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Autore: KaienPhantomhive    29/10/2021    0 recensioni
[Aggiornamenti Settimanali | -1 Capitolo alla fine | Seguito de: "EXARION - Parte I"]
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La battaglia di Varsavia ha mostrato al mondo la forza del Quarto Reich Lunare. Ma la sete di potere non conosce limiti, da parte di nessuno. Nuove Divinità Metalliche attendono di essere risvegliate, e nuovi Contratti aspettano le loro anime come pegno. Fino a che punto può spingersi il desiderio di distruzione reciproca degli uomini? Ha senso ostinarsi a concludere una guerra, se è destinata a ripetersi per sempre?
Genere: Azione, Drammatico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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23

Quello che gli uomini sanno fare meglio

 

Giorno seguente.

San Francisco; California; Austramerica.

 

“A tutti i cittadini, questa non è un’esercitazione. Il Governo ha dichiarato DEFCON 1: procedere all’evacuazione immediata della città, mantenendo la calma. Le forze dell’ordine e l’esercito vi indirizzeranno verso i rifugi più vicini. Ripetiamo: questa non è un’esercitazione.”

Nelle ultime ore immediatamente antecedenti la venuta dell’Arma Finale, la città costiera di San Francisco fu svegliata dal richiamo che dai droni di sorveglianza si diffondeva in ogni quartiere. Come formiche stanate nel loro nido, gli abitanti abbandonarono le loro abitazioni, gli uffici, i bar, le metropolitane affollate, per riversarsi nelle strade presidiate da militari armati e agenti di Polizia in tenuta antisommossa. Nella sua perfetta efficienza, la grande macchina della guerra si mise in moto al volere del Capitano Andrea McCoy.

 

“Questo è il piano.” – aveva spiegato il giorno precedente alla platea di piloti, soldati e rappresentati politici di mezzo mondo radunatisi sulla base oceanica – “In base alla traiettoria del nemico, il punto più diretto in linea d’aria da cui preparare la contro-offensiva è la città di San Francisco.”

 

Grandi navi militari provenienti da Eurasia e Austramerica solcarono le acque scure del Pacifico, sotto un cielo plumbeo e opprimente. Squadre di cinque caccia aerei in formazione a V sfrecciarono a pelo d’acqua, costeggiando e superando la flotta, in direzione della Bay Area.

Code infinite di automobili incolonnate sulle sopraelevate e sul Golden Gate strombazzavano dai clacson, lanciandosi segnali con i lampeggianti, mentre gente si arrampicava sugli sportelli nel tentativo di incitare quelli davanti a proseguire, inutilmente; qualcuno perfino si sporse per gridare “Guardate là!”, alla vista dell’Eleanor Rigby che passava sotto il ponte, sfiorandolo con la torre di controllo.

Un elicottero sorvolò i grattacieli del quartiere finanziario, pronto a discendere verso la control room prefabbricata nel Golden Gate Park, insieme al resto dell’accampamento allestito.

 

“Le forze di mare e di terra ci copriranno le spalle qualora la battaglia si spostasse sul pianeta, ma il nemico arriverà dall’orbita.”

 

Decine di carri armati e blindati avanzavano, in fila per due, lungo le strade del centro e della Steep Hill, seguite da enormi camion a nove ruote equipaggiati con gru e piattaforme pieghevoli.

Nella zona portuale, l’Eleanor Rigby e quattro navi di classe Defender della Marina Inglese viravano fino a dare la poppa alla costa. Droni delle dimensioni di furgoni e hovercraft a motore collegarono gruppi elettrogeni giganti sui ponti delle navi al motore dell’Ammiraglia.

In cielo, sopra i tetti dei grattacieli, una scorta di dieci jet e un bombardiere accompagnavano tre Dollhouse, contrassegnati dalle bandiere di Nord America, Russia e Inghilterra: il settimo battaglione aviotrasportato delle Nazioni Unite, Divisione Mezzi Speciali.

