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Autore: Josy_98    30/11/2021    0 recensioni
Quando Chirone la costrinse ad iscriversi alla Yancy Academy per aiutarlo a tenere d'occhio un probabile mezzosangue particolarmente potente, Avalon sapeva già che fosse una pessima idea. Ne era certa. E glielo disse, convinta più che mai che fosse una mossa totalmente sbagliata e che tutto sarebbe cambiato. Non necessariamente in meglio.
Da anni, infatti, tentava in tutti i modi di restare nell'ombra, lasciando ad altri il compito di occuparsi dei problemi divini, far avverare profezie e compiere imprese, limitandosi ad osservare il tempo scorrere senza interferire e rimanendo in disparte nonostante i diversi tentativi degli altri - mortali e divini - di coinvolgerla in ogni modo.
Purtroppo, però, quella volta non riuscì a restarne fuori come avrebbe voluto.
E, quando le cose si complicheranno, Avalon tenterà in tutti i modi di non distruggere quell'intricato lavoro che ha portato avanti in quegli anni, cercando inevitabilmente di salvare quel flebile e incerto futuro in cui lui sopravvive. Con la paura di non riuscirci.
Perchè, Avalon lo sapeva, lei aveva sempre ragione. Finchè non prendeva una decisione.
|Riscritta!|
|Allerta Spoiler!!|
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Luke Castellan, Nuovo personaggio, Percy Jackson, Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La voce sull'incidente del bagno si diffuse all'istante, ovviamente. Era sempre così: i giovani semidei non sapevano cosa fossero i segreti ed erano più pettegoli delle vecchie signore di paese. O di Afrodite. Ovunque andassimo, i ragazzi del campo additavano Percy e mormoravano qualcosa sull'acqua del water.
Gli mostrammo un altro po' di posti: l'officina (dove dei ragazzi si stavano forgiando le spade), il laboratorio artistico (dove i satiri stavano sabbiando una gigantesca statua di marmo di un uomo-capra) e la parete d'arrampicata, che in realtà era costituita da due muri opposti che tremavano violentemente, lanciavano massi, spruzzavano lava e cozzavano l'uno contro l'altro se non eri svelto ad arrivare in cima. La adoravo.
Alla fine tornammo al laghetto del canottaggio, il punto in cui il sentiero ritornava verso le capanne.
«Devo andare ad allenarmi.» disse Annabeth in tono piatto. «La cena è alle sette e mezzo. Per la mensa, segui gli altri ragazzi della tua casa.» stava per andarsene, quando si voltò. «Devi parlare con l'Oracolo.» gli suggerì lanciandomi un’occhiata.
«Con chi?» chiese Percy.
«Non con chi, ma con cosa. Con l'Oracolo. Lo chiederò a Chirone.»
Percy stava osservando le acque del laghetto, quando lo vedemmo salutare le naiadi: avevano l’aspetto di ragazze più grandi, portavano i jeans e delle scintillanti magliette verdi, i lunghi capelli castani e fluttuanti erano attraversati da pesciolini e sedevano con le gambe incrociate sul fondale alla base del molo, ad almeno sei metri sott'acqua.
«Non incoraggiarle.» lo avvisò Annabeth. «Le Naiadi sono delle terribili smorfiose.»
«Naiadi.» ripetè lui; potevo vedere quanto fosse al limite. «Ora basta. Voglio andare a casa.»
Io continuai a rimanere in silenzio e Annabeth aggrottò la fronte. «Non capisci, Percy? Tu sei a casa. Questo è l'unico posto sicuro sulla terra per i ragazzi come noi.»
«Per i ragazzi con disturbi mentali, vuoi dire?»
«Voglio dire per i ragazzi non umani. Non totalmente umani, insomma. Umani per metà.»
«Per metà umani e per metà cosa?»
«Penso che tu lo sappia.»
Vedevo la reticenza negli occhi di Percy, ma anche la consapevolezza. Lui lo sapeva, aveva capito esattamente cosa fossimo, ma non voleva ammetterlo.
«Dei.» cedette, alla fine. «Per metà dei.»
Annabeth annuì. «Tuo padre non è morto, Percy. È uno degli dei dell'Olimpo.»
«È assurdo.»
«Davvero? Qual è la cosa più comune che gli dei facevano in quelle vecchie storie? Se ne andavano a zonzo a innamorarsi dei mortali e a far figli con loro. Pensi che abbiano cambiato abitudini negli ultimi millenni?»
«Ma questi sono soltanto…» stava per dire “miti” un'altra volta, ma si bloccò. «Ma se tutti i ragazzi di questo posto sono per metà degli dei…»
«Semidei.» specificò Annabeth. «È questo il termine ufficiale. Oppure mezzosangue.»
