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Autore: Soul of Paper    31/10/2021    4 recensioni
[Imma Tataranni - Sostituto procuratore]
Lo aveva baciato e gli aveva ordinato di dimenticarselo. Ma non poteva certo pretendere dagli altri ciò che non riusciva nemmeno a fare lei stessa. Imma Tataranni - Imma x Calogiuri
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nessun Alibi


Capitolo 65 - In Azione


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


Maledizione, devi smetterla di piangere mo!

 

Se non se lo fosse detto mentre si aggrappava alle sue stesse ginocchia, cercando di non tremare come una foglia, forse il suo ordine a se stessa sarebbe risultato più credibile.

 

Sentì come dei tocchi sulla gamba e sollevò leggermente gli occhi, per trovarci Ottavia che le dava musate e le leccava il polpaccio. In un impulso disperato, se la prese e se la strinse al petto, continuando a piangere nel suo pelo morbido.

 

Ma nemmeno lei, col suo calore e le sue fusa, riusciva a levarle di dosso quella mano che le stringeva lo stomaco ed il cuore, quella voce che le ripeteva che forse qualcosa in Calogiuri si era rotta per sempre. Che non sarebbero mai riusciti a recuperarla, pure se si amavano.

 

E quello la terrorizzava più di qualunque altra cosa e non c’era proprio niente che potesse farla sentire meglio.

 

*********************************************************************************************************

 

Un rumore di passi gli fece aprire gli occhi ed alzare leggermente la testa dal cuscino. Gli sembrò pesare un macigno, dopo la notte praticamente insonne.

 

Era Imma, con gli occhi rossissimi, ma per il resto vestita di tutto punto, come per andare al lavoro.

 

“Ma… ma devi uscire?” le chiese, sorpreso.

 

“No,” rispose lei, semplicemente, secca, lanciandogli un’occhiata prima di infilarsi nell’angolo cucina, “mo ho bisogno di un caffè, o pure due, ma dopo dobbiamo parlare, Calogiuri. Le uova le fai tu? E pure il cappuccino, che io preparo il resto.”

 

Il tono di lei era quello che aveva sentito mille volte in procura: professionale, senza inflessioni, e non si era più girata a guardarlo.

 

Sospirò e si alzò dal letto: probabilmente era arrabbiata con lui per quanto era successo e non successo, e non poteva darle torto, ma… non era solo rabbia, c’era qualcosa di diverso.

 

Si avvicinò lentamente e fece quello che gli era stato chiesto, mentre lei era concentratissima sul pane da tostare e su tutte le cose da mettere sul bancone.

 

Si sedettero ancora in totale silenzio, lei che fece un cenno del capo per ringraziarlo del cappuccino e mangiò ad ampi bocconi, per poi tracannarsi il cappuccino.

 

CLANG

 

Il rumore della tazza mollata sul piattino quasi lo spaventò, nel silenzio che c’era.

 

La vide pulirsi le labbra col tovagliolo e poi gli occhi di lei, decisi, decisissimi, anche se iniettati di sangue, furono nei suoi.

 

“Calogiuri…” esordì, come aveva fatto mille volte quando lavoravano insieme, mordendosi le labbra ma non schiodando gli occhi dai suoi, “ti amo, moltissimo, probabilmente troppo e forse pure male. E questo non è in discussione. Ma… ho provato ad essere dove stai tu mo, anche se per motivi diversi.”

 

“In che senso?” chiese, non capendo e guardando verso la sedia ma lei scosse il capo con un sospiro.

 

“Giusto… non ne abbiamo mai parlato. Nel… nell’ultimo periodo del matrimonio con Pietro, prima di separarmi da lui… Pietro voleva delle cose da me, anche fisiche, che io non riuscivo più a dargli.”

 

La bocca gli si spalancò, senza poterlo evitare: non avrebbe mai pensato che Imma avesse mai….

 

“Nel mio caso era perché mi ero innamorata di te e… non soltanto non ero più attratta da Pietro, ma mi sentivo pure in colpa nei tuoi confronti. Nel tuo caso… pure se lo sento che… che anche da parte tua l’amore, anzi, il bene, non è in discussione, in un rapporto se manca la fiducia manca tutto. E, se non riesci più a fidarti di me, qua non andiamo da nessuna parte, Calogiuri.”

 

Si aspettava tutto tranne che quello e provò a protestare ma lei lo zittì con una mano alzata e con quello sguardo che gli paralizzava la lingua.

 

“Come ti ho promesso, continuerò a lottare, Calogiuri, insieme a te, per dimostrare la tua innocenza. E dopo, quando sarai libero, se vorrai e se te la sentirai, come ti ho già detto, sono disposta ad andare in terapia con te. Ed ovviamente puoi stare qua per tutto il tempo che ti serve. Ma…” prese fiato e lo sguardo ed il tono che aveva dopo erano decisi come forse mai, perfino per lei, “ma non mi avvicinerò più a te… in quel senso. E ti chiedo di non farlo nemmeno tu, finché non sarai più che sicuro di essere riuscito ad andare avanti. E… se questo non dovesse succedere… una volta che sarai libero di fronte alla legge, lo sarai anche nei miei confronti. Ti lascio libero di andartene per la tua strada, Calogiuri. Non… non ti voglio tenere legato a me, se non c’è futuro e se finiamo solamente per farci del male a vicenda. Pure se ti amo e se lo so che… che anche tu in qualche modo mi ami ancora. Ma l’amore senza la fiducia non serve a niente.”

 

Avrebbe voluto dirle tante cose, ma la lingua era sempre incollata al palato, il cuore che gli faceva male, come se avesse ricevuto un pugno. Imma era bellissima, fiera e triste come non l’aveva mai vista. Avrebbe voluto urlarle quanto voleva disperatamente riuscire ad andare avanti, quanto l’amava ancora, ma niente… la lingua non voleva saperne di collaborare.

 

E gli toccò osservare in silenzio anche quando Imma si alzò e cominciò a mettere piatti e posate nella lavastoviglie.

 

Riuscì solamente ad aiutarla, senza dire una parola, la paura fottuta di aver perso per sempre qualcosa e la voglia lancinante di abbracciarla.

 

Ma non lo fece.

 

*********************************************************************************************************

 

“Mariani, mi dica che ci sono buone notizie.”

 

Sorrise alla dottoressa e le spiegò per filo e per segno i risultati delle analisi su Melita.

 

“Ed adesso, d’accordo col dottor Mancini, stiamo cercando cliniche private compiacenti.”

 

“Qualche risultato?”

 

“No, purtroppo ancora, no, dottoressa, ma, come ho già detto al dottor Mancini, volevo confrontarmi anche con la dottoressa Tataranni e con Calogiuri, che di questo caso ne sanno più di me.”

 

“E pure più di me,” ammise a sorpresa la Ferrari, “ascolti, Mariani, organizziamo una videochiamata sulla solita linea criptata. Qua dobbiamo agire in fretta e mi pare la cosa più efficiente da fare, e speriamo anche la più efficace.”

 

“D’accordo, dottoressa. Domattina può andare bene per lei?”

 

“Certo. Prima è e meglio è, Mariani. Complimenti per l’ottimo lavoro che sta facendo.”

 

“Grazie, dottoressa.”

 

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“E quindi… il parto è avvenuto in estate. A giugno dell’anno scorso, per essere precisi.”

 

“Esatto, Calogiuri,” confermò Irene, con un sorriso.


Erano in videochiamata con lei, Mancini, Mariani e Ranieri ed almeno sembrava finalmente che cominciassero ad avere qualcosa di concreto su cui indagare, anche se mancavano ancora tanti, troppi elementi.


“Capire chi sia il padre sarebbe di grande aiuto, ai fini delle indagini,” intervenne, perché quello era uno dei punti cruciali per capire il movente di Melita e di tutto il mistero che circondava questa gravidanza.

 

“Sì, Imma, è vero. Anche perché… quello potrebbe essere un problema aggiuntivo.”

 

“In che senso, Irene?”

 

“Nel senso che… facendo tutti i conti… probabilmente Melita è rimasta incinta poco dopo essere tornata a Roma da Maiorca e quindi-”

 

“E quindi in quel periodo c’erano stati alcuni messaggi di ringraziamento tra me e Melita. Questo vuoi dire?”

 

Il cuore le finì nello stomaco, perché Calogiuri aveva avuto l’intuizione corretta, ma quella era una pessima notizia, purtroppo.

 

“Sì. Anche se, dalla testimonianza di Melita stessa, voi sareste stati amanti solo da dopo che vi siete rivisti ad agosto. Ma… c’è il rischio che qualcuno tiri fuori pure questi messaggi, quando noi proveremo a far emergere il punto della gravidanza.”

 

“Santoro o l’avvocato?”

 

“Entrambi, Imma. Entrambi.”

 

Vide Calogiuri accasciarsi sul divano: era stato un duro colpo per lui.

 

“In ogni caso, se mo conosciamo la settimana presunta del parto, dobbiamo guardare indietro, non solo sui profili social di Melita, ma anche sui social e sulle intercettazioni di tutta la gente coinvolta. Coraini, Giuliani eccetera.”

 

“Di quello ce ne occuperemo noi, Imma, non ti preoccupare,” la rassicurò Irene, anche se pure lei sembrava tutt’altro che tranquilla, “al momento voi meno fate e meglio è. Ma tenetevi a disposizione, se abbiamo bisogno di altri meeting.”

 

“E tanto che altro c’abbiamo da fare?” rispose, sarcastica.

 

Ma che c’aveva di male la parola riunioni? Con tutto sto inglese!

 

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Il suono del campanello provocò un salto sul divano, all’unisono.

 

Almeno in qualcosa erano ancora in perfetta sintonia.

 

Avevano appena smesso con la chiamata, quindi non poteva essere qualcuno mandato da Mancini. Si augurò che non fosse qualcuno mandato da Santoro.

 

“Chi è?” domandò, alzandosi dal divano e avviandosi verso l’ingresso.

 

“Sono io fratellì, mi puoi aprire?”

 

“Rosa?” domandò, stupito, perché era da quando si era lasciato con Imma che non si erano più visti.

 

Aprì la porta e ci trovò proprio sua sorella, con uno sguardo preoccupato, da sola.

 

“Noemi sta all’asilo, allora ne ho approfittato per venire a parlarti. A parlarvi, se ci sta anche Imma.”

 

La fece entrare, chiuse immediatamente la porta e provò a spiegarle, “Rosà, non è vero niente. Né che ho avuto una storia con Melita, né che l’ho aggredita e-”

 

“Lo so, fratellì, ti credo,” lo interruppe, con uno sguardo carico d’affetto ma pure di imbarazzo che gli fece mollare il respiro che stava trattenendo, “ti credo… e mi dispiace di essere stata così dura con te prima. Ma sai… solidarietà femminile.”

 

“Dai, vieni,” le offrì, prendendole il cappotto e portandola verso il salotto.

 

“Imma!” esclamò Rosa, esitando un attimo, ma poi Imma le si avvicinò e le diede un abbraccio, così, in quel modo naturale che aveva lei, che sapeva essere tanto affettuosa quanto dura, a seconda delle circostanze.


“Vado… vado a lavarmi i capelli e a rifarmi la tinta, che mo sti capelli gridano proprio vendetta. Voi state pure qua tranquilli, a dopo!” proclamò poi Imma, facendogli un sorriso ed uno sguardo di intesa.

 

E lui provò di nuovo quella cosa dentro al petto, che provava sempre e solo con lei, perché sapeva benissimo che era soltanto una scusa per lasciarli da soli a parlare.

 

“Dovevo capirlo che non avresti mai tradito Imma,” gli disse Rosa, quando Imma si fu chiusa in bagno, accomodandosi con lui sul divano, “e che non avresti mai voluto farla soffrire. Ma è che… dopo Maria Luisa… sei così fortunato ad avere una come lei al tuo fianco e… ho finito per fare come mamma con Maria Luisa e prendere le sue parti e non le tue. Ma mo ho capito che non avrei dovuto prendere le parti di nessuno, ma ascoltarti.”

 

“Non fa niente, Rosa, lo capisco… pure io al posto tuo mi sarei menato da solo. Anzi, a volte mi menerei da solo pure mo,” sospirò, passandosi una mano sugli occhi, “e lo so che sono fortunatissimo ad avere una donna come Imma e… vorrei tanto non farla mai soffrire, ma purtroppo non ci riesco più.”

 

“In che senso?” gli domandò Rosa, e si trovò col viso sollevato per guardare in quegli occhi uguali ai suoi.

 

Prese un attimo di tempo, perché non voleva certo raccontare a Rosa i fatti privati di Imma con Mancini.


“Diciamo che… in queste settimane io ed Imma ci siamo fatti male… tanto male, pur non volendolo. E mo non è facile perdonarsi a vicenda ed andare avanti.”

 

“Se ti fai scappare una come Imma per orgoglio ti meno, fratellì, e pure Noemi!” esclamò Rosa, anche se vedeva che era ironica, ma anche con un sorriso malinconico, “seriamente, lo sai che ti voglio bene e ti prometto che da ora in avanti sarò sempre dalla parte tua, qualunque cosa tu decida e con chiunque tu stia o non stia. Ma quello che avete tu ed Imma è difficilissimo da trovare e… quando lo si trova va difeso con le unghie e con i denti, se si riesce.”

 

Gli venne un singhiozzo e la strinse forte a sé, come quando erano bimbi e lei lo consolava dopo l’ennesimo rimprovero di mamma.

 

E quello gli fece venire in mente un altro problema.


“Mamma l’hai sentita?”

 

Rosa si irrigidì e mollò un poco l’abbraccio.

 

“Mamma è un disco rotto, fratellì. Continua a dire che abbiamo disonorato la famiglia, che non ci vuole più vedere, che siamo degli svergognati, eccetera eccetera. Ma peggio per lei che per orgoglio si sta perdendo gli anni più belli di Noemi. E del resto la capa tosta da qualcuno l’avemo pure presa no?”