A terra, operatori dai giubbotti catarifrangenti indicavano con ampi gesti delle bacchette luminose le manovre da eseguire agli autocarri speciali della Space X, facendoli disporre lungo la linea immaginaria che da Huntington Park passava per la Union Square fino a Yerba Buena Gardens. A blocchi di quattro, si disposero al centro delle piazze e unirono insieme i pannelli superiori per creare piattaforme di lancio. I Dollhouse si aprirono e le tre armi umanoidi, trattenute per le spalle, furono portate in corrispondenza delle piattaforme. Quando un comando univoco autorizzò i piloti dei velivoli a sganciarle, una dopo l’altra, il terreno tremò sotto il loro peso e i vetri di auto e negozi s’incrinarono.

 

“Dovremmo combattere nello Spazio?” – aveva chiesto Aaron, titubante – “E come ci arriviamo?”

“Chiederemo a NASA e Space X di improvvisare qualcosa.” – era stata la risposta Rajesh Khurana.

“Le vostre Unità sono troppo preziose per schierarle in prima linea. Scenderete in campo solo nel caso ogni altra offensiva risultasse inefficace.”

“Saremo soli?”

“Avrete anche il supporto di Vasyljev.” – aveva detto la Asimov e, conoscendo la vena polemica di Nataša quando lo si tirava in mezzo, si era anche affrettata a spiegare – “Il suo aereo è l’unico con un trattamento termico adatto a operare nello Spazio.”

“E non potete affidarlo a qualcun altro? È troppo pericoloso!”

“Non c’è problema.” – era stata la categorica sentenza di Miša, con un ardore negli occhi che Nat riconobbe non essergli mai bruciato prima tanto intensamente – “Sono io che lo voglio.”

 

Voci nelle ricetrasmittenti avvisarono che “Il secondo e terzo convoglio sono qui.”, mentre i binari della nuova stazione ferroviaria si allineavano per l’arrivo di treni merci con a bordo componenti di volo e propulsori a cilindro mutuati da qualche navetta spaziale.

Dall’altra parte della città, sezioni di una rampa di lancio direzionabile venivano trasportate lungo la pista di decollo dell’aeroporto internazionale affacciato sul Pacifico; morsetti automatici serrarono insieme i tratti di rampa e il Raròg della Russia venne posizionato su una catapulta all’inizio del percorso. Ampie estensioni per le ali, due code direzionali protesiche e motori ausiliari erano stati agganciati alla fusoliera, a guisa di imbracatura, raddoppiandone la lunghezza totale.

Ancora all’opera nei pressi del centro urbano, bombardieri, elicotteri e gru si innalzavano in una danza di tiranti e snodi a iniezione, issando ponti mobili all’altezza degli abitacoli delle Unità e installandovi sulle schiene gruppi di tre motori propellenti allacciati insieme da fasce in acciaio. Due set di razzi extra vennero apposti alla cintola ad Irradiance, connessi da cavi e fusibili a un compartimento nella bassa schiena. Ingegneri aviospaziali annunciarono che i Solid Rocket Booster erano allineati e che i reattori a post-nucleotoni risultavano stabili e pronti alla fissione: due cilindri metallici a terra, collegati da grandi tubature all’equipaggiamento e al torace di Irradiance entrarono in funzione, lanciando bagliori azzurrognoli.

 

Infine, duecento chilometri più in alto della superficie terrestre, un mastodontico complesso bianco si portò in corrispondenza della traiettoria prevista dal Nidhoggr: la Nuova Stazione Spaziale Internazionale, irta di pannelli solari, moduli di espansione e ponti circolari per il controllo artificiale della gravità. A farle da schermaglia, orbitava una ventina di satelliti anti-meteorite ad alta manovrabilità inaugurati dalla Space X nel decennio precedente.

 

Alle 22:15, la città di San Francisco era stata convertita in un proscenio allestito con armi e veicoli militari.

“Conferma dell’evacuazione della città. Passare alla Fase 2.”

 

*   *   *

 

Ponte di Comando dell’Eleanor Rigby.

 

Il planisfero virtuale 3D galleggiava puntellato da decine di puntini rossi. Una sfera separata – la Luna – lo affiancava, congiunta da una linea pulsante su cui scivolava lentamente un puntatore triangolare. Dai megaschermi frontali e laterali provenivano gli sguardi tesi e severi dei pezzi da 90 dello scacchiere internazionale. L’interezza degli Stati Federati d’Austramerica nella loro personificazione del Triumvirato; Emirati, Sud Africa, Pakistan e Israele dalle Nazioni Arabiche Unite; e poi Regno Unito, Francia, Russia, Cina, Corea del Sud ed India dal Blocco Eurasiatico. Anche lo Stato Indipendente del Vaticano presenziava per tramite del suo camerlengo. La trepidazione e l’ansia faticavano ad essere contenute dai sotto-Ufficiali microfonati all’opera sui computer di bordo.

