sai, zio?" gli sussurrò vicino all'orecchio. "Tu e lo zio Mickey siete già vecchi."

Ian scoppiò in una risata liberatoria che gli alleggerì il cuore, si torse un po' verso suo nipote e lo prese fra le sue braccia, stringendolo fortissimo per alcuni interminabili minuti.
"E un'altra cosa" riprese George, deciso. "Mi prometti che gli dirai che ti manca? Credo sia una cosa che dovrebbe sapere."
Ian lo guardò fisso negli occhi azzurri - così simili e al tempo stesso così diversi da quelli di Mickey, pensò - e disse solamente: "Te lo prometto."
George annuì soddisfatto. "Bene. E io posso dirgli che la sua pasta al forno è la più buona del mondo?"
"Certo, sono sicuro che lo zio Mick ne sarà molto felice" rispose lui sorridendo, poi riprese: "Ora ti va se andiamo a casa?"
"Ovvio, tuo marito ti sta aspettando!"
Ian sorrise di nuovo, quasi timidamente. Non sapeva se Mickey fosse davvero a casa ad aspettarlo, ma di certo sapeva che le cose potevano essere semplici, se solo lo avessero voluto. E lui lo voleva.

* * *

"Ehi... Sono io" disse flebile Mickey varcando la porta di casa.
Entrando notò però che tutte le luci erano spente. In un secondo fu preso dal panico. Salì a due a due i gradini, corse dritto verso la loro camera da letto: niente. Cercò inutilmente stanza stanza, ma di Ian non c'era traccia. Dov'era? Era andato... via? Al solo pensiero Mickey si sentì mancare la terra da sotto i piedi, e dopo qualche secondo di terrore scosse deciso la testa, come se bastasse ad allontanare davvero quel pensiero. Tornò di nuovo al piano di sotto, lanciò un'occhiata oltre la finestra all'ingresso: la loro macchina non c'era, Ian doveva essere per forza andato da qualche parte, doveva per forza essere andato lontano.
Mickey si allontanò dall'ingresso come se si fosse scottato, come se allontanandosi dalla porta da cui Ian se n'era andato potesse anche allontanarsi da quel distacco. No, no, mai. Non voleva pensarci. Non poteva. Tornò nel soggiorno e si lasciò sprofondare nel divano su cui trovava fino a poche ore prima. Non fece nemmeno in tempo a sedersi che subito vide sul tavolino il libro che Ian stava leggendo, ed istantaneamente ritrovò tutto quel tremendo senso di colpa, diretta conseguenza del suo essere stato così insopportabile con lui. Si alzò, troppo arrabbiato con se stesso per starsene lì senza far niente. Giunse in cucina e vide sul tavolo la teglia della pasta al forno che aveva preparato, ma senza una porzione: provò un moto di vergona indescrivibile. Pensò che molto probabilmente era la pasta peggiore che Ian avesse mai mangiato, e si sentì infinitamente stupido per aver creduto che cucinare quella roba avrebbe potuto in qualche modo aiutarlo a risolvere le cose con suo marito.
Coprì la teglia con un foglio d'alluminio e la ripose in frigo, giusto perché guardarla lo innervosiva. Poi si mise a lavare i piatti che aveva lasciato sporchi dopo aver cucinato, ed inizialmente fu felice di avere qualcosa con cui tenersi impegnato, ma rimase tremendamente deluso quando una decina di minuti dopo si accorse di aver già lavato tutto.
Vagò per un po' tra soggiorno e cucina come un animale in trappola, avanti e indietro, avanti e indietro, sempre sullo stesso percorso; il tempo passava e passava, ma di Ian non si vedeva nemmeno l'ombra.
"Fanculo, me ne vado a letto" disse ad un certo punto, cercando di convincersi a rassegnarsi, dirigendosi verso le scale. Arrivò in camera e si buttò sul letto ancora vestito; non voleva vedere la metà che ne rimaneva vuota, per cui si posizionò con il viso rivolto al muro, stringendo tanto serratamente gli occhi da farli lacrimare, come se davvero in quella posizione assurda potesse prendere sonno. Restò così per una buona mezz'ora prima di decidersi a prendere il telefono e a chiamare Ian: staccato.
"Fanculo, Gallagher" disse fra sé e sé, ma quasi inconsciamente sperando che quel messaggio giungesse a suo marito senza passare per vie traverse. Poi, sfinito, gettò la faccia nel cuscino e solo a quel punto, finalmente, pianse.
Pianse per la paura di perdere tutto quello per cui aveva sempre lottato e che aveva così faticosamente costruito, pianse per la paura di perdere Ian, il suo Ian, l'unica persona che fosse riuscita ad amare e ad amarlo, in tutta la vita. Pianse perché aveva paura di perdere tutto, banalmente, e aveva davvero troppo da perdere. Pianse per un tempo indefinito e interminabile, poi finalmente si addormentò, esausto.