 

Gli venne da ridere e l’abbracciò di nuovo, forte forte, prendendola in giro con un “allora lo sai che sei pure tu una testona!”

 

Non si accorsero degli occhi marroni ed umidi che li stavano osservando, né del sorriso dolce, solo lievemente malinconico, che aveva sul viso.

 

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“Valentina!”

 

Per poco non le pigliava un colpo. Non solo perché l’aveva presa di sorpresa, ma perché riconosceva la voce.

 

“Carlo?” chiese, voltandosi e trovandolo vicino all’aula dalla quale era appena uscita.


“Scusami per l’improvvisata, Valentina, ma… ero un po’ preoccupato. Ti posso offrire il pranzo?”

 

E mo che faccio?

 

Si sentiva in agitazione e non sapeva bene come fare, ma le sue carissime compagne li salutarono con un “vi lasciamo soli!” che le avrebbe ammazzate, le stronze!

 

Sospirò e guardò Carlo, che ricambiò in modo interrogativo.

 

“Se ti va bene ci prendiamo un panino ed andiamo su una panchina,” offrì, perché almeno avrebbero fatto prima che andare al bar o al ristorante.

 

“Va bene. Se non hai troppo freddo.”

 

“Ma no, con questo sole si sta bene!” rispose, avviandosi il più rapidamente possibile verso il chioschetto fuori dall’università.

 

Mangiarono in silenzio, sotto ai raggi tiepidi che annunciavano che l’inverno stava ormai volgendo al termine, per lasciare posto alla primavera.

 

“Come va?” le domandò all’improvviso, in una domanda che poteva avere tanti significati.

 

“Non posso dirti molto, per ovvi motivi, ma… mi sono chiarita con mia madre e con Calogiuri,” gli spiegò, cercando di dare l’interpretazione più neutra possibile, “e, pure se sono preoccupata, so che mia madre ha la testa sulle spalle e che gestirà tutto come deve. E poi… mio padre ultimamente mi sta rimanendo molto vicino e questo mi aiuta molto. Mi mancava un po’.”

 

“Lo immagino…” rispose lui con un sorriso, “anche a me fa piacere ogni tanto tornare a farmi coccolare a casa. Anche se mio padre mi fa sempre una capa tanta sullo studio. E… e mi era mancato anche parlare così con te.”

 

Sentì il viso farsi caldo ed ammise, “anche a me!” prima di rendersene conto.

 

“E Penelope?” domandò, che tra poco le andava di traverso il panino, “non l’hai più nominata.”

 

Era vero, e non era solo per… quello che aveva scoperto di provare per Carlo. Ma Penelope era stata tra le ultime persone a contattarla quando era uscita la storia dell’aggressione a Melita, perché troppo presa a lavorare con gli amici suoi. Tanto per cambiare.

 

“Diciamo che… le cose non vanno proprio benissimo. Ma forse non è il caso che ne parlo con te.”

 

“E perché? Mi sembra che abbiamo sempre parlato di tutto, no?” obiettò lui, con aria confusa e un po’ ferita, per poi chiedere, preoccupato, “non è che… non è che Penelope è gelosa di noi, vero?”

 

Le venne da ridere, anche se era una risata amara.

 

“Ma va! Penelope in questo periodo sta da tutt’altra parte, in tutti i sensi, ma-”

 

“Ma?” la interruppe e si rese conto in quel momento di essersi fregata da sola.

 

Complimenti, Valentina, brava!

 

Ma forse era meglio così.

 

“Ma… l’ultima volta che siamo usciti, che siamo andati a ballare… non so bene come sia successo ma… mi sono accorta di essere un po’ attratta da te,” ammise, e, di fronte agli occhi spalancati di Carlo, proseguì, tutto d’un fiato, “lo so che per te sono solo un’amica, e non è che nemmeno io voglio altro. Anche perché devo chiarire tutta la situazione con Penelope... però… come faccio a parlarti di lei finché non sono sicura di quello che provo? E per questo forse è meglio che, finché non mi sono chiarita le idee, non ci vediamo più neanche come amici. Anche perché mi sento in imbarazzo e non voglio metterti a disagio.”

 

Oltre agli occhi, Carlo aveva pure la bocca spalancata, tipo pesce.

 

“Grazie per il panino, io vado!” si affrettò a dire, anche se ne doveva ancora mangiare più di metà e, afferrando lo zaino, corse verso l’ingresso dell’università, dandosi da sola della scema per essersi infilata in quella situazione.

 

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Si girò sul fianco destro. Una fitta e ritornò sul sinistro.

 

Si sentiva stanchissimo, sfinito, ma non c’era verso di dormire realmente, continuava a svegliarsi.

 

Ottavia ad una certa ora lo aveva abbandonato e l’aveva vista zompettare verso la stanza dove stava Imma.

 

E non le dava manco torto.

 

Si sentiva stupido, ma non sapeva come fare. Non riusciva a controllare quello che sentiva, anche se lo avrebbe tanto voluto.

 

Però gli mancava avere Imma accanto a lui, gli mancava tremendamente. Gli mancavano il suo calore, il suo respiro, tenerla abbracciata, senza fare l’amore necessariamente, ma rimanendo insieme, semplicemente.

 

E poi… e poi Imma quel giorno lo aveva stupito per l’ennesima volta, ed era così maledettamente bella quando tirava fuori le unghie.

 

Una parte di lui avrebbe solo voluto alzarsi, raggiungerla e stringerla forte, fino a perdere il fiato. 

 

Ma non voleva farlo altro male, perché vederla triste era sempre una pugnalata per lui e perché lei quella mattina era stata chiara, chiarissima.

 

E quindi toccava a lui mo, capire cosa sentiva veramente, prima di fare altri casini e di darle altro dolore.

 

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“Allora, Ranieri, ci sono novità?”

 

La voce di Irene era speranzosa.

 

In effetti, che il capitano avesse convocato questo nuovo meeting all’improvviso e con urgenza, poteva essere un buon segno.

 

“Sì. Quando abbiamo parlato l’ultima volta mi era già venuta in mente una cosa, ma non volevo darvi false speranze. Ma ho ricontrollato e forse è come pensavo, anche perché i tempi coincidono con quelli dedotti da Mariani.”

 

“Cioè? Può arrivare al punto?” gli domandò, forse un poco brusca, ma già stava friggendo e non voleva sentirsi tre ore di preamboli.

 

Ranieri sorrise, scuotendo il capo, ed esclamò, “lo so che lei è molto diretta e veloce, dottoressa. Comunque, dalle nostre intercettazioni emerge che a giugno dell’anno scorso l’avvocato di Romaniello e Coraini, quello dell’agenzia fotografica, si sono scambiati una telefonata in quello che mi era parso anche allora un codice. All’epoca avevo pensato si parlasse di uno scambio di droga, visto che lì ne gira parecchia, ma il messaggio preciso era ‘la pagnotta è stata sfornata’. Ora, alla luce di quanto emerso e della coincidenza delle date, probabilmente non si annunciava un pacco di droga da ritirare ma-”

 

“Ma la pagnotta era il figlio di Melita,” lo interruppe, pure se lo avrebbe voluto abbracciare, anche da distanza, perché sì, quello era uno sviluppo importantissimo.

 

“Ma allora… poteva essere figlio dell’avvocato?” domandò Mariani, dalla sua postazione a casa sua.

 

“Diciamo che… non è chiaro quando Melita e l’avvocato si siano conosciuti,” si inserì Calogiuri, seduto accanto a lei, mentre consultava alcune cose sul suo tablet, “ma le foto di loro che abbiamo sono uscite molto più tardi.”

 

“Secondo me è poco probabile che già si conoscessero, o che comunque l’avvocato sia il padre. Prima di tutto è avvocato e non avrebbe mai lasciato in giro un suo erede vivo, se indesiderato, visto che conosce benissimo le conseguenze legali ed economiche di un eventuale riconoscimento, anche richiesto unilateralmente dalla madre con il DNA. Credo che il padre sia qualcun altro, ma prima di tutto dobbiamo capire dove l’hanno partorita sta creatura, per avere qualche elemento in più. E per capire quello e capire chi sia il padre bisogna guardare più indietro nei messaggi di Melita, di Coraini e dell’avvocato.”

 

“Va bene. Allora ognuno spulcia la sua parte di intercettazioni e tabulati e ci riaggiorniamo tra qualche ora?” propose Mancini e tutti annuirono.

 

Osservò Calogiuri chiudere il collegamento e prese in mano il primo faldone di carte, sperando di trovarci qualcosa.

 

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“Ranieri, mi dica che ci sono altre buone notizie.”

 

Era stato lui a far partire la chiamata di gruppo e vedeva Imma quanto fosse agitata, da come la gamba le andava su e giù, oltre che dal tono con il quale gli aveva praticamente ordinato di darle buone nuove.

 

“Sì, dottoressa. Per fortuna le intercettazioni di Coraini si stanno rivelando una miniera, pure se quasi tutta in codice. Ho pensato di andare più indietro, cercando altri riferimenti a forni e panificazioni e ho trovato un paio di messaggi tra Coraini ed un numero che appartiene, da verifiche, ad un ginecologo che lavora in una clinica privata sui colli romani. Si parlava di ‘passare insieme dal forno’ e cose del genere. Poi potete leggerli, ma credo stessero fissando gli appuntamenti medici che riguardavano Melita e la data del parto. Perché c’è un messaggio che dice ‘dobbiamo metterci d’accordo su quando la pagnotta verrà sfornata’.”

 

“E c’erano risposte?”

 

“Sì. Date di appuntamenti, credo. E presumibilmente del cesareo, che coincide con la data in cui la pagnotta è stata sfornata.”

 

“E certo… se volevano fare tutto di nascosto, non potevano correre il rischio di un parto naturale e che Melita si sentisse male da qualche parte e venisse portata in un altro ospedale. Grazie Ranieri, veramente, ha fatto un lavoro eccezionale.”

 

Provò un’assurda fitta di gelosia ma sentì la mano di Imma stringere la sua, da sotto al tavolo della cucina, dove avevano messo il pc.

 

La guardò ed il sollievo e la commozione che le lesse in faccia furono un’altra stilettata dritta in petto.

 

E poi gli sorrise e lui non potè evitare di sorriderle di rimando, stringendole più forte la mano.

 

“Ed ora che facciamo?”

 

Era stata Irene a porre la domanda.

 

“Io un’idea ce l’avrei…” proclamò Imma, le dita che si intrecciarono con le sue.

 

Il sorriso si trasformò in una mezza risata: quando Imma aveva una delle sue idee, non ce n’era per nessuno.

 

Sempre.

 

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“Che c’è?”

 

Avevano appena finito la videochiamata, anzi la videocall, come avrebbe detto Irene, si era voltata e aveva trovato Calogiuri con quello sguardo, come se lei fosse la madonna.

 

“C’è che… che avrei tanta voglia di abbracciarti. Tanta.”

 

Non avrebbe saputo dire se fosse stato più illegale lo sguardo, il tono, o l’aria timida e imbarazzata con la quale glielo aveva detto.

 

Per certi versi, le sembrava tornato il Calogiuri dei primi tempi. Anche se non lo era, affatto.

 

“E allora?”

 

“E allora non so se… se posso farlo o no.”

 

Sospirò e gli sorrise, prendendogli di nuovo la mano, “guarda che non è che mi devi chiedere il permesso, Calogiuri. Se lo vuoi fare e ne sei sicuro, fallo. Anche perché, per un abbraccio, non credo ci siano proble-”

 

Non fece in tempo  a finire che si trovò stritolata a morsa, il rumore ritmico del cuore di lui sotto al suo orecchio che le dava tranquillità e pace, nonostante tutto.

 

“Grazie… non… non sai cosa significa tutto questo per me e… e scusami se…” si sentì sussurrare nell’orecchio, prima che lui facesse una pausa, deglutisse saliva, e finisse con un “lo sai che non vorrei mai farti soffrire, vero?” che era ancora più da scioglimento.

 

“Lo so, Calogiuri, lo so,” lo rassicurò, accarezzandogli i capelli, “e spero che tu sappia che lo stesso vale per me.”

 

“Lo so, ma… ma è che il cervello a volta fa strani scherzi, e pure il cuore.”

 

E che non lo sapeva? Con tutti quelli che aveva combinato a lei!

 

Ma non disse niente e si limitò a continuare ad abbracciarlo, rimanendo così, stretti stretti, per un tempo che non sarebbe mai durato abbastanza.

 

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“Valentì!”

 

Erano nel letto e si era trovato abbrancato per la vita in un abbraccio da stritolamento.

 

Per carità, gli faceva piacere che Valentina, nonostante l’età, volesse ancora così tanto bene al suo papà, ma erano un paio di giorni che pareva ancora più bisognosa di coccole del solito.


“Che c’è, Valentì? Sei strana. Vuoi dire che è successo, a papà?”

 

Sua figlia si bloccò un attimo, ma poi sollevò il capo e teneva gli occhi pieni di lacrime.

 

L’arma più letale del mondo per lui: le lacrime di sua figlia.

 

“Papà… ho fatto un casino!” esclamò, prima di buttarglisi a piangere sul petto.

 

“Valentì… Valentì… calma. Perché non mi spieghi con calma, dall’inizio?”

 

Valentina per un po’ non rispose, mutismo totale, ma poi chiese, con voce flebile, “papà… secondo te… secondo te è possibile amare una persona ma essere attratta da un’altra?”

 

“E che è, una domanda a trabocchetto?” ironizzò, ma sapeva benissimo quanto fosse realmente pericoloso andarsi ad infilare in certi discorsi.

 

“No, papà, niente giudizi sul passato. Allora, secondo te è possibile?” incalzò, decisa, sollevando il capo e guardandolo con quegli occhi ai quali avrebbe concesso tutto.