«Allora chi è tuo padre?»
Io mi irrigidii leggermente e lei strinse le mani attorno al parapetto del molo. Quello era un tasto sensibile. Anzi, proprio dolente.
«Mio padre è un professore di West Point.» rispose. «Non lo vedo da quando ero piccola. Insegna storia americana.»
«È umano.»
«E allora? Cos'è, pensi che solo un dio possa provare attrazione per i mortali? Ma quanto sei sessista!» io sorrisi leggermente alla sua risposta, ma non mi intromisi.
«Chi è tua madre, allora?»
«Casa numero sei.»
«E cioè?»
Annabeth drizzò la schiena. «Atena. Dea della saggezza e della battaglia.»
«E mio padre?»
«Indeterminato.» risposi io a quel punto attirando la sua attenzione.
«Come ti ho detto prima. Nessuno lo sa.» continuò Annabeth. «Beh, a parte Avie, ma lei non può dirlo. E tuo padre, ovviamente.»
«Anche mia madre. Lei lo sapeva.» aggiunse lui.
«Forse no, Percy. Gli dei non rivelano sempre la loro identità.»
«Mio padre l'ha fatto di sicuro. Lui la amava.»
Annabeth lo guardò con un'espressione cauta. Non voleva deluderlo. Io non dissi niente, infondo sapevo.
«Forse hai ragione. Forse manderà un segno. È l'unico modo per esserne certi: tuo padre deve riconoscerti come suo figlio mandando un segno. A volte succede.»
«Vuoi dire che a volte non succede?»
Annabeth accarezzò il parapetto con il palmo della mano. «Gli dei hanno molto da fare. Hanno un sacco di figli e non sempre... beh, a volte non gli importa di noi, Percy. Ci ignorano.»
«Perciò sono bloccato qui.» concluse. «È così? Per il resto della mia vita?»
«Sì.» dissi io.
«Dipende.» rispose allo stesso tempo Annabeth, lanciandomi un’occhiataccia. «Alcuni si fermano solo per un'estate. Se sei figlio di Afrodite o di Demetra, probabilmente non sei una forza davvero potente e i mostri potrebbero ignorarti. Così te la puoi cavare con qualche mese di allenamento estivo e vivere nel mondo mortale per il resto dell'anno. Ma per alcuni di noi, andarsene è troppo pericoloso. Ci fermiamo tutto l'anno. Nel mondo mortale, attraiamo i mostri. Ci percepiscono. Vengono a sfidarci. In genere ci ignorano finché non siamo abbastanza grandi da causare problemi... verso i dieci o gli undici anni… ma dopo, per la maggior parte dei semidei ci sono solo due possibilità: arrivare qui o farsi ammazzare. Pochissimi riescono a sopravvivere nel mondo esterno, e diventano famosi. Credimi, se ti facessi i nomi, li conosceresti. Alcuni non si rendono neanche conto di essere semidei. Ma sono casi molto, molto rari.»
«Quindi i mostri non possono entrare qui?»
Annabeth scosse la testa. «A meno che qualcuno non li abbia introdotti di proposito nel bosco o non li abbia evocati dall'interno.»
«E perché mai qualcuno vorrebbe evocare un mostro?»
«Per allenamento. O per scherzo.»
«Per scherzo?»
«Il fatto è questo: i confini sono sigillati in modo da tenere fuori i mortali e i mostri. Dall'esterno, i mortali guardano la valle e non vedono niente di insolito, solo una fattoria in mezzo a campi di fragole.» spiegai io.
«E voi vi fermate tutto l'anno?»
Entrambe annuimmo e Annabeth estrasse la sua collanina di cuoio con le perle da sotto la maglietta. Era identica a quella di Luke, solo che sulla sua c'era appeso anche un grosso anello d'oro di un college. La mia aveva molte più perle.
«Sono qui da quando avevo sette anni.» raccontò. «Ogni agosto, l'ultimo giorno della sessione estiva, riceviamo una perla per essere sopravvissuti un altro anno. Sono qui da più tempo della maggior parte dei capigruppo, e loro sono tutti al college. Avie, invece, è qui da più tempo di tutti. Era tra quelli che mi hanno accolto.»
«Perché sei venuta così presto?» le chiese accantonando la parte su di me.
Lei si rigirò l'anello d'oro fra le dita. «Non sono affari tuoi.»
«Oh!» per un minuto rimase in silenzio, imbarazzato. Poi si voltò verso di me. «E tu? Da quanto tempo sei qui?»