* * *

A Ian quel viaggio di ritorno sembrava infinito. Ogni tanto allungava una mano per lasciare una carezza tra i ricci di George che dormiva placido accanto a lui, sprofondato nel sedile del passeggero, ed ogni volta si scopriva un po' più invidioso di tutta quella incontaminata tranquillità.
Aveva fretta, Ian, aveva fretta di tornare da suo marito e dirgli tutto quello che gli taceva da troppo tempo, aveva fretta di stringerlo, dirgli che lo amava, dirgli che sarebbe stato al suo fianco sempre, qualunque cosa dovesse accadere, dirgli che voleva amarlo come aveva promesso di fare quel giorno di tredici anni prima, e poi baciarlo, baciarlo e baciarlo ancora, perché tutto per loro passava per i baci, e attraverso i baci fluivano anche tutte le parole che non riuscivano a dirsi.

Dopo due interminabili ore, finalmente, Ian parcheggiò di fronte casa sua, casa loro.
Prese George in braccio e silenziosamente varcò la porta di casa. Tutto taceva, e Ian pregò che Mickey fosse tornato e stesse dormendo, pregò con tutte le sue forze. Salì le scale tentando di fare meno rumore possibile, portò Georgie nella camera degli ospiti e gli infilò il pigiama, mentre lui continuava ostinatamente a dormire; poi però, mentre Ian stava cercando di fargli passare un braccio attraverso la manica, aprì un occhietto e disse: "Zio Ian, ricordati quello che ci siamo detti, ok?"
Ian gli sorrise di rimando: "Me lo ricordo, te lo prometto. Ora però dormi, ok?"
Poi si chinò a lasciargli un bacio tra i capelli e sussurrò: "Buonanotte, piccolo."
Si chiuse la porta alle spalle e si diresse nel punto preciso della casa in cui i suoi pensieri si trovavano già da un po'. Si fermò sulla soglia della sua camera da letto e sorrise, con gli occhi che gli si facevano lucidi: Mickey dormiva in quel modo da bambino in cui dormiva sempre, con le mani aggrappate al cuscino e le ginocchia tirate su fino al petto. Ian si avvicinò lentamente al letto, si sfilò le scarpe silenziosamente e poi si stese di fianco a Mickey, faccia a faccia con lui: con la mano destra avvicinò la sua fronte alle proprie labbra e lì depositò un piccolissimo bacio solitario. Mickey aprì gli occhi lentamente, quasi avesse paura che si trattasse di un sogno che si sarebbe disfatto da un momento all'altro, e lentamente la confusione abbandonò i suoi occhi. Ad un centimetro dalle sue labbra Ian gli sussurrò: "Scusa, ho fatto tardi."
Mickey fece appena in tempo a capire cosa stava succedendo e subito si lanciò su quello che era suo marito, il suo migliore amico, il compagno di una vita intera: lo afferrò e se lo strinse fortissimo al petto, mentre un'infinita sensazione di sollievo si impossessava di lui.
"Dov'eri finito? Ero preoccupatissimo."
"Ma da nessuna parte, sono solo andato a Milwaukee a prendere Georgie. Ricordi che Lip doveva portarlo qui domattina? Beh, l'ho chiamato e mi sono offerto di andare a prenderlo io oggi, avevo bisogno di tenermi occupato..."
"Ian, Ian, non sai quanto mi dispiace" subito Mickey andò nel panico, alternando occhiate preoccupatissime ad abbracci, era come se avesse paura che Ian potesse sparire davanti ai suoi occhi. "Io... Sono stato uno stronzo, e ancora di più sono stato insopportabile, sono insopportabile da mesi e mi dispiace tanto, io-"
"Shhh" lo interruppe Ian, afferrandogli le mani e lasciandogli un bacio a fior di labbra. "Ora parlo io, ok? Ho due cose molto importanti da dirti."
Mickey annuì con sguardo colpevole, quindi Ian continuò: "Per prima cosa devo dirti, da parte di Georgie, che la tua pasta al forno è la più buona del mondo."
"Oh cazzo, l'avete mangiata?"
"Perché, era avvelenata?" chiese Ian, discretamente allarmato. Non aveva dubbi sul fatto che suo marito fosse capace di avvelenare un pasto qualunque, sperava solo che non lo avesse fatto con uno che aveva preparato apposta per lui.
