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Autore: SibillaCubana    24/11/2021    0 recensioni
Si tratta di uccidere un fratello, oppure di uccidere solo un androide?
J’Arel è ancora in piedi, che si pulisce la guancia con il dorso della mano. Poi lo guarda con sufficienza, prima di rivolgere a me gli occhi vitrei in cui si specchia il bagliore di un passato al neon.
[...] «Davvero pensi che questo significhi soffrire?»
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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N.d.A. Ho scritto questa storia per il contest "Volete storiarmi?" indetto da Milla4 sul forum di EFP. La missione era scrivere una storia originale ispirandosi a un prompt fornitoci da un altro partecipante. Lo riporterò alla fine per evitare spoiler! Buona lettura,
Sibilla
 


 

Ballata delle cose morte

(cammina leggera)

 

Turbinando nel cerchio che si allarga
Il falcone non può sentire il falconiere
Le cose cadono a pezzi, il centro non può tenere.
Pura anarchia dilaga nel mondo
La marea insanguinata s'innalza e dovunque
La cerimonia dell'innocenza è annegata.

(W.B. Yeats – La seconda venuta)

 

La chiamano signorina Libertà, salvata dalle onde verdi del mare e trascinata in salvo, ma in realtà ai suoi piedi c’è il cimitero delle cose perdute.

Carcasse di carri armati, resti di androidi. Arti staccati e cavi sfilacciati, come fasci di nervi massacrati dal bisturi di un chirurgo pazzo. Aspirazioni, identità. Opinioni. Verità.

Giacciono tutti su ciò che le onde hanno mangiato, sui sogni degli uomini ridotti a sabbia sottile.

J’Arel è ancora in piedi, che si pulisce la guancia con il dorso della mano. Poi lo guarda con sufficienza, prima di rivolgere a me gli occhi vitrei in cui si specchia il bagliore di un passato al neon.

«Davvero pensi che questo significhi sparare?» mi chiede, con la bocca che si apre appena.

Il mio proiettile gli ha appena sfiorato lo zigomo, una delle poche parti del suo corpo ancora organiche. Mi viene da pensare a qualche analogia idiota con metaforici proiettili che invece hanno centrato il cuore.

Non importa, non sono fatta per la poesia.

«Davvero pensi che questo significhi soffrire?» mi chiede l’impietosa voce di J’Arel. Quando lo guardo, lui alza le sopracciglia, come se potesse leggermi dentro.

La sensazione della lacrima calda che mi percorre la guancia è resa intermittente dalle mie cicatrici. Si accende e si spegne, come la lampada che sfarfalla su una vecchia sala da biliardo.

Ricordo di quando noi tre fuggivamo da Manhattan, dagli occhi immortali della signorina Libertà, e scendevamo alla baia.

Cassidy si sedeva a terra e, gli occhi lucidi fissi sulla linea tra cielo e mare, scriveva col dito lettere d’amore sulla sabbia.

Io e J’Arel, a turno, confortavamo il suo cuore inquieto. Alcune volte lo facevamo immersi nel silenzio sacro con cui si parlano i fratelli, altre invece con parole dolci e sommesse.

Sapevamo entrambi che solo gli occhi miopi di Cassidy, gli stessi di cui si lamentava tanto, vedevano la realtà di quel mondo lucido e pigro.

Tra le ultime cose che ci disse vi fu che non riusciva a sopportare cosa il perfezionamento umano avesse fatto al mondo. Non riusciva più a reggere il peso degli innesti metallici che portava nel petto, gli stessi che le facevano battere il cuore senza possibili aritmie.

La città sfavillante che avevamo alle spalle era, secondo lei, un ventre sterile senza poesia.

Non poteva sopportare che noi cyborg fossimo arrivati a tanto. Nella sua mente che non potevamo comprendere c’era una colomba che non sarebbe mai riuscita a spiccare il volo.

«Le macchine rotte finiscono nelle discariche» disse una volta, mentre tutti e tre ci stringevamo davanti al tramonto. Aveva spezzato il silenzio, e subito dopo la sua voce si erano innalzate le grida dei gabbiani.

«Come?» aveva domandato J’Arel, sorpreso da quella frase improvvisa.

«Le macchine» aveva risposto Cassidy. «Invece quando ci si rompe un braccio, noi non facciamo altro che buttarlo ai piedi della Statua della Libertà, a disposizione di qualche cacciatore di rottami».