“Preparativi completati. Sistemi di difesa anti-meteorite schierati.”

“Centri di Comando Militare alleati presenti all’appello. Siamo connessi con l’ISS.”

In un quadro separato del mosaico di facce, comparve anche quello di Annette Martin, in rappresentanza del suo equipaggio: “Qui Stazione Spaziale Internazionale, vi riceviamo!”

Le telecamere satellitari dell’ISS trasmisero l’immagine della spettrale massa nera del Nidhoggr, ancora lontana ma distinguibile, contro la faccia bianca della Luna.

“La distanza attuale del nemico?” – chiese Andrea McCoy, affiancata da Khurana e Asimov a cui aveva concesso l’onore e onere di presidiare a bordo della nave.

“Ancora diecimila chilometri.”

“Proprio sul filo del rasoio.

Passò in rassegna rapidamente i volti dei presidenti connessi e – più per forma che per reale necessità – chiese ai suoi sottoposti: “Che mi dite dei Paesi assenti?”

“Giappone, Germania, Italia e gli altri Paesi arabici si sono chiamati fuori.”

Studiò ancora il planisfero e quella spolverata di puntini rossi che riportavano ‘EOBM – ARMED’.

“A che punto siamo con il piano di lancio?”

“I Presidenti e i Generali sono nelle panic room e hanno ricevuto i codici di lancio. Missili Balistici Extra-Orbitali armati.”

Ekaterina incrociò le braccia sul petto, parlando tra sé: “Un’utilizzo delle armi nucleari bandito dal Patto di Disarmo del 2033. Davvero una scelta intrisa dell’ipocrisia di tutte le Nazioni.”

“Siamo davvero sicuri di quello che stiamo facendo?” – chiese Rajesh – “Questa cosa avrà delle conseguenze.”

Andrea spostò lo sguardo altrove, combattendo dentro di sè l’essere invisibile che cercava ostinatamente di lasciare socchiusa la porta dei suoi dubbi: “I politici si servono di noi per non sporcarsi le mani di sangue con la guerra, ma a nostra volta usiamo la politica per lavarci via la coscienza. Ormai dovremmo averlo ammesso a noi stessi, no?”

La sua porta interiore venne richiusa appena in tempo per dare le istruzioni finali ai presenti: “Qui Capitano McCoy. Alle ore 22.25 ha inizio l’Operazione Titanomakhia. Con la vostra autorizzazione, procediamo a sincronizzare i lanci delle testate.”

Un “Permesso accordato.” generale provenne dagli uomini e dalle donne connesse in diretta e a quel punto Andrea McCoy capì che la vetta della sua carriera professionale sarebbe consistita nel dichiarare il Giorno del Giudizio.

“Presidenti della Prima Ondata, inserite le chiavi, per favore.”

Lo stato degli EOBM degli alleati arabici, del Regno Unito, della Francia e del Vaticano passò da ‘ARMED’ a ‘DEPLOYED’.

Stava accadendo. Anche se non potevano assistere con i loro occhi alla partenza dei missili, chiunque in quella sala sapeva che il più grave atto militare degli ultimi trent’anni era stato appena compiuto. Con una goccia di sudore a imperlarle la fronte, Andrea ordinò ancora: “Presidenti della Seconda Ondata, ora è il vostro turno. Inserite le chiavi, adesso!”

Un segnale acustico decretò la risposta di Russia, Cina, Corea del Sud e delle decine di altri avamposti sparsi per il territorio austramericano.