 

“Beh… diciamo che… effettivamente quando stavo ancora con mamma tua… da Cinzia ero stato attratto, lusingato, diciamo. Forse più dalle attenzioni che mi dava che da lei, mentre a volte mamma tua era più distante in quel periodo. Però alla fine con Cinzia non è successo niente fino a dopo che è finita con mamma tua. E non perché fossi un santo, eh, ma anche perché… evidentemente di tua madre ero innamorato, di Cinzia no.”

 

“Grazie al cavolo! E che ti ci volevano tutti quei mesi per capirlo? E comunque non so se questo mi aiuta.”

 

“Ma ci stanno problemi tra te e Penelope?” si azzardò a chiedere allora.

 

Valentina, di tutta risposta, rise, amarissima.

 

“Sai che c’è, papà? C’è che vorrei averli i problemi con Penelope, perché almeno vorrebbe dire che ci vediamo, che ci parliamo, che facciamo qualcosa. Mentre invece niente: Penelope sta sempre impegnata, è assente e ci vediamo sempre di meno. E l’ultima volta che ci siamo viste, dopo un sacco che non ci vedevamo, ha dato priorità ai suoi amici dell’accademia. E anche solo per chiedermi come va ultimamente arriva sempre tardi, quando arriva.”

 

“Senti, Valentì,” sussurrò, accarezzandole i capelli, “nessuno meglio di me può capire come sia difficile stare con una persona che mette prima il lavoro.”

 

Stavolta la risata di Valentina era più genuina.

 

“Lo sai che io e mamma tua siamo stati lontani anche quando eri piccolina, se te lo ricordi?”

 

“Sì. Mi ricordo che mamma mi era mancata tantissimo.”

 

“E pure a me. Ma comunque abbiamo sempre resistito, sempre, perché ne valeva la pena e perché ci amavamo molto. Mo devi capirlo pure tu, se ne vale la pena. Anche perché mo fai l’università, ma presto pure a te toccherà lavorare, Valentì, e stare impegnata per la maggior parte della giornata. E se riuscite a venirvi incontro, non soltanto metaforicamente, ma pure ad abitare più vicine, magari potrà funzionare, no?” le chiese, ma Valentina gli parve dubbiosa, “certo, se poi invece magari hai già incontrato qualcun’altra che ti piace di più….”

 

Valentina sembrò sorpresa, abbassò il capo e mormorò, “un altro.”

 

“Un altro?” ripeté, a dir poco stupito.

 

Ma almeno Valentina rise di nuovo.

 

“Sei l’unico padre al mondo che pare quasi deluso che alla figlia possa piacere un maschio.”

 

“A parte che dipende dal maschio, Valentì, ma poi… a me le novità mi destabilizzano, lo sai. Ci metto un poco a digerirle.”

 

“Un poco? Un sacco!” lo sfottè Valentina, dandogli un pizzicotto al fianco.

 

Ma non poteva negarlo.

 

“Ma questo maschio… cioè… ricambia?”

 

“No, non penso: è un amico e basta. E proprio per questo mi è toccato dirgli la verità, cioè che sono attratta da lui. Perché attratta sì… innamorata non lo so proprio.”

 

Deglutì e Valentina gli sorrise.


“Che c’è? Ho superato il limite di tolleranza del padre moderno?”

 

Scosse il capo e la abbracciò.

 

“Valentì, pure se certi particolari… insomma… preferisco non pensarci, ma… devi soltanto darti del tempo e lo capirai, ne sono sicuro. Alla fine lo capisci, da quanto sei disposto a fare per avere una persona nella tua vita. Da che emozioni ti dà, a parte l’attrazione fisica, che cosa ti fa provare nella pancia e nello stomaco. Quindi prenditi tempo e pensaci bene, mi raccomando!”

 

La sentì annuire sul suo petto, mentre lo stritolava un’altra volta, che le sue costole protestavano.

 

“E invece tu, papà?”

 

“E invece io cosa?”

 

“Niente donne all’orizzonte?”

 

Per poco non gli prese un colpo, anche perché lo stava fissando in un modo che era tutta Imma quando faceva gli interrogatori.

 

“Ti… dispiacerebbe così tanto se ce ne fosse una?”

 

“Beh… non so… l’importante è che sia meglio di Cinzia. Anche se non ci vuole molto.”

 

Gli scappò da ridere e disse, “ah, è meglio sicuro.”

 

E fu in quell’istante che capì di essersi incastrato da solo.

 

“Ah! Ma quindi c’è!”

 

Tra come lo stava guardando ed il dito che gli puntava al petto, sapeva di non poter mentire.

 

“S- sì, una persona c’è. Ma… è una cosa delicata perché non dipende soltanto da me. Pure lei ha una storia familiare alle spalle, complicata. Anche se mo è separata, tranquilla,” si affrettò a specificare, perché Valentina aveva già uno sguardo omicida.

 

“Basta che non ti prenda in giro. Se no dovrà vedersela con me!” proclamò infatti, in un modo che gli fece temere seriamente per l’incolumità di Rosa, “e comunque appena puoi voglio sapere chi è, assolutamente. E conoscerla, per vedere se merita il sigillo di approvazione.”

 

“Appena si può lo farò, Valenti,” la rassicurò, con un sospiro, sapendo già che difficilmente sarebbe andata bene.

 

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“Allora, signor?”

 

“Raniero.”

 

Almeno stavolta lo avevano spedito non da un andrologo, ma da un ginecologo.

 

“E la sua compagna è?”

 

“Yulia,” rispose Mariani, seduta accanto a lui, fingendo un forte accento slavo.

 

“Diciamo che… che non è la mia compagna. Io sono sposato.”

 

“Come sa c’è il segreto professionale, e non è certo mio compito giudicare le vite extraconiugali delle mie pazienti. Se è qui immagino il figlio sia suo?”

 

“In un certo senso.”

 

Il ginecologo lo guardò, interrogativo.

 

“Senta… mia moglie è sterile e… ed è da molto che cerchiamo di avere un bambino ma… non è possibile. E quindi… Yulia si è offerta di lasciarci il suo e di farlo risultare come figlio naturale mio e di mia moglie. E… mi hanno detto che… che lei avrebbe potuto aiutarmi, in proposito.”

 

Il ginecologo parve allarmato.


“Non so chi le abbia detto una cosa del genere, ma è illegale e contrario ad ogni etica professionale e morale e-”

 

“Coraini. Coraini mi ha fatto il suo nome,” lo interruppe, prima che si mettesse anche a nominare madonne, santi e bambinelli.

 

Il dottore si bloccò, guardandolo con interesse ma anche con sospetto.

 

“Devo… devo fare una verifica con… con il nostro comune amico.”

 

“Ma certo. Non c’è problema,” lo rassicurò, sperando che dal microfono gli altri stessero sentendo tutto e che riuscissero a deviare il telefono del medico, intercettando il messaggio prima che giungesse veramente a Coraini.

 

Qualche secondo che gli parve infinito, mentre si guardava con Mariani, pronti ad entrare in azione, in caso qualcosa fosse andato storto.

 

Ma il ginecologo sorrise, affabilissimo, e trattenne a fatica un sospiro di sollievo: ce l’avevano fatta.

 

“Va bene. Allora… allora possiamo fissare un cesareo, per sicurezza, un poco prima della data stimata del parto. Poi faremo risultare che Yulia abbia abortito e invece che sua moglie abbia partorito. Va bene? La prossima volta però dovete venire anche con lei. Ora se volete posso visitarla, per capire come procede la gravidanza.”

 

Mariani si mise d’istinto le mani sulla pancia finta e lo guardò.

 

“Guardi, per la visita ora non abbiamo tempo, anche perché mia moglie sarà impaziente di ricevere la bella notizia. Se fissiamo un appuntamento tra un paio di settimane?”

 

Il ginecologo annuì e prese l’agenda, dando dati e disponibilità.

 

Si accordò su una a caso, dopo aver consultato l’agenda sul cellulare, per non destare sospetti.

 

Forse finalmente c’erano quasi.

 

Avevano due settimane di tempo per dare un’occhiata ai registri della clinica, vedere se ci appariva il nome di Melita, ed incastrare il ginecologo e tutti gli altri, prima che mangiassero la foglia.

 

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“Valentina!”

 

Le saltò un battito, anche perché ebbe un senso di déjà vu tremendo.

 

Carlo era di nuovo lì, nello stesso posto, tanto che si chiese se stesse sognando.

 

Ma no… alcune cose erano diverse: lui sembrava imbarazzato, imbarazzatissimo.

 

Si sentì avvampare.


“Senti, Valentina, possiamo parlare?”

 

“Vale, noi andiamo.”

 

Le sue amiche non persero tempo, come sempre, e si dileguarono, lasciandoli soli.

 

“Facciamo due passi?” le propose e lei annuì.

 

Di sicuro non voleva affrontare quel discorso tra i corridoi affollati.

 

Uscirono dal portone principale e si incamminarono per il parco lì vicino, mentre lei teneva lo sguardo a terra e le mani piantate nelle tasche, per cercare di non fare del tutto la figura della scema.

 

Ma camminavano, camminavano, camminavano e lui non si decideva a parlare e non ne poteva più e….

 

“Come mai sei venuto?” gli chiese infine, cedendo al fare la prima mossa, “non pensavo che ti avrei più rivisto, dopo tutto l’imbarazzo dell’altra volta.”

 

“Ma se non mi hai neanche dato il tempo di reagire, Vale, e sei scappata via!”

 

Sospirò: era vero, effettivamente.

 

“Va beh… e pure se non fossi scappata, che sarebbe cambiato? Che ti ho visto che eri in panico.”

 

“Ero sorpreso, non in panico,” ribatté lui, deciso, fermandosi di colpo, tanto che toccò anche a lei fermarsi e guardarlo, “non… non ci avevo mai neanche pensato a… a te e a me… in quel senso, anche perché lo sapevo che eri impegnata con Penelope e pensavo fossi felice con lei. Ma… ma in questi giorni non ho fatto altro che pensare a quello che mi hai detto e… penso che anche tu mi piaci, e pure tanto. E non solo come amica.”

 

Sentì tutto il sangue finirle nelle guance, che le andarono a fuoco.

 

Non se lo aspettava, non se lo aspettava proprio.

 

E mo che faccio?

 

Ci fu un attimo lunghissimo di silenzio e poi si sentì accarezzare una guancia e le labbra di Carlo a pochi centimetri dalle sue. Ma lo spinse indietro.

 

“Ho corso troppo?” domandò lui, imbarazzato.

 

“No, cioè sì… cioè… io sono ancora fidanzata con Penelope e… e devo chiarirmi le idee e chiarirle con lei, prima di…. Non voglio fare le cose di nascosto, alle sue spalle, non dopo tutto quello che ho passato con il divorzio dei miei.”

 

“Capisco,” sospirò lui, scompigliandosi un poco i capelli neri, “va bene, ti lascio il tempo che ti serve. Però… possiamo almeno darci un bacio? Per capire se ha senso fare tutto sto casino o no. Perché se non funziona quello… non funziona nemmeno il resto.”

 

Gli sorrise ma c’era qualcosa in lei che la faceva esitare, “sarebbe comunque un tradimento.”

 

“Ma no, sarebbe più… un test. Non è che dobbiamo fare chissà che limone.”

 

Le venne da ridere.

 

“Però… l’innamoramento non c’entra solo con l’attrazione fisica.”

 

“Lo so, ma… se manca quella… difficile che da un’amicizia si passi ad altro, no? Almeno un dubbio ce lo togliamo.”

 

Aveva ragione. Era inutile scombinarsi la vita se poi… se poi era stata tutta una suggestione magari.

 

Ignorando la fitta di senso di colpa, lo afferrò per le guance ed appoggiò le labbra sulle sue, in un bacio tenero, delicato, che le lasciò una sensazione strana dentro. Come un filo invisibile che le tirava lo stomaco. Ma era anche diverso da quello che provava con Penelope, anche se non avrebbe saputo definire come e se in meglio o in peggio.

 

Si staccò, prima di approfondire troppo.

 

“E allora?”

 

“E allora per me la prova è superata, Vale, in pieno.”

 

“Mica è un esame!” rise, cercando di nascondere l’imbarazzo, anche se le faceva pure molto piacere, “allora… allora parlo con Penelope e… e ti farò sapere che cosa abbiamo deciso. Mo forse è meglio se torno a lezione.”

 

Carlo annuì e, dopo averla salutata con la mano, iniziò ad avviarsi nella direzione opposta a dove erano venuti.

 

Sospirò: la sua vita era veramente un casino.

 

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Destra. Sinistra. Destra. Sinistra. Schiena. Destra. Sinistra. Destra. Sinistra. Schiena.

 

Spalancò gli occhi e li sollevò al soffitto.

 

Era inutile: per quanto ci si sforzasse non trovava una singola posizione comoda. E non c’entrava il materasso del divano letto, lo sapeva bene. Aveva dormito su letti ben peggiori tra addestramenti, caserme e poi gli squallidi alberghetti che aveva dovuto frequentare negli ultimi mesi.

 

Si tirò seduto e poi in piedi, decidendo di andare in bagno e dopo magari leggersi qualcosa riguardante il caso.

 

Almeno distraendosi e stancandosi forse sarebbe riuscito a tornare a dormire.

 

“Che devo fare?”

 

La voce di Imma lo raggiunse all’improvviso, anche se la porta della stanza da letto era chiusa.

 

Pensando che lo stesse chiamando, che magari avesse sentito i passi, si avvicinò ma un “Ottà, che devo fare?” lo fece arrestare.

 

No, non parlava con lui.

 

“Ottà… lo so, lo sappiamo tutte e due che papà tuo tiene la testa dura. Ma… ma non so più che fare, ormai. Se… se non riesce a perdonarmi… dovrò capire come fare ad andare avanti senza di lui.”

 

Sentirle pronunciare quelle parole fu come un gancio dritto all’ombelico. Ottavia miagolò in un modo straziante.