«Sì» avevo commentato. Avevo spinto lo sguardo verso i confini del mare, dove i cavalli bianchi di schiuma in cima alle onde svanivano nell’ampio nulla. Continuavo a pensare a J’Arel, a come si avvicinasse sempre di più a diventare un cyborg a furia di innesti sul suo corpo magro. Temevo che, se non ci fosse stata Cassidy a unirci, tra noi due sarebbe finita con una sparatoria in una discarica, alla fine di un appassionato discorso tra insensati ideali americani e roba transumana.

«E i cuori?» aveva chiesto la vocina di Cassidy, insinuandosi nella mia mente come una lama sottile. «Dove vanno i cuori spezzati?»

Il suo se n’era andato in mezzo al mare, quel giorno in cui era scesa a Orchard Beach da sola. Si era tolta le scarpe, aveva appoggiato i piedi nudi sulla sabbia e aveva cominciato a camminare verso l’Oceano. Non si era fermata.

L’azzurro di quel ricordo si mescola all’azzurro delle iridi di J’Arel. Le vedo spostarsi verso il basso, per guardare il braccio che gli ho strappato, abbandonato lì a disposizione di qualche cacciatore di rottami. Con le dita che stringono ancora la pistola.

Quando mi guarda di nuovo, mi sembra che voglia morire.

Forse, se c’è ancora qualcosa di umano nei suoi circuiti, sta pensando anche lui ai passi lievi di nostra sorella mentre va verso la discarica dei cuori infranti.

«E i miei sogni ho steso sotto i tuoi piedi;/ Cammina leggera, perché cammini sui miei sogni» mormora, senza guardarmi.

I suoi occhi vagano tra i cumuli di rifiuti, come se stesse cercando una pianta che, pur trovandosi in quel posto, ha fiorito.

Io aggrotto le sopracciglia e tiro su col naso, per poi puntargli la pistola contro.

«Yeats» mi spiega.

«Non sono fatta per la poesia. Te l’ho detto».

«No. L’hai pensato, ma non me l’hai detto».

«È lo stesso».

Questa volta la mia mano non trema quando premo il grilletto.

Sulla fronte di J’Arel – mio fratello – si apre un buco tondo come il sole al tramonto. Pulito, senza nemmeno uno schizzo di sangue, perché il perfezionamento ha cancellato ogni bruttura dal mondo, lasciandoci una morte sobria e senza onore.

Quando cade a terra, lo riduco a un mero grave che precipita, a una delle cose rotte nel cimitero della Libertà.

Eri una cosa, J’Arel? mi domando, avvicinandomi piano. Mi inginocchio a fianco a lui, gli sollevo il capo come una Maria col corpo del Figlio. Sento sotto le dita, lieve, lo scorrere scoppiettante della corrente verso la sua nuca.

«Vecchio stronzo» commento con un sorriso, come se potesse sentirmi. «Alla fine lo hai fatto».

Premo con entrambe le dita sul suo viso, rendendomi conto che è coperto da una polvere che sembra quasi sabbia sottile. Con un suono secco, la testa si stacca assieme alle prime vertebre. È un sistema nervoso artificiale, l’ultimo passaggio per trasformarsi in macchina. Il modo per essere definitivamente immortali: ora può parassitare con la sua coscienza un altro corpo.

Ma non è ancora il momento.

Sì, J’Arel è diventato una cosa. Una cosa che ricorda Yeats, e questo mi toglie la terra da sotto i piedi.

Stringo la sua testa d’androide tra le mani e ho voglia di raggomitolarmici attorno, portarmi le ginocchia al petto come quando ero bambina, sotto le coperte, e fuori pioveva.

Guardo verso il punto dove un tempo sorgeva Liberty Island, dove svettava la statua della signorina a cui ormai fanno compagnia solo il vento e il sale. E le cose morte.

Vedo Cassidy camminare verso il tramonto, il capo cinto di una corona di fiori. Sento le sue parole danzare nel fondo del mio stomaco e infine scivolare, in silenzio, tra miei sogni elettrici.
 


Prompt: specchietto di BessieB. Genere - Angst, Introspettivo, Hurt/Comfort; Prompt: Where do broken hearts go (One Direction) --> si può usare la canzone o solo il titolo, a scelta; sabbia.

   
 
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