 

In tutto il mondo, armi di distruzione di massa vennero rilasciate al ritmo di pulsanti premuti e cerniere aperte. Combinazioni parziali di numeri e interruttori vennero sbloccate all’unisono dal Presidente della Russia, nel suo bunker domestico, e dal suo Ministro alla Difesa, seduto nel suo ufficio e accerchiato da un entourage mai stato così attento. Codici a diciassette cifre furono composti su computer custoditi in valigette nere da ciascuno dei presidenti d’Austramerica, a bordo dell’Air Force One in volo. Ora, missili Eureka emergevano dalle strutture di contenimento sotterranee nel deserto del Colorado, in Florida, in Carolina e in Canada, di concerto con sottomarini a largo dell’Atlantico, con i loro boccaporti superiori spalancati. Altri sfilavano lungo le strade di Mosca, come ombre verdi su cingolati; gli uomini si nascondevano dentro le abitazioni e le madri coprivano gli occhi ai figli, mentre sistemi elevatori addrizzavano i missili in verticale, trasformando la Piazza Rossa in una base di lancio. Una chiave dorata passò di mano dal camerlengo vaticanense a Sua Santità il Papa Urbano XIX, che con mano malferma la inserì in una plancia nascosta nel doppio fondo della sua scrivania a Castel Sant’Angelo: la pavimentazione di Piazza San Pietro, il cuore cristiano di Roma, si divise e ritirò sotto terra e le automobili sul ciglio della piazza precipitarono nel silo sotterraneo, da cui si innalzava un singolo razzo bianco marchiato da tre chiavi nere incrociate. Invocazioni di suore e fedeli in lacrime si levarono nel frastuono dei motori e la terra – non importa se coperta d’asfalto, steppa o rossa polvere desertica – bruciò sotto le vampe dei propulsori.

Ottantaquattro testate nucleari decollarono come emissari di sventura e i cieli di tutto il globo, nel nero della notte o nel Sole abbagliante, furono segnati dai graffi di fumo.

Quelle immagini sarebbero state riproposte infinite volte in mondovisione, davanti alle quali milioni di persone non avrebbero potuto far altro che rassegnarsi al volere compiuto da altri e pregare per la loro sorte.

 

Sul ponte dell’Ammiraglia inglese, l’Estimated Time of Arrival delle due ondate di EOBM iniziò a scorrere all’indietro e, da quel momento fino ai successivi 103 minuti e 51 secondi, premere il tasto ‘reset’ della Storia non sarebbe stato più possibile.

 

*   *   *

 

Mentre saliva le scalette di accesso al tetto dell’edificio su cui si trovava, Nataša finì di scorrere con il pollice l’interminabile lista di messaggi che da tutto il pomeriggio le intasavano la chat di gruppo con Irma, Anya e gli altri compagni di università.

 

> @Nat stai vedendo le notizie? Danno la diretta stasera!

> Voi la seguite, vero???

> Tuo padre che dice di questa storia???

> Ragazze io ho paura…

> @Nat rispondiii

 

Lo smartsquare le iniziò a vibrare in mano – il nome di Irma comparve sullo schermo – ma preferì mutarlo. Trovò la porticina di ferro del tetto già aperta e la ragione le fu subito chiara.

“Sembra proprio che mi sia scelta un posticino affollato!” – era Amber McCoy, che aveva già imparato a riconoscere dal tono di voce perennemente sopra le righe.

Evidentemente, l’idea di arrivare sul tetto di quell’hotel per trascorrere con i propri pensieri quelli che avrebbero potuto essere i suoi ultimi minuti di vita, era venuta in mente anche a qualcun altro. La pilota militare dai capelli tinti di rosso – nella sua synchro skin di polimeri elastici – si era appoggiata al parapetto del palazzo, con un panino integrale al pollo e insalata tra le mani. Poco distante da lei stava invece il ragazzo inglese che rispondeva al nome di Aaron, infagottato nel solito antivento prestato e intento a bofonchiare qualcosa davanti allo schermo del suo cellulare, che gli illuminava il viso pallido e contrito. Ma più che la loro presenza, a sorprenderla davvero fu accorgersi che in loro compagnia c’era anche Na-El, ritta e compita come una bambolina dai capelli azzurri e dal vestito di plastica, che le era stata presentata come la visitatrice di un altro mondo.

“Scusate, pensavo di essere sola.”

L’aria della sera aveva rinfrescato e il venticello che soffiava tra i palazzi alti le scompigliò appena i capelli.

“Vuoi?” – le chiese Amber, allungandole il panino mangiucchiato.

“No, grazie.” – le rispose con un fil di voce, mentre trovava posto in mezzo a loro – “Non ho molta fame.”