 

“Ottà, lo capisco… manco io mi riesco ad immaginare una vita senza di lui. Ma… forse piano piano mi tocca iniziare ad abituarmi all’idea. E pure tu, anche se, come minimo, vorrai stare con papà, che ti conosco.”

 

Era ormai in apnea, mentre Ottavia si esibiva in un altro miagolio triste.

 

“E se no… che ne pensi di Matera? Perché… forse per me avrebbe più senso tornarci, se a Roma non ci sta più niente per me, a parte Valentina, che ormai tiene la vita sua. E poi… e poi a Roma non ci posso più lavorare, in ogni caso.”

 

Era come se il cuore gli si fosse spaccato in due: il solo pensiero di Imma a Matera, da sola, senza di lui….

 

Il primo istinto fu quello di aprire la porta, raggiungerla, e dire che a Matera ci sarebbero tornati sì, ma insieme.

 

Ma strinse la mano a pugno, subito prima di raggiungere la maniglia.

 

Imma lo aveva implorato di essere sicuro, prima di riavvicinarsi a lei. E la verità era che non sapeva come avrebbe reagito, se fossero stati di nuovo troppo vicini.

 

Non voleva peggiorare ancora di più le cose: sarebbe stata la fine.

 

Con un sospiro, si obbligò ad andare in bagno, rassegnato ad un’altra notte semi insonne.

 

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“Di qua!”

 

Gli fece un cenno per confermargli di avere capito e si mosse, appena dietro di lui, voltandosi spesso per guardargli le spalle, come ai vecchi tempi.

 

Ogni tanto si sentiva qualche lamento e qualche rumore di passi, ma in lontananza. Per fortuna gli archivi erano lontani dai reparti.

 

C’era un qualcosa di spettrale negli ospedali e nelle cliniche di notte, tra il puzzo di malattia e di cibo scadente, coperto da litri di disinfettante, che arrivava fino a lì, dove i malati, in teoria, non transitavano mai.

 

Ranieri era veloce come lo ricordava, ma prudente, più di quanto ricordasse. Forse l’esperienza.

 

D’improvviso, una lama di luce, una torcia.

 

Gli afferrò la mano alla cieca, pure di spalle, e lui si fermò. Capì dal respiro che, dopo essersi voltato, l’aveva vista anche lui. Qualcuno li stava raggiungendo, un custode, probabilmente. Si guardò intorno, poche stanze, probabilmente chiuse e che non avrebbero avuto il tempo di scassinare. L’ascensore era da escludere: c'era sicuramente una telecamera.

 

E poi, come un miraggio, il simbolino di un triangolo con sopra un cerchio e di un altro cerchio con sotto un triangolo, stavolta rovesciato.

 

Strattonò il braccio di lui, che non oppose resistenza, e si lanciò, alla massima velocità possibile senza farsi udire, verso il bagno.

 

Aprì la porta e la chiuse alle loro spalle, mettendocisi addosso di peso. E pure lui fece lo stesso, braccio contro braccio, spalla contro spalla.

 

Il rumore di passi si fece vicinissimo e poi, piano piano, sparì.

 

C’era mancato poco.

 

Lo guardò e lo vide che le sorrideva, orgoglioso, come ai vecchi tempi.

 

Ma lei non era più fresca di laurea e dei vecchi tempi non era rimasta che la cenere.

 

Si staccò dalla porta, rendendosi conto di quanto fossero vicini, e lui la riaprì.

 

Con cautela, schiena contro schiena, arrivarono fino a dove, almeno secondo le piante catastali, doveva essere l’archivio.

 

Ed infatti lo trovarono. Ed aveva un accesso con una chiave magnetica, come previsto.

 

Ranieri estrasse dal marsupio una macchinetta ed una carta neutra, e la collegò al lettore, mentre lei controllava che non arrivasse nessuno.

 

Certe volte, tra ladri e sbirri non c’era poi tutta quella differenza.

 

Un beep che le sembrò assordante, in quel silenzio spettrale, e poi uno scatto, annunciarono che la porta era aperta. Assicurandosi che il passamontagna fosse ben calzato, inserì uno specchietto, cercando di capire dove stesse la telecamera.

 

Per fortuna, una era sopra alla porta, e bastò un tocco con un marchingegno apposito per mandarla temporaneamente in tilt. L’altra era più distante, ma abbastanza vicina da lanciarci un peso, per farla spostare. Ed infatti, con un clack, la telecamera si abbassò. Cercò di calcolare quanto fosse grande l’angolo cieco, ma per sicurezza si abbassò e strisciò per terra, e sentì che Ranieri la seguì, fino ad essere al riparo, dietro le scaffalature.

 

Si tirò in piedi, le ginocchia che si lamentarono molto di più dell’ultima volta che aveva dovuto farlo: non aveva più l’età per quelle cose.

 

Con un cenno, si divisero gli scaffali, cercando di capire come fossero archiviati i documenti.

 

Per fortuna era un semplice ordine alfabetico, e presto fu davanti alla R di Russo. Ranieri la raggiunse e fu lui il primo ad individuare il nome Melania.

 

Appoggiata alla sua spalla con la torcia, per vedere meglio, lesse la cartella clinica, che citava un aborto spontaneo all’ottavo mese di gravidanza. Scattò due foto, che non si sapeva mai, e rimise tutto al suo posto.

 

E poi fece un altro cenno a Ranieri, che si mise in ginocchio - purtroppo non per chiederle scusa per tutto quello che le aveva fatto passare - e lei piantò un piede sopra le mani di lui, che le diede la spinta per arrivare in cima all’ultimo scaffale in fondo, accanto al muro. Ci piazzò una cimice ed una telecamera.

 

Lo stesso fecero in un altro paio di punti.

 

Si avvicinò alla telecamera spostata, la bloccò con la scarica elettrica e la rimise più o meno come l’avevano trovata.

 

E poi uscirono rapidamente e la porta si richiuse con un altro beep.

 

Le telecamere si sarebbero riattivate di lì a poco, ma probabilmente sarebbe sembrato semplicemente un breve sbalzo di corrente.

 

Si affrettarono a ripercorrere la strada fatta, a ritroso, piazzando di tanto in tanto qualche cimice qua e là.

 

La finestra dalla quale erano entrati le parve un miraggio e, dopo una rapida occhiata che non arrivasse nessuno, saltò fuori, atterrando nell’erba del giardino.

 

Ranieri la raggiunse con un tonfo ed un mugolio di dolore che la preoccuparono un attimo, ma le fece segno che andava tutto bene.

 

Del resto, se lei non c’aveva più l’età, figuriamoci lui.

 

Lo vide richiudere la finestra e poi corsero verso il muro perimetrale, ripercorrendo i passi già fatti, e, di nuovo, lui la aiutò ad issarcisi sopra e lei gli porse la mano per aiutarlo a salire.

 

Un altro attentato alle ginocchia e poi corse con quanto fiato le era rimasto fino al furgone con il quale erano arrivati, sentendo i passi inconfondibili di lui che si muovevano all’unisono con i suoi.

 

Salì dalla parte del guidatore, mise in moto e, come lui fu salito, partì, non sgommando, che avrebbero fatto rumore, ma ad una velocità comunque discreta, tanto che, dopo pochi minuti, arrivarono alla strada provinciale. Accostò alla prima piazzola, sentendo il bisogno di riprendere fiato.

 

Lo guardò, la faccia ed i capelli madidi di sudore, dopo essersi levato il passamontagna.

 

Si rese conto solo in quel momento che ce l’aveva ancora addosso e se ne disfò subito, un brivido che le corse lungo la schiena per il sudore gelido che le scese lungo il collo.

 

Le era mancato tutto quello, tantissimo, più di quanto avrebbe mai potuto ammettere.

 

E sapeva perfettamente che era lo stesso per lui, tanto che gli si trovò stretta addosso, in un abbraccio impregnato di sudore, adrenalina e liberazione, senza capire chi avesse ceduto per primo.

 

Ma ne era valsa la pena: c’erano quasi! C’erano quasi, finalmente!

 

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Spostò lo sguardo dallo schermo, provando quel moto di disagio che si sente quando si assiste a qualcosa di intimo e privato, che tale avrebbe dovuto rimanere.

 

Si voltò verso di lui e trovò quei benedetti e maledetti occhioni che la fissavano, tra la tenerezza ed il sollievo.

 

D’istinto, si proiettò in avanti e lo abbracciò fino a farsi male alle spalle e pure lui ricambiò nella stessa maniera.

 

“Ci siamo quasi, hai visto che ce l’abbiamo fatta?” gli sussurrò, vincendo l’arrochimento inesorabile della voce, dopo tutte quelle emozioni, tutte insieme.

 

“Sì…” il fiato di lui nell’orecchio le provocò solletico ed un brivido, “ed è tutto merito tuo, dottoressa.”

 

“No, Calogiuri. Il merito è in gran parte tuo e pure di tutti gli altri. Lavoro di squadra,” gli ricordò, accarezzandogli i capelli.

 

“Ma è che… è che quando sono con te… sento che non c’è niente che non posso fare.”

 

Se già dall’abbraccio si stava sciogliendo, era proprio liquefatta mo.

 

“Pure io, Calogiù, pure io,” ammise, prima che la voce la abbandonasse del tutto, deglutendo commozione e tutti quei sentimenti che lui le provocava.

 

Rimasero per un attimo così, senza parlare, appiccicati.

 

Ma poi, piano piano, mano a mano che sentiva il fiato di lui sul collo e i muscoli - che stava recuperando - sotto alle dita, si rese conto di che ora fosse e, soprattutto, di in quale posizione fossero.

 

Erano le tre di notte passate e, tra il freddo e la lunga attesa, Calogiuri aveva aperto il divano letto per assistere all’operazione più comodamente, sotto le coperte.

 

E quindi mo si trovava avvinghiata a lui, a letto.

 

Sapeva per esperienza quanto fosse pericoloso.

 

Quindi si sforzò di staccarsi, anche se tutti i recettori nervosi protestarono, reclamando a gran voce quel calore che aveva perso, il freddo dell’aria amplificato cento volte da quello che stava dentro di lei.

 

Gli fece un accenno di sorriso, per stemperare l’imbarazzo, piazzò i piedi sul pavimento e gli disse, “allora buonanotte, Calogiuri.”

 

Le dita sul polso le fecero quasi fare un salto. Lo guardò, stupita.

 

“Perché… perché non rimani qua a dormire?”

 

Dire che fosse sorpresa sarebbe stato un eufemismo.

 

“Soltanto se ti va, ovviamente. Se non te la senti lo capisco, ma… vorrei dormire insieme a te. Dormire e basta. E vedere come va. Perché… mi manca tanto, tantissimo.”

 

Il nodo in gola non se ne voleva andare, anche perché la saliva si era azzerata.

 

Le ci volle un attimo per riuscire ad articolare, di fronte a quelle armi improprie che erano gli occhi di lui, “qua sul divano?”

 

Lui annuì.


“Meno pressione?” gli chiese, con un sorriso, e lui confermò di nuovo.

 

Piano piano, sollevò le coperte e ci si rimise sotto, cercando di allentare la tensione con un, “se domani mi sveglio col mal di schiena, mi senti e sono fatti tuoi!”.

 

Lui sorrise e lei non potè fare altro che ricambiare.

 

E poi si distese, dandogli la schiena perché non era sicura di riuscire a reggere ancora a lungo l’essere occhi negli occhi.

 

Anche lui si sistemò e riusciva a percepire il calore di lui, centimetro per centimetro, pure senza che si toccassero minimamente.

 

“Ahia!” esclamò, quando qualcosa le piovve in testa.

 

Alzò gli occhi ed incrociò quelli gialli e felini di Ottavia che, facendo le fusa in un modo schifoso, si stava appollaiando nello spazio tra le loro teste.

 

E quindi si voltò, verso di lei e Calogiuri che pareva molto divertito, ma pure un po’ toccato dal gesto.

 

“Ottà, se vuoi dormire con noi, sui piedi, lo sai,” le fece cenno e la micia, con una stiracchiata ed un miagolio regali, zompettò fino ad acciambellarsi dove le era stato indicato.

 

Si scambiò un sorriso con Calogiuri e poi serrò gli occhi, perché il cuore le stava già andando all’impazzata.

 

“Posso…?”

 

Era stata solo una parola, due sillabe sussurrate, ma che le fecero comunque riaprire gli occhi, mentre sentiva la mano di lui che le tremava sul fianco.

 

“Se mi chiedi di nuovo il permesso, giuro che ti ammazzo, Calogiuri!” rispose, commossa e sollevata, e si trovò di nuovo stritolata tra le sue braccia, e poi, dopo qualche istante, appoggiata sul suo petto, in quella che era da sempre una delle loro posizioni preferite per dormire.

 

Avrebbe voluto poterci rimanere per sempre. Ma sapeva benissimo che non era ancora tutto a posto, anzi.

 

Ma si sarebbe goduta quei momenti, fino in fondo, pure se fossero stati gli ultimi.

 

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Lanciò un’occhiata alla sua destra, per vedere se arrivavano macchine da quel lato ed incrociò gli occhi stanchi di Ranieri, che però avevano pure un qualcosa di strano.

 

“Siamo quasi arrivati. Ti lascio davanti all’albergo o preferisci, per sicurezza, qualche isolato più in là?” gli chiese, mentre cercava di maneggiare il furgone tra le stradine romane.

 

Per fortuna a quell’ora erano praticamente deserte.


“Perché invece non ci andiamo a bere qualche cosa e poi a fare colazione? Come ai vecchi tempi.”

 

Le ci mancò poco di inchiodare, tanto grande fu la sorpresa ed il colpo al cuore.

 

Da quando si erano rivisti non aveva mai osato proporre nulla di simile e si chiese il perché e perché in quel momento.

 

E che importa alla fine? Tanto non cambia nulla.