"Ma no, scemo. E' solo che... mi sono sentito così stupido. Non so come ho potuto pensare che una pasta potesse risolvere tutto, però... Poi comunque sai bene che la cucina non è per niente il mio forte, e sarà stata immangiabile e-"
"E stai dicendo un mare di sciocchezze" lo interruppe di nuovo Ian. "E' vero, una pasta non risolve tutto, ma posso assicurarti che ridimensiona molto. Sono stato io a sentirmi infinitamente stupido quando ho aperto il forno e ho realizzato che l'avevi preparata apposta per me. Tu avevi impiegato tempo ed energie per fare qualcosa di carino per me, e io li ho impiegati solo per essere insopportabile con te fino all'inverosimile. Non lo so cosa mi sia preso negli ultimi mesi, te lo giuro, è come se avessi battuto la testa e mi fossi dimenticato che sono l'uomo più fortunato del mondo. Mi guardavo intorno e vedevo tutto uguale a sempre, e pensavo che quello fosse il problema, e invece è la soluzione."
"Ian, ascolta tu me adesso, ok? So che qualcosa ti rende infelice, lo so. Vorrei solo che mi dicessi cos'è perché ti giuro che farò qualunque cosa per farla sparire, per cambiarla, qualunque cosa. Io voglio solo che tu sia felice, e al diavolo tutto, so che non dovrei essere così sentimentale, ma forse è anche questo il problema, forse sono io, forse è anche colpa mia che ti dimostro sempre troppo poco."
"Ma ti senti?" Lo bloccò Ian a quel punto. "Mi dimostri troppo poco? Mai, mai e dico mai mi hai dimostrato troppo poco. Mai. Mi hai detto poco, forse, questo è vero. Ma ho sempre saputo che non sei un amante delle parole, e mi andava bene, benissimo, perché altrimenti non saresti stato tu, e forse non ti avrei amato così tanto. Mi hai dimostrato sempre infinitamente di più di quello che qualche stupida parola potesse dire. Sei straordinario, e non hai idea della fortuna che ho ad averti accanto. Come potrei essere infelice se sono sposato con te? Non mi sono mai pentito della scelta che ho fatto tredici anni fa, mai, neanche per un attimo. Forse ho temuto di averti incastrato in un casino che non meritavi, questo sì, l'ho pensato. Ma io quella scelta voglio farla ogni giorno per il resto della mia vita. Sei la cosa migliore che mi sia mai capitata, Mickey, e ti chiedo scusa se ti ho dato per scontato. Ho trascorso le due ore di macchina da Milwaukee a qui pensando solo che volevo venire qui a dirti questo, a chiederti scusa, e a ripeterti che sono e sarò sempre l'uomo più fortunato del mondo. Tu mi hai salvato, lo sai questo? Sei la mia pace dopo una vita intera di guerre."
Mickey non si trattenne più, si lanciò sulle labbra di Ian e lo baciò come forse non lo baciava da troppo tempo. Poi, a fatica, si staccò: "Ci vieni in un posto con me?"
"Vengo ovunque con te, Mickey Milkovich."
Mickey lo tirò di nuovo a sé, e per un attimo pensò che gli sarebbe piaciuto spogliarlo e farci l'amore, sarebbe stato davvero molto bello, ma voleva prima fare un'altra cosa.
"Scrivo a Debbie" disse, staccandosi dolorosamente.
"Ah, ti senti con mia sorella adesso?" chiese Ian, prendendolo in giro.
"Ma quanto sei cretino. Le chiedo se può venire a controllarci Georgie finché siamo fuori, non vorrei si svegliasse e non trovasse nessuno."
Ian lo guardò per qualche secondo in silenzio con gli occhi che gli brillavano, poi disse: "Cavolo, saresti un genitore migliore di me."
"Mmm, vediamo" fece Mickey. "Dov'è Georgie adesso?"
"A letto, nella stanza degli ospiti."
"E lo hai aiutato a mettere il pigiama?"
"Certo, stava dormendo quando siamo arrivati."
"E gli ha rimboccato le coperte?"
"Ovvio, che domande."
"No, mi spiace. Saresti senz'altro tu il genitore migliore fra noi due."
Ian rispose tacitamente facendogli il verso, Mickey lo ignorò ridendo.