La ragazza americana ruotò gli occhi al cielo: “Tutti così, che allegria.”

Ora che le dava le spalle, Nat si accorse delle vertebre metalliche che correvano lungo la schiena di Amber e di come quella tuta aderente nera e arancio presentasse delle aperture in corrispondenza delle articolazioni dei gomiti e delle ginocchia, delle caviglie e dei fianchi e alla base del metacarpo e metatarso. Rispetto a sé stessa ed Aaron, per cui indossare abiti militari o civili non avrebbe fatto molta differenza dopo essere entrati nella Camera di Flamel, quella muta cibernetica doveva essere il segno che il sistema di guida di una Machine artificiale era completamente diverso. Guardò il panorama di grattacieli silenziosi che facevano da pazienti testimoni di quella notte: sotto di loro, Powell Street si allungava a destra e a sinistra, proprio dirimpetto alla Union Square, illuminata a giorno dagli allestimenti militari. Irradiance svettava oltre i tetti della piazza dalla cintola in su e, più in lontananza, la sua Freya e la Machine bianca di Aaron attendevano muti, le orbite delle maschere facciali vuote e spente, come immense cariatidi. Si rese conto che, in effetti, per quanto tutte e tre fossero molto differenti, qualcosa in Irradiance lo era di più. Le armature curvilinee e cesellate di strane iscrizioni – che ora si chiedeva da chi fossero state incise – delle due Machine aliene assumevano forme più squadrate e grezze su quella di Amber; le articolazioni degli arti, del collo e del ventre non erano solo delle maglie flessibili di acciaio, ma veri snodi robotici fatti di pistoni e cavi elettrici che i progettisti non erano riusciti a mascherare del tutto; i tacchi inverosimilmente acuminati non avrebbero potuto sorreggere il peso di Irradiance ed erano stati replicati con versioni più basse e robuste; gli avambracci e i fiancali non avevano nulla della delicata eleganza di Freya e anzi erano spessi, coriacei e disarmonici rispetto al design complessivo, come se qualcuno avesse voluto attaccare delle specie di coltellini svizzeri giganti dal gomito in giù, senza contare quel blocco sgraziato di metallo agganciato dietro le scapole e che sembrava nient’altro se non un terzo braccio ripiegato. L’elmo e le mani erano gli elementi che meglio erano riusciti a replicare l’estetica originale che i designer avevano cercato di imbrigliare, ma anche in quel caso qualcosa era sfuggito. Forse gli occhi bionici, dalle iridi gialle anziché rosse? O quelle due mezze corna-antenne frontali, che sembravano essere rimaste incompiute? L’immagine complessiva era di…un falso. Niente di più, niente di meno. L’imitazione ingenua di un capolavoro, che per quanto chiunque l’avesse progettata si fosse sforzato di mantenerne intatto l’involucro, aveva inevitabilmente finito per snaturarne l’intima essenza. E considerando ciò che ora sapeva nascondersi sotto la corazza della sua Unità, trovò il tutto quasi rassicurante.

 

“…il cui Nome è buono e cui dobbiamo rendere omaggio. Benedetto Tu, Signore, che benediciltuopopoldiIsraeleconlapaceAmen.” – Aaron finì di colpo il borbottio in cui era assorto e si accucciò a terra con le ginocchia al petto: “Come fai a mangiare sapendo che tra meno di un’ora dovremmo combattere?”

Amber inarcò le sopracciglia, sbigottita: “E io dovrei rovinarmi l’appetito dell’ultimo pasto? A maggior ragione.”

Addentò ancora il panino e continuò a bocca piena come se niente fosse: “Comunque. Questi giorni non abbiamo avuto molto tempo per conoscerci, vero? È un peccato. Soprattutto con te, zarina dei Novikov.”

“Chi, io?” – era la prima volta che Nat si sentiva chiamare in quel modo.

Amber allargò le mani e si guardò intorno: “Vedi altre Novikov? Dai, su, racconta. Come ci sei finita, in questa storia?”

Altro boccone di pollo e insalata, aspettando la risposta.

Nat sospirò, cercando le parole per rispondere alla domanda che le era stata posta. Già, come era iniziato tutto? Se sarebbe stato difficile esprimersi in Russo, figurarsi in un’altra lingua.