 

Per fortuna, la voce della sua coscienza era decisamente più saggia di qualche anno prima.

 

“Dai vecchi tempi sono cambiate tante cose. Non mi pare il caso,” rispose quindi, continuando a guardare la strada.

 

“Sono cambiate molte più cose di quello che pensi, Irene, e proprio per quello sarebbe il caso di berci qualcosa insieme e parlare.”

 

Sospirò, stringendo il volante e fissando l’incrocio che stava per arrivare.


“Prima chiudiamo questo caso, poi puoi provare a ripropormelo. Ma non ti prometto niente.”

 

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“Fermi tutti! Carabinieri! Non muovetevi!”

 

Si guardò intorno, nella reception della clinica: lei era entrata dalla porta principale, altri agenti erano appostati vicino a quelle secondarie.

 

“Che significa tutto questo?” chiese un uomo sulla sessantina, uscito da un ufficio dietro il banco delle receptionist, che parevano spaventatissime.

 

Uno dei soci della clinica.

 

“Significa che dobbiamo fare un’ispezione e nessuno si deve muovere. Abbiamo regolare autorizzazione. Quindi tutti fermi dove siete finché verrà il vostro turno di interrogarvi.”

 

Era stato Mancini a parlare, subito dietro di lei, e le fece un cenno verso le scale.

 

Lei annuì e, lasciando gli uomini a presidiare entrate - e uscite - salirono insieme, dirigendosi verso il secondo piano, dove c’era l’ufficio dello stimatissimo ginecologo.

 

Procedettero fianco a fianco per un paio di metri, finché giunsero di fronte all’ufficio. Rimanendo di guardia con la pistola spianata, calciò la porta e…

 

E niente. L’ufficio sembrava vuoto.

 

Per accertarsene, fece un paio di passi all’interno e stava per voltarsi per ritornare in corridoio quando sentì qualcosa di metallico addosso alla testa e qualcosa che le tirava la giacca della divisa d’assalto.

 

Notò lo sguardo spaventato di Mancini, mentre si trovò addosso a qualcosa, anzi a qualcuno, che la teneva stretta al collo.

 

E quella che ora aveva puntata alla tempia era una pistola.

 

“Dottor Gasparini, non faccia sciocchezze,” disse Mancini, con un tono calmo e conciliatorio tipico di quel genere di situazioni.

 

Quel bastardo si era nascosto dietro la porta!

 

“Se mi fate passare non succederà niente, se no… la ragazza qua si becca un bel proiettile. Yulia, eh? Avrei dovuto capirlo che mi volevate fregare!”

 

“Il maresciallo stava soltanto facendo il suo lavoro, come tutti noi. Ma che pensa di ottenere facendo così? Pensa realmente di riuscire a scappare a lungo? O che i suoi amichetti la proteggeranno? Quando ormai è stato scoperto e c’è rischio che parli? Metta giù quella pistola e si consegni, che conviene anche a lei.”

 

Provò un moto di gratitudine e di ammirazione per Mancini, per come stava gestendo la situazione, ma il dottore non mollò, continuando a tenerla sotto tiro e stringendole ancora più il collo, forse per il nervosismo.

 

Fece un cenno a Mancini perché, se andava avanti così, avrebbe faticato a respirare. Con gli occhi guardò verso la pistola e con la mano fece dei gesti, verso l’alto e verso il basso, sperando che Mancini capisse e distraesse il medico.

 

“Dottore, le ripeto, facendo così non solo peggiora la sua posizione, ma mette a repentaglio la sua vita. Il reato che ha commesso lei è grave ma non a livello di un rapimento o di un omicidio. Non passerebbe la vita in carcere. Perché buttarla via così? Mi dia la pistola.”

 

Fu un attimo, un attimo di esitazione in cui, per un istante, forse senza nemmeno rendersene conto, la punta della canna della pistola si levò dalla sua tempia e ne sentì il fianco, ancora freddo.

 

Con tutta la forza che aveva, spinse in alto il gomito del dottore, poi gli pestò il piede, mentre si voltava e gli menava un pugno alle parti basse, seguito da un calcio, il rumore metallico della pistola che cadde a terra, insieme a Gasparini.

 

E poi un boato: era partito un colpo.

 

Si guardò e guardò Mancini, preoccupata, controllò i piedi e a terra, ma, per fortuna, vide il bossolo sul pavimento accanto alla porta ed il proiettile piantato nel muro.

 

C’era mancato poco che prendesse Mancini.

 

Gasparini provò ad alzarsi ma lei lo ributtò a terra e fu in quel momento che ci fu un movimento e Mancini si mise tra lei ed il dottore, bloccandolo per le spalle, e vide il pugno che si alzava, pronto a colpire.


“Dottore!” lo fermò, tenendogli la mano con tutta la forza che aveva.

 

Mancini si irrigidì e poi guardò prima il medico e poi lei, il viso che gli si ricomponeva in una maschera professionale.

 

“Ha ragione, Mariani. Sta bene?”

 

“Sì, sì. Tutto bene. Lei, dottore?”

 

“Starò meglio quando questo gentiluomo sarà in carcere. Mi aiuti a metterlo su una sedia, che dobbiamo interrogarlo.”

 

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Espirò il fiato che stava trattenendo da quando Mariani era stata presa, mentre vedeva, attraverso le telecamere che Mariani e Mancini avevano addosso, che il caro dottore stava venendo fatto accomodare in modo molto poco cerimonioso sulla sua stessa sedia, dietro quella scrivania che probabilmente non avrebbe mai più rivisto.

 

Quello che aveva fatto, a parte essere reato, era anche da radiazione, ma come minimo.

 

Vide Calogiuri muoversi leggermente e si guardarono. Era ancora più pallido del solito, sicuramente si era preso uno spavento grosso almeno quanto il suo.

 

“Menomale che Mariani è stata pronta, per un attimo ho pensato al peggio,” ammise, mentre si sfregava gli occhi azzurri ed arrossati.

 

“Mariani è bravissima. Però pure Mancini… a fare il suo lavoro è bravo, questo glielo dobbiamo riconoscere,” rispose e lo vide fare una smorfia di disgusto ma poi annuire.

 

“Sì. Che poi… visto come mena… se pure gli tirava un paio di pugni al medico, per una volta che poteva essere utile...”

 

Ad Imma venne da ridere da un lato, ma poi si bloccò, gli prese la mano destra, lo guardò e gli disse, “quando ti ha tirato quel pugno e poi… quando ho visto che livido ti aveva lasciato… lo avrei picchiato io. Mi credi?”

 

Lui ci mise un attimo ma poi annuì con un sorriso agrodolce.

 

Sapeva che era un campo minato quello, ma non potevano evitare l’argomento Mancini per sempre, specie se volevano superarlo.

 

“Mi confermate che state trattenendo tutti e che avete tolto i cellulari?”

 

La voce di Mancini, che proveniva dal pc, li fece voltare nuovamente verso lo schermo.

 

Lo videro annuire, mentre parlottava con il resto della squadra che era in collegamento tramite auricolare e videocamera. E poi si piazzò di fronte al dottore e Mariani si mise accanto a lui, dopo aver ammanettato il medico alla sedia.

 

“Allora, a parte… Yulia… per la quale abbiamo la prova registrata che lei era più che disponibile ad essere complice in una compravendita di esseri umani, sappiamo che questa… pratica non le era nuova anzi. Vogliamo che ci racconti tutto quello che sa su Melania Russo e sulla sua di gravidanza e di parto.”

 

“Non… non so di cosa state parlando, non ricordo chi sia,” rispose il medico, balbettando e parendo non più solo preoccupato ma proprio terrorizzato.

 

“Dottore. Ci sono tanto di cartelle cliniche che testimoniano che la Russo è stata una sua paziente, me lo hanno appena comunicato i ragazzi. Pure se queste cartelle dichiarano il falso, cioè che ha abortito all’ottavo mese. Inoltre Melania Russo, in arte Melita, è stata al centro della cronaca nera e processuale negli ultimi mesi. Dubito seriamente che qualcuno che l’avesse conosciuta prima, abbia poi potuto scordarsi di lei, dopo che è stata in tv e sui giornali per settimane.”
 

“Ahhh… quella Melania…” provò a svicolare il medico, con una recitazione ben poco credibile, “sa… con tutte le pazienti che ho… e comunque confermo che ha abortito, purtroppo, non c’è stato niente da fare.”

 

Sentì Calogiuri sbottare in una specie di riso amaro.

 

“Sì, è proprio una merda, Calogiù,” concordò, scuotendo il capo, “alla faccia del giuramento di Ippocrate!”

 

“Senta, Gasparini, parliamoci chiaro,” intervenne Mariani, con un piglio da rimanerne ammirata persino lei, “abbiamo referti medici che testimoniano come la Russo, oltre ad avere il segno di un cesareo, abbia allattato. E per diversi mesi dopo la data del presunto aborto. E di sicuro non si è messa a fare la nutrice. Quindi o ci dice la verità o, se va avanti così, non se la cava più.”

 

“Infatti. Tra il tentato rapimento e tentato omicidio di Mariani, più il falso in atti pubblici, più il traffico di bambini… se non collabora, la aspetta una vita in carcere. Ci dica che fine ha fatto quel bambino o quella bambina. Questa è la sua ultima possibilità di collaborare ed avere una pena più mite, oltre che la protezione da… dagli amici suoi. Tanto prima o poi ci arriveremo, perché non può avere fatto tutto da solo. Quindi qua chi parla prima….”

 

“Va bene, va bene, parlo.”

 

Ebbravo Mancini! - pensò, pur non potendolo dire ad alta voce, che non era il caso di tirare troppo la corda con il gelosone.

 

“Era… era un bambino, un maschio. Anzi è, perché credo sia ancora vivo. Ma io l’ho lasciato a… a Melita e al fotografo.”

 

“Dottore, può chiedere al medico se sa se il padre fosse Coraini?” domandò, accendendo il microfono, e Mancini le fece un cenno col capo.

 

“Il padre quindi era Coraini?” domandò Mancini per lei ed Imma trattenne il fiato.

 

“Io test del DNA non ne ho fatti ma… ma non credo. Il bimbo aveva tratti più ispanici ed era più scuro sia della Russo che di Coraini con le lampade. Figuriamoci senza. Pareva… mulatto.”

 

Un altro sguardo con Calogiuri e stavano pensando la stessa cosa: forse Melita il bimbo lo aveva avuto da qualcuno di Maiorca allora. I tempi potevano starci.

 

“Dottore, può chiedere se sa dove si trovi ora il bambino?” disse quindi di nuovo nel microfono.

 

“Dov’è ora questo bambino?”

 

“Non… non lo so… l’unico che può saperlo è Coraini e gli amici suoi.”

 

Sospirò: il medico era un osso duro, ma c’era qualcosa che non tornava.


Quando Mancini lo aveva minacciato che il primo che avrebbe parlato sarebbe stato l’unico ad avere sconti di pena, Gasparini si era affrettato a cantare, e pure tutta un’aria intera.

 

Qualcun altro in quella clinica sapeva e magari sapeva pure di più.

 

“Dottore, può chiedere se qualche collega si è mai occupato del bimbo dopo? Magari qualche pediatra. Un neonato le visite le deve comunque fare, per mesi, e Melita in ospedale non ci poteva andare.”

 

Vide Mancini sorridere pure attraverso lo schermo. Guardò Calogiuri, temendo un’altra reazione stizzita, ma pure lui la stava guardando di nuovo in quel modo, che manco la Madonna della Bruna meritava così tanta devozione.

 

“Ma qualcuno di questo bambino deve essersi occupato dopo che è nato. Di tutte le visite. Chi è? Ce lo dica, Gasparini, prima che lo veniamo a scoprire da soli, che qua dubito abbiate un reparto di pediatria immenso. Allora?”

 

A Gasparini cascò il capo, quasi si accasciò sulla sedia.


“Laura. Cioè… la dottoressa Zoffi.”

 

Udì Mancini trasmettere ordini ai ragazzi all’ingresso e, dopo poco, lo vide andare verso la porta, facendo un cenno a Mariani che lo seguì.

 

“Ma… ma mi lasciate qui?” domandò il medico, in panico.

 

“Tra poco arriverà un altro agente a… a farle compagnia, Gasparini. Noi intanto verifichiamo quello che ci ha detto e, se non ci ha raccontato delle storie, ha appena fatto l’unica cosa intelligente di tutta la giornata. Anzi, forse di tutta la sua vita.”

 

Ammazza se era incazzoso, Mancini!

 

Del resto, quasi si era preso un proiettile, ma non lo aveva forse mai visto così.

 

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“Allora, dottoressa, lo sappiamo che si occupava lei del bambino di Melania Russo, detta Melita. Il suo collega ha parlato e quindi le conviene collaborare, che qua si va da rapimento e traffico di minori a peggio, se il bambino nel frattempo fosse morto.”

 

La dottoressa, i capelli biondi raccolti in uno chignon e l’aria aristocratica, si tradì con uno sguardo di puro terrore, dietro agli occhiali dalla montatura elegante e sicuramente firmata.


“No, è vivo,” precisò subito e le venne da ridere: ce li avevano, ce li avevano finalmente, erano così vicino a scagionare Calogiuri!

 

Che continuava a guardarla come la Madonna, quando non era concentratissimo sullo schermo.

 

Del resto c’era in ballo la sua vita.


“E dov’è?”

 

“Lo… lo hanno dato ad una coppia che… insomma… che non poteva avere figli.”

 

Le venne un brivido: per quanto lei e Calogiuri avessero tentato di avere un bambino, non riuscendoci, e per quanto quello fosse ancora un argomento estremamente difficile per lei… mai e poi mai sarebbe arrivata a quel punto.

 

A trattare una creatura come un pacco, come una merce di scambio, come qualcosa che si può comprare.