- Debs, sei sveglia? C'è Georgie da noi, non è che potresti venire qui per un po' a tenerlo d'occhio? Vorrei portare Ian in un posto.
- Arrivo subito. Risolvete i vostri problemi, teste di cazzo.

Debbie arrivò davvero nel giro di pochi minuti, e altrettanto in fretta Mickey e Ian si erano messi in macchina, col più grande alla guida e l'altro che lo aveva guardato sognante per tutto il tragitto, come se lo vedesse per la prima volta dopo mesi.
"Eccoci" disse Mickey, spegnendo il motore.
"Il nostro posto?" chiese Ian con gli occhi pieni di meraviglia, dopo essersi guardato velocemente attorno.
"Il nostro posto" rispose Mickey, solenne. "Andiamo."

Scesero dalla macchia, scavalcarono l'inferriata dallo stesso punto strategico da cui l'avevano scavalcata decine di volte, poi si diressero sotto le gradinate. Una volta arrivati lì Mickey si sedette per terra, e Ian lo imitò, sedendosi di fianco a lui.
"Dopo essere uscito di casa ho camminato per un sacco di tempo a vuoto, e poi mi sono improvvisamente ritrovato qui, senza sapere come."
Ian lo guardava senza avere il coraggio di dire niente, così Mickey continuò: "Questo posto mi ha fatto pensare tanto, mi ha fatto pensare a quelli che eravamo, a te ragazzino pieno di lentiggini che scappavi da me che ti inseguivo, a tutte le volte in cui invece siamo scappati insieme da qualcun altro, alla prima volta che abbiamo fatto l'amore e a tutte quelle successive, alla cella che abbiamo condiviso in carcere, a tutto, ad ogni singolo momento che ho passato al tuo fianco, e ho capito una cosa: sempre, sempre e sempre sono stato sicuro di te e mai, nemmeno per un momento, ho dubitato del fatto che fossi tu l'unica persona che avrei voluto al mio fianco per tutta la vita. Non lo avrei mai ammesso se me lo avessi chiesto allora, ma lo sapevo. Eccome. Quando dici che mi hai dato per scontato non sai quello che dici, credimi. Nessuno mai mi ha amato tanto quanto mi ami tu, e nessuno mai mi ha dato la misura di così tanto amore. E se anche fosse... Non ti amo perché tu mi ami a tua volta, Ian. Ti amo perché sei tu, perché sei sempre stato tu. Ti amo perché tutto quello che so l'ho imparato da te, e tu me lo hai insegnato senza nemmeno accorgertene, facendoti piccolissimo fra le mie mani, quando invece eri già infinitamente più grande di me: più saggio, più coraggioso, più pronto ad affrontare la vita. Sei sotto la mia pelle, Ian Gallagher. Sei dentro di me. E se anche non mi amassi io ti amerei lo stesso, sempre, ostinatamente, perché sei tu, e perché sei l'unica persona che potrei e vorrei mai amare in questa vita."