“Io…” – strinse con le mani il bordo della balaustra, incerta – “…non lo so. Vorrei poter dire che sarebbe bastato non compiere ventuno anni, ma…ho come la sensazione di starmi perdendo dei pezzi. Qualcosa che ho lasciato dietro, tanto tempo fa, e che forse, se la recuperassi, le tessere del puzzle andrebbero al loro posto. E invece non so mai niente, mentre chiunque altro sembra essere a conoscenza di cose che ignoro e che non vogliono dirmi, mentre le situazioni continuano a piovermi addosso.”

Amber finì di leccarsi le dita guantate dalle ultime briciole: “Tutto, nella vita, ci piove addosso. Non è che possiamo farci qualcosa, dobbiamo solo imparare ad affrontarlo.”

La mancanza di pietà in quelle sue parole la ferì Nat. Se l’avesse compatita si sarebbe sentita umiliata, ma non era nemmeno pronta ad ammettere che fosse solo colpa del caso, se non addirittura sua.

“E se non volessi?” – le chiese accigliata – “Perché non posso solo rifiutarmi? Tu sei una militare, lo hai scelto tu, è facile per te. Io odio ho la guerra! E detesto questi…mostri su cui siamo costretti a salire! E nonostante questo non riesco a fare niente, non riesco a sottrarmi e neanche a combinare la cosa giusta. Continuo solo a farmi trascinare dalla corrente.”

Amber sprofondò il mento nella mano, sinceramente stupefatta: “Quindi esistono persone che non sono felici di salire su una sWARd Machine?”

“E come potrebbero?!”

“Scherzi?” – Amber si raddrizzò tutta – “Una ragazza a bordo di un robot gigante! Sai quante altre vorrebbero essere al posto nostro?”

Dal suo angoletto livello pavimento, Aaron si piegò verso di loro, scuro in volto più del cielo sopra le loro teste: “Ma come fai a pensare a una roba simile? Questi esseri possono solo portare disgrazie e rovinare tutto!"

“Ahi ahi, sembra che abbiamo toccato un tasto dolente.” – Amber sollevò un sopracciglio e l’angolo destro della bocca le si incurvò in un sorrisetto interessato. Restò in attesa di una reazione da parte del ragazzo fin quando questi non si sentì tanto a disagio a restare in silenzio da preferire continuare a parlare: “Per me è così. L’avrete visti, i video dell’attacco a Venezia. Internet ne è pieno. Beh, il Meister dell’Unità azzurra è…”

Si trattenne, stringendosi una manciata di capelli nel pugno, quasi a volersi punire.

“…era mio amico. Tutto andava così bene, lui mi sembrava così…diverso. E invece sono stato solo stupido!”

“Ha ragione lui.” – disse ancora Nat – “Ogni volta che saliamo a bordo di questi affari succedono cose terribili. Sarebbe meglio se non esistessero affatto.”

Accartocciando quel che restava dell’incarto unticcio del suo panino, Amber sgrullò le spalle: “Mi spiace per voi. È un peccato che non ne vediate il lato positivo.”

“E quale sarebbe?”

La ragazza poggiò i gomiti e la schiena alla balaustra. Inalò l’odore della sera e le sue parole si raffreddarono nella brezza, uscendo più delicate del solito: “Guardate la mia: è soltanto una copia senza valore o potere speciale, e di certo quando saremo lassù io potrei anche essere sacrificata al posto vostro. Eppure, io sono contenta così. Magari non si direbbe dalle marche di alcolici che si scola mia sorella, ma noi non veniamo certo da una famiglia agiata. Per una come me salire a bordo di Irradiance è la dimostrazione che ce l’ho fatta, che ora sono gli altri ad aver bisogno di me! Aldilà di tutto, mi fa sentire utile.”

“Per me non c’è nessuno che abbia mai avuto bisogno di me, e non penso neanche di volerlo.” – Aaron si stuzzicò le unghie della mano senza uno scopo – “Mi mancano solo i miei amici. Voglio tornare a scuola e fare una vita normale.”

Amber sorrise, ma di un sorriso depurato da ogni sarcasmo: “Intendo dire che avete in mano un enorme potere. Questo mondo fa schifo, è vero, lo sappiamo tutti. Ma se chi ha la possibilità di cambiare le cose molla la presa, allora tutto precipiterà ancora di più. Non sareste meno colpevoli. È così che volete sentirvi?”