 

“I nomi di questa coppia? Li conosce, immagino, visto che immagino sempre che il certificato di nascita fasullo lo abbia redatto lei.”

 

Era stata Irene, che era giunta da poco sul posto, a fare quella domanda, le braccia conserte ed un’aria forse pure più schifata di quella che doveva avere lei.

 

“S- sì, sì. Sono… è… è complicato.”

 

“Questo lo lasci giudicare a noi. Ce lo spieghi dall’inizio, senza trascurare niente,” la incalzò Irene, non mollando il colpo.


“All’inizio… all’inizio la Russo era intenzionata a tenere il bambino. Veniva lei in visita qui, con il bambino, e c’era sempre anche Coraini o un certo… Mancuso mi pare.”

 

“Chiedi se è Stefano Mancuso,” si affrettò ad ordinare, o quasi, nel microfono e Irene ripetè la domanda.


“Sì, sì, mi pare che si chiamasse Stefano, sì.”

 

Il cugino di Kevin Mazzocca. L’anello che collegava il clan a Coraini e a tutto quel giro di ricatti, rapimenti e chissà che altro.

 

“Quindi all’inizio le visite erano con la Russo. E poi che è successo?”

 

“E poi… ad un certo punto io lei non l’ho più vista. E toccava a me andare a visitare il bambino, a domicilio. Era una casa verso Fiumicino, e di solito c’era sempre o Coraini o appunto Mancuso, quindi pensavo fosse di uno dei due.”

 

“E poi?”

 

“E poi un giorno mi hanno chiesto di fare un certificato di nascita fasullo, predatandolo, ovviamente, fingendo che fosse andato perso in una svista del sistema informatico. E… e dopo di quello sono andata ancora qualche volta a visitare il bambino, da una famiglia ai Parioli. Gianluigi e Maria Giovanna De Angelis. Gente molto ricca, a giudicare dalla casa.”

 

“Dobbiamo andarci, subito! Che se qualcuno sta mangiando la foglia potrebbero essere in pericolo!” esclamò, un’ansia che la prese, quell’ansia che di solito non sbagliava.

 

“Mandiamo subito delle volanti, tranquilla,” la rassicurò Irene, a bassa voce, mentre pure Mancini annuiva.

 

Ma la maggior parte della squadra, degli agenti capaci almeno, stava sui colli e ad arrivare ai Parioli ci avrebbero messo un po’.

 

Loro invece… erano vicini, vicinissimi.

 

Chiuse il microfono e lanciò un’occhiata a Calogiuri che le disse, “Imma….”

 

“Imma niente, Calogiù. Qua c’è in ballo non solo la vita tua ma pure quella di questo bambino. Andiamo a vedere almeno che non stia succedendo niente di strano. Rimaniamo in moto, coi caschi. Va bene?”

 

Lo vide esitare per un istante.

“Almeno in questo ti fidi ancora di me o no?!” lo provocò, disperata e rabbiosa.

 

“Sempre. Ma… ma non voglio metterti in pericolo e io… e io non so se sono in grado di proteggerti, per come sto ora.”

 

“Calogiuri…” intimò ed implorò insieme e lui sospirò ed annuì, alzandosi dalla sedia, infilando il portatile ed il microfono dentro uno zaino, insieme ad altra attrezzatura del mestiere e poi correndo insieme a lei verso l’ingresso.

 

“Andiamo, Calogiuri, veloce!” gli ordinò, mettendosi il cappotto e vedendolo e sentendolo ridere.

 

Come ai vecchi tempi.

 

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Si aggrappò più forte a Calogiuri, che rallentò bruscamente, ben prima dell’incrocio.

 

“Che c’è?” gli chiese, preoccupata, cercando di guardarsi intorno.

 

“Cosa non c’è piuttosto. Traffico. Non ti pare strano? E l’incidente che abbiamo deviato prima…”

 

Un colpo allo sterno.

 

Aveva capito. La cosa grave è che non l’avesse capito prima. La cosa che la rendeva tremendamente orgogliosa era che l’avesse capito lui.

 

Poche strade prima avevano per poco evitato un ingorgo, causato in apparenza da un tamponamento ad un incrocio.

 

Ma questo metodo… non era nuovo. E, sebbene i Parioli fossero un quartiere signorile, c’era troppo silenzio lì intorno. Troppo, per quell’ora.

 

“Calogiuri,” pronunciò e presto trovò i suoi occhi chiari sotto al casco integrale che avevano messo per sicurezza, di più di un tipo.

 

“Imma, è troppo pericoloso, dobbiamo avvisare e chiamare i rinforzi.”

 

“Avvisare, chiamare i rinforzi ed andare a vedere che succede, se la strada è bloccata o altro. Non dico di fare pazzie, Calogiuri, ma almeno possiamo anche dare indicazioni agli altri, prima che arrivino, su cosa fare.”

 

Lo vide esitare, lo sguardo che era un no di quelli che non diventavano sì manco ad ammazzarlo.

 

Sapeva che lo faceva per lei, perché aveva paura per lei.

 

“Calogiuri, abbiamo i caschi integrali, nessuno ci può riconoscere.”

 

Gli occhi di lui finirono sulla sua gonna leopardata.

 

“Va beh… se siamo in corsa chi vuoi che la veda? Anzi, diamo meno nell’occhio, non sembriamo professionisti. Facciamo un giro rapido e cerchiamo un punto da cui riuscire a vedere sta maledetta villa. E ti prometto che, esclusivamente, e soltanto per questa volta, seguirò tutti i tuoi ordini. Va bene?”

 

Il casco si abbassò e lo udì sospirare. E poi si guardarono di nuovo e lo vedeva chiaramente che era tra l’esasperato, il preoccupato e il che devo fare con te?!

 

“Reggiti, forte, dottoressa!”

 

Furono le uniche parole, prima di partire, veloci ma non troppo, come solo Calogiuri sapeva fare.

 

Gli si tenne incollata alla schiena, l’adrenalina a mille, mentre cercava di guardarsi in giro con discrezione. C’erano macchine parcheggiate, pareva tutto normale. Ma poi tre SUV neri con i vetri scuri, accostati male poco più avanti. Si sporse leggermente per leggere il numero civico e mormorò un, “le targhe.”

 

Cercò di sfruttare la sua memoria fotografica al massimo, anche se Calogiuri proseguì oltre, a velocità media.

 

“Ce le hai?”

 

Calogiuri ripetè la combinazione di lettere e numeri, ad alta voce, ed anche lei lo fece, per tenerle a mente, finché ebbero girato un paio di incroci e si fermarono per un attimo, per segnarsele e guardarsi in giro.

 

La villetta aveva un giardino, ma era circondata da mura.

 

“Andiamo in alto, dottoressa, sei pronta? Mi selezioni il numero di Mancini che riferiamo le targhe?”

 

“Agli ordini maresciallo!” lo sfottè, divertita, prendendo il telefono dalla tasca di Calogiuri con una mano e, mentre si reggeva con l’altra, chiamando il contatto più recente.

 

“Dottore, siamo vicino alla villetta dei De Angelis.”

 

Pure con il rumore riuscì a sentire dal brusio che Mancini era incazzoso, incazzosissimo.

 

“Sì, io ed Imma. Non si preoccupi, giriamo alla larga ma abbiamo le targhe di veicoli sospetti e ci sono degli incidenti che bloccano il traffico, all’incrocio tra-”

 

Trattenne un grido quando una buca le fece fare un sobbalzo, stringendosi ancora più a lui, meravigliata ma non stupita di quanto fosse cresciuto, in tutti i sensi.

 

E, anche se non si sarebbe mai fatta dare gli ordini da nessuno nella vita di tutti i giorni, nel lavoro di quelli di Calogiuri si fidava, ciecamente. Aveva un istinto ed una capacità di pensiero strategico non comune, che miglioravano sempre di più.

 

Altro che Garibaldi poteva fare!

 

Intanto che Calogiuri forniva tutti i dettagli a Mancini su come dirigere i rinforzi, arrivarono in una delle strade appena sopra alla villa e Calogiuri fece segno verso un condominio dotato di terrazza.


Non era un quartiere dove era facile farsi aprire con i soliti trucchetti, ma Calogiuri parcheggiò la moto e corse verso il citofono.

 

“Consegna, sushi,” proclamò, levandosi il casco per farsi vedere dalla telecamera.

 

Notò che aveva selezionato un contatto a nome di una donna.

 

Il disgraziato! Aveva imparato bene, aveva imparato! E chissà l’idea del sushi da chi l’aveva presa!

 

“N- non ho ordinato nulla,” rispose la voce di donna dall’altra parte, ma non le parve ostile.

 

“Ma a me hanno dato questo indirizzo e il suo cognome, se non consegno mi danno problemi. C’è qualcun altro qua che abbia un cognome simile? Che magari si sono confusi?”

 

Pure di profilo, riconosceva lo sguardo che c’aveva Calogiuri, quello con gli occhioni al cui confronto Ottavia era una principiante e pure Noemi.

 

“Forse… forse al terzo piano, io sono Rocca, c’è un Rocco. Puoi suonare a lui?”

 

“Non vedo il cognome sul campanello,” rispose, ed effettivamente non c’era.

 

“Forse ha le iniziali o il numero.”


“Non è che mi può aprire almeno? Così gli suono direttamente alla porta o glielo lascio lì?”

 

Di nuovo, lo sguardo implorante.

 

“Va… va bene. Ma per quale servizio di delivery lavori?”

 

Di nuovo con questo benedetto inglese!

 

Calogiuri fece il nome di un noto servizio dal quale anche loro ogni tanto avevano ordinato l’asporto, specie nelle ultime settimane.

 

“E come ti chiami?”

 

“Giorgio. Sono specializzato nelle consegne di sushi, soprattutto. E di fiori.”

 

Dovette tapparsi la bocca per trattenere una risata: quando ci si metteva era altro che tremendo!

 

Pure se era anche una frecciatina nei suoi confronti.

 

“Bene, Giorgio, allora magari la prossima consegna la farai a me,” rispose la signora, civettuolissima.

 

“Magari! Sarebbe un vero piacere!” rispose lui, sornione.

 

E mo non entrare troppo nella parte però! - pensò, perché il ruolo da seduttore ormai gli veniva fin troppo bene.

 

Sentirono il cancello aprirsi e, dopo un saluto alla signora che, sicuramente, stava per ordinare quintali di pesce crudo e fiori, entrarono e presero l’ascensore fino all’ultimo piano.

 

Calogiuri aveva un sorrisetto soddisfatto, forse perché aveva notato lo sguardo un poco geloso di lei.

 

Trovarono una serie di porte, quelle degli attici, e poi una rampa di scale che andavano fino al terrazzo superiore.

 

La porta era chiusa, ma Calogiuri la scassinò con facilità ed arrivarono ad un bel terrazzo signorile, pieno di vasi di fiori, con una jacuzzi coperta in un angolo e con alcune sedie sdraio dove probabilmente i condomini andavano a prendere il sole d’estate.

 

Calogiuri si buttò verso il lato del condominio che dava sulla villa.

 

E poi estrasse dallo zaino il binocolo che si era portato dietro, insieme alla pistola e ad altra attrezzatura.

 

“Che vedi, Calogiuri?”

 

“Guarda,” rispose, passandole il binocolo, mentre lui inforcava la macchina fotografica con lo zoom.

 

“Io vedo tre persone. Tre uomini.”

 

“A me sembrano quattro, dottoressa. Ce n’è uno più dietro, vicino alla piscina.”

 

Controllò ed effettivamente aveva ragione.

 

Bravo Calogiuri!

 

“Che armi hanno in mano?” chiese, perché, che fossero armati e pure con pezzi da novanta, era indubbio.

 

“Mi sembrano dei fucili semiautomatici, di quelli che possono fare da mitraglietta, per brevi momenti.”

 

“Ah però! Ci vanno giù pesanti. Che facciamo?”

 

“A parte le foto? Avvertiamo Mancini ma dobbiamo capire in quanti sono dentro. Queste sono solo le vedette, sicuramente.”

 

C’aveva ragione, c’aveva: su quei SUV… potevano stare pure in quindici, volendo.

 

“Allora chiamiamo Mancini e-”

 

Il colpo di uno sparo le fece mordere la lingua, letteralmente.

 

“Merda!” urlò, e non solo per la lingua, tornando a guardare, ma nessuno degli uomini fuori aveva sparato.


“No, questa è una pistola, Imma, non un semiautomatico. Ed il rumore era attutito. Hanno sparato dentro la casa.”

 

Le parole di Calogiuri non fecero che confermare i suoi dubbi.

 

Lo guardò e vide la frustrazione e la disperazione in quegli occhi che tanto amava, mentre diceva, “qua, ora che arriviamo i rinforzi, rischiamo un massacro e che i testimoni siano tutti morti.”

 

“Calogiuri…”

 

Ma poi lui divenne deciso, decisissimo, e proclamò, “devo andare, Imma. Devo almeno  provare a fare qualcosa.”

 

“Ma sei matto! Quelli hanno i fucili e tu una pistola e manco del tutto carica! E poi nelle tue condizioni-”

 

Si sentì afferrare per le spalle e lo guardò. C’era così tanto dolore ma la decisione non cambiava.

 

“Dottoressa, lo so che tu faresti lo stesso al posto mio. Sei tu che sei voluta venire qua, no? E mo non posso starmene fermo senza fare niente, come non ne sei capace nemmeno tu.”

 

Deglutì ed annuì, perché aveva ragione ma… ma non sapeva se fosse più forte l’ammirazione che provava per lui o la paura di perderlo.

 

“Tu resti qua, ci teniamo gli auricolari e mi tieni d’occhio gli uomini, mi guidi. Se mi dici dove sono ce la posso fare a neutralizzarli, uno per uno, non sono tanti.”

 

“E una volta dentro la casa? Lì io non posso vedere, Calogiuri.”