Ian piangeva in maniera talmente tanto silenziosa che Mickey non se n'era ancora accorto, poiché aveva parlato guardando dritto di fronte a sé, e tra le lacrime disse le sole cinque parole che si sentiva di dire: "Mi sei mancato da morire."
Solo a quel punto Mickey si voltò, scoprendolo sommerso dal pianto. A quella vista si girò totalmente verso di lui e quasi se lo tirò in grembo - benché Ian fosse enormemente più alto di lui - tenendo stretto fra le braccia quello che in quel momento gli sembrava il suo corpicino minuscolo, lasciandogli infinite carezze e piccolissimi baci su ogni centimetro del viso, a intermittenza, come se conoscesse una formula precisa per alleviare il dolore che stava seguendo pedissequamente.
"Mi dispiace di essere stato via così tanto" disse, infine.
"Dispiace a me di averti fatto scappare" rispose Ian. "E di non essere riuscito a riprenderti in tempo. Spero che stanotte non sia tardi."
"Non è tardi stanotte. Non sarà mai tardi, per me."
Si baciarono di nuovo, con una dolcezza inusitata e insperata. Si sentivano due quindicenni che si nutrivano di baci, irrazionalmente innamorati, con la netta e presuntuosa convinzione nel petto di essere le persone più fortunate del mondo.

"Ehi" intervenne ad un certo punto Mickey "ma non avevi detto che erano due le cose che dovevi dirmi?"
"Oh, già!" si riscosse Ian. "Dovevo dirti anche che siamo vecchi."
Mickey rise: "Che c'è, Gallagher? Ti preoccupi per la tua pelle di pesca? Guarda che sarai il più bello fra noi due anche ad ottant'anni."
"Ma finiscila, idiota!" gli rispose Ian, dandogli un colpetto sul ginocchio. "Prima parlavo con Georgie, e mi ha fatto notare che siamo vecchi."
Mickey continuava a guardarlo interrogativo, con un'aria a metà fra lo smarrito e il divertito che tuttavia non gli impediva affatto di continuare a stringerlo fra le sue braccia come se fosse la cosa più fragile e preziosa del mondo. E lo era.
Ian, dal canto suo, non si arrese: "Non capisci? Siamo già vecchi. Stiamo invecchiando insieme, Mickey. Era il nostro progetto, ricordi?"
Mickey restò in silenzio per qualche istante, poi, guardando suo marito con aria sognante, disse: "Non l'ho mai dimenticato, Ian Gallagher. Sei sempre stato il progetto dei progetti, per me."
Ian arrossì visibilmente, si sentiva davvero come se fosse tornato il ragazzino degli inizi, ed ogni esternazione di Mickey nei suoi confronti lo faceva sentire la persona più amata del mondo.
Poi prese coraggio e, dal basso, in quella strana posizione in cui si trovava, disse: "Ti amo, Mickey Milkovich. Più di qualunque altra cosa."

"Perché ho aspettato tanto,
perché ho vissuto sempre
tra speranza e incertezza
per poi tornare da te."

Note:

Era impossibile che resistessi al richiamo dei Gallavich, e tant'è.
Ad ogni modo, grazie per essere arrivati qui in fondo alla pagina, lo apprezzo molto.
Ne approfitto per fare quattro piccole puntualizzazioni al volo che ritengo dovute:
1. Sì, sono una persona semplice e al fianco di un Fred ovviamente ho "creato" un fratello di nome George, è nato così nella mia testa in maniera molto spontanea e poi l'ho mantenuto perché comunque trovavo che fosse una cosa carina.
2. No, i Gallavich dopo tredici anni non hanno ancora un figlio, ma volevo proprio che si "bastassero" per un po', anche se chiaramente - data anche la loro piccola discussione su chi sarebbe il genitore migliore fra i due - è ovvio che in passato ci abbiano pensato e che ci ripenseranno anche in futuro.
3. Per chi l'ha visto: sì, la storia è stata chiaramente ispirata dal film "La Dea Fortuna" (che è bellissimo e che consiglio vivamente a chi non l'ha ancora visto).
4. No, quando l'ho scritta non sapevo ancora che Tami e Lip alla fine non si sarebbero trasferiti a Milwaukee. Avrei potuto modificarla è far sì che fosse interamente ambientata a Chicago, ma ho pensato che avrebbe perso di senso e ho preferito lasciarla così, scusatemi.

Per concludere:
Grazie a Costy per essere stata una correttrice di bozze d'eccezione, per aver avuto il coraggio di fare la lettura in anteprima e per avermi sopportata anche alle 6.00 del mattino (chissà come fa); e grazie ad Anto e a Lu, compagne di serie tv senza le quali questa piccola storia non esisterebbe: l'ho inconsapevolmente plottata assieme a loro e se il risultato è tutto sommato soddisfacente è anche (e forse soprattutto) merito loro.

Alla prossima,
Dalila

  
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