Quella provocazione li aveva ammutoliti e ci volle lo squillo del telefono di Nataša per riattivare i neuroni. Guardò lo schermo: era Miša. L’autorizzazione a rispondere le fu data da una strizzata d’occhio dell’altra ragazza, invitandola a “rispondere al suo fidanzatino.” Nat fu sul punto di contestare che non era il suo fid-oh ma che importanza aveva! Lasciò Amber a girarsi i pollici e Aaron a risprofondare nel suo mondo con un paio di auricolari nelle orecchie e si appartò in un angolo del terrazzo.

“Ehi.” – era tutto il giorno che attendeva quella telefonata.

“Ehi!” – le fece eco Miša, la voce un po’ distante e attutita da rumori di fondo – “Come stai?”

“Secondo te?”

“Già. Domanda stupida.” – sembrava più rilassato di lei, ma sapeva che non era così – “Hai chiamato a casa?”

“No.” – tirò su col naso e non solo per il freddo – “Non voglio che suoni come l’ultima telefonata, tipo. Spero di non pentirmene. Te, invece?”

“Solo mamma, stamattina. Con mio padre sai che non parlo da un po’, non credo che abbia molto valore cercarlo solo ora.”

Lei non avrebbe potuto dire di essere d’accordo con quella visione, ma d’altronde come avrebbe potuto giudicare le necessità di un altro essere umano in un momento come quello? Sorvolò i tetti della città con lo sguardo, in cerca dell’oceano e dell’aeroporto. Da lì era solo un tappeto di fiochi lumicini nelle finestre e nelle vetrine dei negozi che, anche in condizioni normali, sarebbero rimaste accese per tutta la notte.

“Non riesco neanche a vedere dove sei. Non è giusto.”

“Ci vedremo tra poco, non ti conviene avere troppa fretta!” – azzardò una risata, ma gli uscì scalcinata e sibillina; tornò serio – “Affronteremo anche questa cosa insieme, come abbiamo fatto dall’inizio. Pensa solo a questo.”

“Lo so. Grazie, per essere sempre stato l’amico che sei. Anche ora.”

Non ebbe bisogno di occhi per sapere che le sorrideva e che doveva aver alzato la testa verso il suo stesso panorama: “Guarda questa città…quanto è silenziosa e buia, adesso! Scommetto che non lo è mai stata così tanto.”

“Già.” – ora anche lei stava sorridendo di rimando, a isolati interi di distanza – “Mi sarebbe piaciuto visitarla da turista, con tutta la gente.”

“Ehi, Da-Russia-Con-Amore!” – di nuovo Amber, dall’altro lato del terrazzo – “Ok un po’ d’intimità, ma non tagliateci fuori del tutto!”

Accettando senza troppe remore la proposta, Nataša si riavvicinò agli altri e avvertì Miša che lo avrebbe messo in vivavoce.

“Uhm…ciao.” – la voce del ragazzo uscì dal telefono, ora tenuto in mezzo al gruppetto.

Profondamente soddisfatta del risultato ottenuto, Amber li esortò con un: “Beh, avanti, continuate pure.”

La conversazione non poteva dirsi facilitata con quelle premesse e sul momento nessuno dei due riuscì a mettere in fila due sillabe sensate, ma alla fine qualcosa si smosse. Nataša non era meno preoccupata, ma sapere che ora erano tutti lì, insieme, su quel tetto, nello stesso momento, a condividere paure e speranze che nessun altro sulla faccia della Terra avrebbe potuto comprendere, le diede l’impressione che non fossero del tutto sconosciuti tra loro. Chissà quante cose non sapeva di quelle persone, chissà quanti dossi e fossati dovevano aver scavalcato nella loro vita e tutti li avevano condotti in quel metro quadrato di cemento sotto le loro scarpe.

“Lo so che sembra stupido da dire adesso, ma mi sembra di essere in fila per un esame all’università.” – lo disse pacatamente, con la stessa passiva leggerezza con cui si riemerge dopo aver vomitato – “Stanotte potremmo anche morire. Però, per qualche motivo…non provo più paura, adesso.”