 

“Nel frattempo magari sono arrivati i rinforzi e poi possiamo sempre bluffare, se gli uomini fuori sono fuori servizio. Ti fidi di me?”

 

“E che è mo? Il Titanic? Mi fido di te, Calogiuri, mi fido. Ma cerca di fare una fine migliore di quel cretino in quel film tremendo!”

 

Lui fece un mezzo riso, perché sapeva benissimo che era solo un modo per stemperare la tensione.

 

E poi si trovò stritolata a morsa ed avvinghiata in un bacio che non si sarebbe scordata mai, tanto era intenso e disperato.

 

La lasciò lì, con il binocolo ed il cellulare in mano ed un macigno sul cuore.

 

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Cercò di non fare rumore, nonostante i muscoli e le giunture gli facessero un male atroce: se ne usciva vivo da lì, doveva ritornare ad allenarsi, medico o non medico.

 

Per fortuna, nonostante fosse indebolito, era pure più leggero e riuscì lo stesso a scalare il muro, nel punto in cui Imma gli aveva indicato non ci fosse nessuno.

 

“Puoi saltare giù, Calogiuri, magari riparati dietro quell’albero davanti a te, alle ore tre per te.”

 

L’impatto col suolo fu un altro impatto con la realtà di quanto il suo fisico fosse andato a farsi benedire - ed era già migliorato! - ma, con la forza dell’adrenalina, corse dietro al nocciolo che gli aveva consigliato a lei.

 

“E mo?” sussurrò, guardandosi intorno.

 

“Ci sta una guardia vicino al muretto, a ore nove per te. Se ti avvicini da destra e non si volta puoi prenderlo da dietro. Mi raccomando!”

 

Individuò la testa dell’uomo armato, la nuca per precisione, e strisciò quasi fino a lì, piano piano, facendosi scudo col muretto al quale lui era seduto.

 

Sapeva di avere una sola occasione per fare un lavoro pulito.

 

E quindi gli diede un colpo, secco, col calcio della pistola, mentre gli tappava la bocca.

 

L’uomo gli si accasciò tra le braccia. Lo legò con la sua stessa cintura e gli legò sulla bocca la sciarpa che per fortuna portava al collo.

 

Lo lasciò in una posizione nella quale avrebbe potuto respirare, disteso sul fianco, e chiese ad Imma “e mo?”

 

“C’è l’altro uomo, da solo, vicino alla piscina, ma guarda dalla tua parte, devi distrarlo in qualche modo.”

 

Rimanendo nascosto, vide che vicino alla piscina c’erano anche dei ciottoli. Tornò verso il muro esterno e lo costeggiò a carponi, cercando di mimetizzarsi il più possibile. Prese il ciottolo più vicino e, ricordando i giorni passati con Rosa e Modesto a tirare sassi nel canale vicino a casa, lo lanciò verso la piscina.

 

Lo splash fece fare un salto al tirapiedi, che gli diede le spalle.

 

Gli si buttò addosso, tappandogli la bocca con la mano e, di nuovo, colpendolo alla nuca.

 

Gli ci vollero un paio di colpi stavolta, ma alla fine cadde a terra.

 

Ringraziò la voglia di ostentare della banda, che, tra cinture e sciarpe firmate, gli forniva gratis corde e bavagli di lusso.

 

“E ora?” domandò, col fiato corto, dopo aver nascosto l’uomo dietro a un albero.

 

“Rimangono due uomini, Calogiuri, ma sono insieme, li devi far dividere in qualche modo. Stanno a ore dodici da te, vicino all’ingresso.”

 

Un altro sparo, sempre dentro la casa.


“Tra quanto arrivano i rinforzi, maledizione?”

 

“Aspetta…” gli sussurrò e poi, dopo un attimo di pausa, “Mancini dice che tra dieci minuti massimo ci sono, ma ci sono parecchi incidenti nei dintorni.”

 

Dieci minuti erano troppi, e lo sapeva. Sempre se in quella casa c’era ancora qualcuno da salvare.

 

Prese un lungo respiro e, cercando di rimanere accovacciato, nonostante i muscoli delle gambe cominciassero a bruciargli, si avvicinò al punto dove stavano i due uomini.

 

Erano lì, fissi davanti all’entrata e stavano parlottando tra loro della partita della Roma di qualche giorno prima.

 

Sentì che uno dei due chiamava l’altro Michè.

 

Michele probabilmente.

 

Tornò indietro, a distanza di sicurezza, fino a girare l’angolo opposto della casa e poi urlò, cercando di riprodurre un accento romano e mascherare la voce “Miché, che poi venì n’attimo?!”

 

“Ah, Francé, sei tu?”

 

“Te movi?!” esclamò di nuovo, pregando che funzionasse e che non si muovessero entrambi.

 

Ma, per fortuna, udì una sola coppia di passi, sempre più vicini, e si tenne pronto.

 

“Francé, ‘ndo stai?” furono le sue ultime parole, prima che gli tappasse la bocca e desse pure a lui un colpo netto, fino a vederlo crollare.

 

Stava per cercare di legare ed imbavagliare anche lui quando un “Miché, tutto bene?” lo fece avvedere che stava arrivando anche l’ultimo uomo. Trascinò Miché giusto giusto finché fu fuori dalla visuale, dietro al muretto, vicino al primo uomo che aveva messo a terra.


E poi, con una forza data probabilmente solo dalla disperazione, riuscì a placcare e a stordire anche l’ultima guardia.

 

“Imma?” domandò, mentre legava ed imbavagliava gli ultimi due uomini.

 

“Calogiù. Sei… sei stato… incredibile. Non sai quanto sono orgogliosa di te, quanto!”

 

La voce di lei tremava come le sue mani, e sentì il cuore non solo caldo, ma bollente.

 

“Ora manca l’interno. Vedi altri?”

 

“No, ma… non puoi entrare da solo, Calogiuri, è troppo pericoloso!”

 

“Dottoressa, comincio a guardare dalle finestre e poi, se riesco, entro. Tu avvisami dei rinforzi e accertati che non arrivi nessuno, va bene?”

 

“Calogiuri…” fu l’unica risposta e lo sapeva come si sentiva Imma, lo sapeva benissimo.

 

Ma aveva scelto di fare quel lavoro anche per quello, per proteggere le persone.

 

E, anche se quella famiglia aveva fatto una cosa terribile, lì dentro c’era un bimbo innocente.

 

E poi trovarlo ed avere le testimonianze dei genitori adottivi era l’ultima speranza per scagionarsi.

 

Cercò di spiare dalle finestre, una ad una, ma riuscì solo a vedere due uomini armati in salotto, cosa che riferì ad Imma. Trovò la finestra di quella che pareva essere la lavanderia e, con un po’ di sforzo, gli riuscì di scassinarla.

 

Per fortuna i serramenti non erano nuovissimi, di quelli antiscasso e antisfondamento.

 

Entrò, scavalcando la lavatrice, e cercando di fare meno rumore possibile.

 

E fu allora che, finalmente, riuscì ad udire più chiaramente cosa stava accadendo all’interno. C’erano i due uomini in salotto sì, ma si sentivano come dei gemiti, quasi dei mugolii di dolore, provenire da distante, probabilmente dal piano superiore. Ed un uomo, sempre distante, che diceva “dove sta il pupo? Se non parli il marito tuo si piglia un’altra pallottola, e stavolta in testa e non in quella testa di cazzo che si ritrova!”

 

Udì una donna piangere e singhiozzare, continuando a dire, “ve l’ho già detto, è fuori con la tata.”

 

“Nun raccontare più fesserie, che la tata la conosciamo e sta alla Garbatella a farsi i fatti sua.”

 

Un altro uomo.

 

Due sotto e due sopra, probabilmente. Otto in tutto.

 

Pochi per tre macchine, ma forse volevano tenersi lo spazio per caricarci la famiglia.

 

Stava per controllare le altre stanze, prima di lanciarsi in salotto, ma udì dal piano di sopra “senti, abbella, io mo conto fino a dieci. Se al dieci non la smetti di contare fregnacce, c’avrai il cervello di tuo marito come nuova carta da parati.”

 

E sentì partire il countdown e un “Calogiuri non-” nelle orecchie, ma sapeva di non avere altro tempo. E quindi si buttò verso il salotto, tra le mani il semiautomatico che aveva preso da uno degli uomini fuori e, brandendolo come una mazza da baseball, colpì alla testa prima uno e poi l’altro, che per fortuna gli davano le spalle.

 

Ma uno di loro emise un mugolio di dolore, prima che potesse tappargli la bocca e che perdesse i sensi.


“Che succede? Tutto bene lì sotto?”

 

Lo avevano sentito, ma almeno il conto alla rovescia era terminato.

 

E fu allora che decise di giocarsi il tutto per tutto.

 

“Ce sta qualcuno fori. Ha preso Michè! E pure gli altri so ‘nnati, forse!” urlò, la bocca dentro la sciarpa, sperando che la bevessero.

 

“Ma che stai a dì?” esclamò una voce da sopra, quello del conto alla rovescia e delle minacce, e sentì una porta aprirsi e passi sulle scale, “Giovà, ‘ndo stai? Che stai a dì?”

 

Non appena vide un paio di anfibi spuntare attraverso il corrimano, saltò e ci si aggrappò con tutta la forza che non aveva più e, con un urlo, lo sentì, ancora prima di vederlo, ruzzolare giù dalle scale.

 

Gli si buttò addosso, per stordirlo del tutto. Gli aveva appena mollato il colpo alla nuca, quando sentì un clic inconfondibile alle spalle ed un “e tu chi cazzo sei?!” che gli fece venire un brivido.

 

Si voltò e trovò un uomo, anzi, un ragazzo, poco più che ventenne, che stava venendo da una di quelle stanze che non aveva controllato.

 

E poi udì la porta di sopra aprirsi ed un uomo ci fece capolino.

 

Era incastrato in mezzo a due fuochi, letteralmente.


“Chi cazzo sei, eh? Chi ti manda?!” chiese il ragazzo, mentre l’altro uomo fu visibile sulla scala, e non solo visibile, ma riconoscibile.


Stefano Mancuso.

 

“Maresciallo Calogiuri! Ma è ancora maresciallo?” chiese, puntandogli pure lui una pistola contro e cominciando a scendere i gradini, “che bella sorpresa! Questo ci rende le cose più facili, molto più facili. Un maresciallo fuori di testa che, per vendetta, uccide la coppia che teneva il figlio di quella che lo ha incastrato ed il bambino e poi si uccide. Suona bene, no?”

 

La rabbia gli ribolliva dentro, anche se doveva rimanere calmo e lucido ma… ma pensava solo che, qualunque cosa avesse fatto, uno dei due gli avrebbe sparato. E questi tenevano la mira buona, tenevano e….

 

E poi pensò ad Imma, e pregò che non stesse più ascoltando, che… non dovesse sentire i suoi ultimi momenti.

 

“Paolì, che ci pensi tu?” chiese poi Mancuso, rivolgendosi al ragazzo - e certo, il boss, se poteva, le mani non se le sporcava mai - e Paolì puntò ancora più in alto la pistola e fece per premere il grilletto ma-

 

“Carabinieri, siete circondati! Gettate le armi!”

 

Pure nel casino, riconobbe la voce di Imma, amplificata però, e poi una sventagliata di colpi, che provenivano dal giardino. Fu questione di un secondo: Paolì si girò verso la lavanderia e Calogiuri gli si lanciò addosso, prendendolo alle spalle, evitando per un soffio un proiettile di Mancuso, che gli rimbombò vicino all’orecchio, e riuscendo ad atterrare il ragazzo e a levargli la pistola.

 

Si voltò, rimanendo seduto sul ragazzo, puntando in avanti la pistola - che il fucile era finito più avanti - e beccando appena in tempo Mancuso che stava correndo giù dalla scala, a pistola spianata.

 

Sparò, senza pensarci, sparò, verso le gambe, e, con un urlo di dolore, Mancuso cascò pure lui dalle scale, sopra al suo compare. Diede un ultimo colpo a Paolì, per stenderlo definitivamente, e corse verso Mancuso.

 

Ma il boss si era ripreso e vide la pistola sollevarsi. Si gettò a terra appena in tempo, prima dello sparo.

 

O lui o me! - pensò, ma Mancuso serviva vivo e quindi cercò di coprirsi alla meglio, dietro all’angolo del sottoscala, un altro proiettile che gli finì vicino ai piedi.

 

Non potevano stare così per sempre: sentiva le urla dal piano di sopra, una voce di donna che implorava “vi prego, mio marito sta morendo!”

 

Stava per alzarsi dalla copertura - e andasse come doveva andare! - quando udì un lamento ed una porta che si apriva.

 

“Butti giù l’arma, Mancuso, se non vuole finire come uno scolapasta. E, se pensa che non ne sia capace, le ricordo chi era mio padre e che quando una donna con un semiautomatico incontra un uomo con la pistola, l’uomo con la pistola è morto.”

 

Gli venne da trattenere una risata ed un singhiozzo insieme.

 

Imma! Ma era pazza del tutto?

 

“Ma se non è neanche capace di usarlo.”

 

“Mi sembra che la scarica qua fuori sia funzionata benissimo. Ora, devo esercitarmi pure su di lei o vuole decidersi a buttare la pistola? Tanto siete circondati.”

 

“E da chi, eh? Che voi manco lavorate più per la procura e-”

 

Per fortuna un rumore di sirene, che neanche all’accademia ne aveva sentite così tante tutte insieme, azzittì Mancuso.

 

Udì un suono metallico, ancora prima di vedere la pistola che finiva a terra.

 

Si alzò dal suo nascondiglio, la sua di pistola spianata e quello che vide gli sembrò talmente assurdo, spaventoso e straordinario al tempo stesso, che gli parve uscito da un film.

 

Imma stava lì, mezza in penombra, nella cornice della porta, il fucile in mano, puntato alla testa di Mancuso. Bella e fiera come non mai.

 

Lui che, pieno di lividi e con una gamba sanguinante, tremava sotto di lei.

 

“Dottoressa…” sussurrò, incredulo, riuscendo a fatica a trattenere le lacrime, e sapeva che anche per lei era lo stesso, perché lo guardava… come se avesse appena visto un miracolo.

 

Ma prima veniva il dovere: calciò via la pistola di Mancuso, gli prese la cintura e gli legò le mani e poi si strappò una manica della camicia, ignorando il “Calogiuri, che fai?” di Imma e gliela legò alla gamba, sopra alla ferita.

 

Anche se lo avrebbe per certi versi voluto ammazzare, non era un assassino.

 

“Aiuto! Aiuto! Mio marito sta male, non respira!”

 

L’urlo da sopra arrivò insieme a grida da fuori, un coro di “carabinieri mani in alto!” da far spavento.

 

Vide Imma nell’atto di girarsi, istintivamente, ed afferrò appena in tempo il fucile, prima che lo facesse.


“Siamo noi! Calogiuri e la dottoressa Tataranni! Dovremmo averli bloccati tutti, venite all’ingresso!” urlò a pieni polmoni, prima di sussurrare ad Imma, strappandole via il fucile, “ma che sei matta? Ti volevi fare ammazzare?”

 

*********************************************************************************************************

 

Sentì le gambe tremare, rendendosi conto del tutto solo in quel momento non solo di cosa aveva fatto, ma che aveva pure rischiato di farsi sparare addosso da fuoco amico.

 

Per fortuna, si ritrovò tra le braccia di Calogiuri che, come sempre, era prontissimo a prenderla, quando lei stava per cadere, metaforicamente e letteralmente.

 

I loro occhi si incrociarono di nuovo, quegli occhi che aveva per un attimo temuto di non vedere mai più, tanto da buttare la prudenza al vento e raggiungerlo non appena gli uomini fuori erano stati tutti storditi ed era sparito dentro la casa.

 

Aveva una voglia tremenda di baciarlo, ancora e ancora, tanto che lo sguardo le cadde sulle labbra di lui. Lo sentì prendere un forte respiro e-


“Aiuto!!”

 

Le grida dal piano superiore la fecero riscuotere appena in tempo, sia per evitare che Mariani e Ranieri, che stavano arrivando alle loro spalle, li beccassero, sia per evitare altri casini dati dalla foga del momento.

 

L’adrenalina giocava brutti - o bellissimi - scherzi, ma Calogiuri doveva volerla a mente lucida e non soltanto perché preso dall’ubriacatura di ormoni.

 

E quindi si staccò e salì le scale, riconoscendo i passi di Calogiuri dietro ai suoi e poi altri passi.

 

Spalancò del tutto la porta e quello che ci vide le gelò il sangue: un uomo ed una donna, distesi sul letto, che una volta era bianco, ma ora c’era una pozza di sangue che si estendeva da… da quelli che una volta erano stati i gioielli di famiglia di lui.

 

Era lì che gli avevano sparato, una o due volte.

 

L’uomo era pallidissimo, la moglie che cercava di fermargli il sangue.

 

“L’ambulanza arriva?” domandò, voltandosi verso Ranieri e Mariani, che pure loro avevano un’espressione che era tutta un programma.

 

“Sta arrivando, sì, è solo che gli ingorghi...” rispose il capitano che, come Calogiuri, aveva l’aria di chi stava quasi per svenire dal dolore, anche solo per l’immedesimazione.

 

“Mariani, se mi dai una mano… proviamo a tamponare il sangue e fare un po’ di primo soccorso.”

 

“Vi prego, non respira!”

 

“Mariani, tu tamponi, io faccio la respirazione bocca a bocca. Il battito è basso ma presente. Ranieri, può riferire all’ambulanza?”

 

Non avrebbe saputo dire se fosse più orgogliosa della prontezza di Calogiuri nell’aiutare gli altri, sempre, o se del fatto che, preso dall’azione, desse senza problemi ordini pure al capitano.

 

Ma, dopo qualche secondo, le si pose la domanda più importante, fondamentale anzi.

 

E quindi guardò la donna che tremava ancora accanto al marito e le disse, “il bimbo di Melita, dove sta?”

 

Gli occhi della donna passarono dal panico alla paura e poi ad un odio profondo, profondissimo.

 

“Non… non so di cosa state parlando.”

 

“Il bambino che avete finto di aver partorito qualche mese fa, ma che avete comprato da questi gentiluomini, che mo sono tornati per cancellare le prove. Dove sta? E non ditemi con la babysitter o che è uscito, che già i gentiluomini avevano capito che non era vero. Dov’è?”

 

La donna si chiuse a riccio, le braccia piantate al petto.

 

“Senta, io lo capisco che lo volevate proteggere da… da questi uomini. Ed è evidente che dovete amarlo molto, se suo marito era disposto a farsi ammazzare per lui,” disse, cercando di empatizzare con quella donna e con la disperazione estrema che dovevano aver provato lei ed il marito, anche se una parte di lei non ci sarebbe mai riuscita fino in fondo, ma il muro contro muro non serviva a niente, “ma ora suo marito deve andare all’ospedale, lei ci dovrà seguire, perché quelli che avete commesso sono dei reati gravi, e se c’è un bimbo qua… nascosto da qualche parte, non possiamo lasciarlo qua da solo. Ci dica dov’è-”

 

E si guardò in giro e notò un bavaglino con su scritto Ludovico.

 

Nome da ricchi.

 

“Dov’è Ludovico?”

 

“Ludovico è figlio nostro. Non so cosa avete sentito ma è figlio nostro.”

 

“Abbiamo le testimonianze dei medici, signora, e ci basterà un test del DNA sugli oggetti del bimbo. Non peggiori la situazione.”

 

Era stato Ranieri a parlare, mentre Calogiuri e Mariani erano ancora impegnati nel primo soccorso.

 

Ma la donna tappò la bocca e si chiuse ancora di più e capì che non avrebbe parlato mai, piuttosto si sarebbe fatta ammazzare.

 

E quindi, se il bimbo stava lì, in casa, c’era solo un metodo.

 

“Ludovico! Ludovico?!” si mise ad urlare, sperando che fosse in un punto dove poteva sentirla e non in una stanza insonorizzata ma niente, non si sentiva nulla.

 

“Che succede?”

 

Irene e Mancini erano finalmente arrivati pure loro, Mancini che, come tutti i maschietti presenti, guardò l’uomo sul letto come se fosse l’incarnazione di tutti i dolori del mondo.

 

“Non ci vuole dire dove sta il bambino,” spiegò Imma, mentre, finalmente, arrivarono pure i paramedici e si dovettero spostare per lasciarli lavorare, uscendo dalla stanza, Calogiuri che spiegava cosa aveva fatto mentre cercava di pulirsi le mani insanguinate.

 

“Dobbiamo cercare in tutte le stanze,” rispose Irene, dando ordine agli uomini tramite una radiolina, mentre Imma stessa cominciava a guardarsi intorno, sul ballatoio.

 

C’era qualcosa di strano, ma cosa?

 

“Non ci sono troppe poche stanze qua sopra?”

 

Era stato Mancini a parlare e teneva ragione, teneva.

 

C’era qualcosa nella planimetria della casa che non tornava, il piano di sopra era troppo piccolo rispetto a quello sotto e alla grandezza della casa.


“Ci dev’essere una stanza nascosta,” confermò. Il problema era come trovarla, a parte picchiando su tutti i muri, “ho provato a chiamare il nome del bambino ma non mi rispond-”

 

E fu in quel momento che le venne un’idea.

 

Un’idea assurda, forse, ma che c’avevano da perdere?

 

“Mariani. Può chiamare gli uomini che tengono Gasparini e la Zoffi e chiedere qual era il nome originale di… Ludovico? Dubito Melita gli avesse appioppato un nome del genere.”

 

“Subito dottoressa!”

 

La udì parlare per un po’ al telefono e poi esclamare un, “Francesco! Si chiamava Francesco!”

 

“Francesco!” gridò quindi, cercando di percorrere tutto il ballatoio, vicino ai muri, “Francesco! Francè!”

 

E fu allora che, flebile come una piuma, udì un gemito e poi un pianto.

 

“Lo sentite anche voi?” domandò e gli altri annuirono e lei continuò a gridare il nome del piccolo, provando a capire da dove provenisse.

 

“Qua secondo me è più forte, dottoressa,” disse Mariani, indicando il muro all’estremità sinistra del pianerottolo.

 

Di sicuro Mariani l’udito ce l’aveva più buono del loro, essendo più giovane e non avendo dovuto subire gli strilli di una figlia adolescente per anni.

 

Mancini picchiò sulla parete ed era cava. Ma non c’era traccia di una porta, di niente.

 

“Vediamo a cosa corrisponde!” proclamò quindi lei, rientrando nella camera da letto, che era la porta più vicina, scartando la parete che dava sul bagno, che era dalla parte sbagliata, e trovandone una con una libreria.

 

“Questa libreria, si deve spostare!” esclamò, mentre medici e paramedici caricavano il ferito in barella e lo portavano fuori, “signora, lo sappiamo che qua dietro c’è qualcosa. Ci dica come si sposta questa libreria: è la sua ultima possibilità.”

 

Ma la donna, ostinatamente, mantenne il silenzio.

 

Si guardò intorno, cercando il segno di una cerniera, di un meccanismo, di qualcosa e notò infine un paio di volumi messi a testa in giù, come se fossero stati rinfilati troppo velocemente.

 

Del resto, quando era arrivato il commando, i coniugi dovevano avere avuto poco tempo per nascondere il bimbo.

 

“Che hai notato?”

 

La voce stanca di Calogiuri fu nel suo orecchio e se lo trovò alle spalle.

 

“Quei libri?” le chiese, forse perché aveva capito cosa stesse guardando, forse perché li aveva notati pure lui, e le loro mani si scontrarono per un attimo mentre cercavano di prenderli.

 

“A te l’onore, dottoressa,” le disse, passandole il guanto che teneva in mano, per non compromettere ulteriormente la scena, e lei se lo infilò e levò i volumi.

 

Dietro c’era un interruttore, piccolissimo e piatto.

 

Lo premette.

 

Lo scatto di un meccanismo ed una delle scaffalature ruotò su se stessa e dentro quella che era, a tutti gli effetti, una nursery clandestina.

 

Pareti azzurre, giocattoli ovunque… probabilmente l’avevano costruita per i primi tempi nei quali il bimbo non era ancora ufficialmente loro.

 

“Francesco!” esclamò ed il pianto divenne fortissimo.

 

Corse dentro e, in fondo a sinistra, riparato alla vista, c’era un lettino ed un bimbo che piangeva disperato.

 

“Francé…” sussurrò ed il bimbo smise per un secondo di piangere e la guardò, con due occhi scuri come la notte e bellissimi, prima di ricominciare a piangere.

 

Buttò la prudenza al vento e se lo prese in braccio, cercando di cullarlo un poco per calmarlo.

 

E fu lì che avvenne il miracolo.


Silenzio, silenzio totale.

 

Il piccoletto la guardò di nuovo, incuriosito. Le venne spontaneo sorridergli e lui ricambiò, con un sorrisone sdentato che era un’arma impropria.

 

Si voltò ed incrociò un’altra arma impropria, gli occhi di Calogiuri, che lo erano ancora di più del solito.

 

Lo vide levare la coperta dal lettino e lo aiutò a metterla intorno al bimbo, che non avesse freddo, in un sincronismo perfetto, come se non avessero fatto altro che quello in vita loro.

 

Calogiuri pareva devastato dall’emozione.

 

Le parole non servivano e per fortuna, perché in quel momento non sarebbe stata in grado di pronunciarne nemmeno una.




 

Nota dell’autrice: Ed eccoci qua, alla fine di questo lungo capitolo, pieno di azione. Imma e Calogiuri, dopo aver rischiato entrambi la vita, hanno ritrovato il bimbo di Melita (il cui nome non è un tentativo di autocelebrazione ma un omaggio ad una figura fondamentale per Imma la serie tv). Che succederà ora? Riusciranno a riavvicinarsi e Calogiuri a vincere le sue paure, al di là dell’adrenalina e della commozione estrema del momento? Che fine farà il piccolo? E Calogiuri riuscirà ad essere scagionato?

Alcune delle risposte a queste domande arriveranno nel prossimo capitolo che avrà parecchio giallo e parecchio rosa e che dovrebbe essere un capitolo fondamentale ai fini della storia.

Vi ringrazio tantissimo per avermi seguita fin qui e per tutti i riscontri e gli incoraggiamenti che mi avete dato in queste settimane.

Spero davvero che la storia continui ad appassionarvi, anche ora che è iniziata la seconda stagione e questo è diventato definitivamente un universo parallelo (non che non lo fosse da sempre, ovviamente).

Siccome diverse persone mi hanno chiesto se scriverò qualcosa sulla seconda stagione, il mio obiettivo primario è finire questa storia dopo due anni e non lasciarla e lasciarvi in sospeso. Ma, tempo ed ispirazione permettendo ed anche a seconda di come andranno le prossime puntate, potrei fare qualche fanfiction più breve credo a cavallo tra la prima e la seconda parte di stagione, in modo che ci sia un po’ di carne al fuoco su cui scrivere, e poi post fine seconda stagione, sperando ovviamente che il finale non ci lasci con l’amaro in bocca, anzi.

Detto questo, vi ringrazio ancora tantissimo, ringrazio chi ha recensito questa storia e chi l’ha messa nei preferiti e nei seguiti.

Un grazie enorme se vorrete farmi sapere che ne pensate, soprattutto se la storia continua ad essere interessante e a prendervi, anche perché questo capitolo è stato tanto d’azione ed è un genere di scene sulle quali ho sempre parecchia apprensione.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare tra due settimane, domenica 14 di novembre.

Grazie mille ancora e buon Halloween e buone feste!

 
   
 
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