“Hai ragione.” – Aaron si tirò su, lasciando da parte cuffie e telefono – “Comunque vada, almeno sarà finita.”

Amber piegò la testa di lato, riflettendoci su: “Che pensiero drastico!”

“Certo che” – aggiunse anche Miša – “se avessi saputo di dover morire così presto mi sarei comprato una casa tutta mia. Avrei chiesto un bel mutuo, per non doverlo neanche finire di pagare.”

Qualcosa che si classificava leggermente sotto la risata venne dalle loro bocche. Ma poi…

“Com’è strano.”

L’aggiunta di una quarta voce causò a tutti una piccola sincope.

“Chi è?!” – chiese Miša, che non poteva vedere niente.

“Oh, era solo la nostra piccola E.T. dai capelli azzurri.” – Amber non provò nemmeno a nascondere la diffidenza con cui la trattava – “Ogni tanto le si scioglie la lingua.”

Ma Na-El non sembrò curarsi minimamente di lei, continuando a parlare con l’occhio vitreo rivolto al pavimento: “Com’è strano. In momenti come questi, quando sentono approssimarsi la loro morte, gli umani iniziano a rincorrere i pensieri più bizzarri e a domandarsi cos’altro avrebbero potuto fare prima.”

“Beh, ecco, penso sia normale fare un bilancio della propria vita, no?” – replicò la voce di Miša – “Per sapere se si sta lasciando questo mondo con dei rimpianti.”

“Se voi umani spendeste meno tempo a preoccuparvi di ciò che avrebbe potuto essere, e vi concentraste di più su cosa potreste ancora fare, la vostra percezione della vita sarebbe più lunga.”

Non c’era mai intonazione in nessuna delle parole che uscivano dalle labbra di quella Siren e nonostante tutto sembravano essere sempre velate di compassione.

Amber incrociò le braccia: “Ma senti tu che lezioncina!”

“Umani…” – la voce di Miša tremò incerta, dall’altro capo della cornetta – “…quasi mi scordavo. Questa storia che lei…stiamo davvero parlando a un’extraterrestre? È una cosa, tipo…wow!”

Na-El ruotò la testa nella loro direzione e ancora una volta sembrò che potesse vederli attraverso con quell’iride vitrea: “Ti stupisci perché parlo, o perché assomiglio ad una di voi? Conosco la rappresentazione che voi terrestri avete delle forme di vita fuori dal vostro pianeta. Vi stupireste nel vedere quanto siete lontani dalla realtà.”

Poi sollevò la testa al cielo: un viso nero cosparso di lentiggini luminose, con un solo occhio aperto, bianco e lattescente, e sopracciglia di nuvole. Stava pensando alla sua casa tra le Stelle, che le tingeva il viso di nostalgia?

“Questo nostro Universo è così vasto, così pieno di meraviglie…eppure tutte le forme di vita che lo abitano, dalla più elementare alla più evoluta, condividono la stessa sorte. La morte biologica, l’istinto a voler proseguire la propria esistenza, il nostro ruolo nel mondo…tutto l’Universo si pone le vostre stesse domande. Perciò, quando vi sentite soli, guardate il cielo, respirate, e pensate che, per quanto siano incommensurabili le distanze che vi separano dagli altri…voi non siete soli. E siete compresi.”

Il silenzio scese su di loro e per qualche secondo nient’altro fu udibile, se non la melodia che, a mala pena, usciva dagli auricolari a terra di Aaron. Traccia 23: Stand By Me.

Ci sarebbe stato così tanto altro da dirsi, così tante cose da confessare. Avrebbero voluto avere il tempo di ripercorrere tutti i ricordi migliori della loro esistenza, sceglierli a uno a uno per essere sicuri che – semmai fosse esistita una vita dopo la morte – non sarebbero stati lasciati indietro. E invece, fingere che il mondo scomparisse, come se già non vi appartenessero più o addirittura non vi fossero mai appartenuti, sembrò loro il modo più semplice per lasciare che ciò che ancora doveva accadere potesse profilarsi all’orizzonte senza rimorsi.

Poi, una minuscola macchia nera divenne visibile contro la sagoma della luna immacolata.

La sveglia del telefono di Amber suonò. Mezzanotte e un quarto.

“È ora.”

   
 
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