Io alzai le spalle mostrandogli la mia collana, anche se l’aveva già vista. «Da sempre. O meglio, dal giorno dopo la mia nascita. Sono cresciuta qui. Letteralmente. Non è stato così male.» aggiunsi quando vidi la sua espressione.
«E chi è il tuo genitore divino?» domandò ancora.
«Percy…» disse Annabeth, ma io la bloccai con un cenno.
«Tranquilla Annie. Non è un segreto, e prima o poi sarebbe saltato fuori.»
Percy passava lo sguardo da lei a me, e viceversa. «Che cosa?»
Sospirai. «La mia parte divina non è esattamente “divina”, Percy. Ricordi che ti ho detto che le Parche sono mie sorelle?» lui annuì. «E ricordi di chi sono figlie?»
Percy riflettè qualche secondo. «Di Zeus e di una titana, mi sembra… non mi ricordo il nome.»
Io annuii. «Esatto.»
«Quindi… sei figlia di Zeus?» domandò cauto, forse immaginando la risposta.
«No. Sono figlia di Temi, la titana.»
«Ok. E che cosa cambia?» chiese dopo aver registrato l’informazione.
Annabeth sospirò.
«Non lo sappiamo.» ammise. «Non lo sanno neanche gli dei. Sappiamo solo che è diversa da noi, ma allo stesso tempo è come noi. Nemmeno le Parche hanno saputo dire qualcosa, ma credono che la sua esistenza sia la più importante in assoluto, in un certo senso. Quindi hanno stabilito di farla crescere qui e gli dei hanno dato il loro appoggio.»
«Dioniso non è davvero mio zio, ma mi ha cresciuta ed entrambi ci siamo affezionati, in qualche modo. Inoltre sembra ci sia una specie di accordo, tra gli dei, che impedisce loro di uccidermi o anche solo di ferirmi.» continuai. «Zeus deve volerti morto davvero molto per infrangere questo accordo e lanciare un fulmine su una macchina in cui sono anch’io, ferendomi.»
«Cosa?» domandò Percy sconvolto. «Eri ferita? Ma stai bene adesso?» aggiunse poi, osservando ogni centimetro del mio corpo come a cercare di individuare eventuali contusioni o altro.
«Sì, il fulmine che ci ha mandati fuori strada era suo.» confermai tranquilla. «E sì, Percy, mi ha ferita.» lo tranquillizzai. «Ora sto bene, più o meno. Domani dovrei essere quasi definitivamente a posto.» le ustioni bruciavano e tiravano un po’, in effetti, ma niente che non fosse sopportabile.
Percy annuì e non dicemmo niente per un po’, fino a quando lui ruppe il silenzio. «Potrei andarmene anche subito, se volessi?»
«Sarebbe un suicidio, ma potresti farlo, con il permesso del signor D o di Chirone. Loro non accordano permessi del genere prima della fine dell'estate, a meno che…» rispose Annabeth.
«A meno che?»
«A meno che non ti venga assegnata un'impresa. Ma non succede quasi mai. L'ultima volta…» la sua voce si spense e io mi rabbuiai.
L’ultima volta non era andata tanto bene.
«Giù all'infermeria.» disse Percy cambiando argomento. Probabilmente aveva colto il tono di Annabeth. «Quando mi imboccavi con quella roba…» le disse.
«L'ambrosia.»
«Sì. Mi hai chiesto qualcosa sul solstizio d'estate.»
Annabeth irrigidì le spalle e io mi raddrizzai. «Allora sai qualcosa?»
«Annie…» tentai di fermarla.
«Beh… no. Nella mia vecchia scuola ho sentito Avie, Grover e Chirone che ne parlavano. Hanno nominato il solstizio d'estate. Hanno detto che non avevo abbastanza tempo, per via di una qualche scadenza. Che significa?»
Lei strinse i pugni. «Magari lo sapessi. Chirone e i satiri lo sanno, ma non vogliono dirmelo. Anche Avie è al corrente della situazione, anzi penso che lei abbia molti più dettagli, ma tutti sanno che lei non parlerà mai.» commentò osservandomi di sottecchi mentre Percy mi lanciava un lungo sguardo.
«E tutti sanno perchè.» risposi tagliente alla sua frecciatina. «Nemmeno a Chirone ho detto qualcosa. Neanche a Zeus.»
Un tuono risuonò sopra le nostre teste.
Guardai il cielo.
«È inutile che ti scaldi tanto.» commentai. «Sai che non parlerò mai.»
Un secondo tuono rimbombò facendomi sbuffare.
Annabeth continuò. «C'è qualcosa che non va sull'Olimpo, qualcosa di grosso. L'ultima volta che ci sono stata, tutto sembrava così normale.»
«Tu sei stata sull'Olimpo?»
«Con Avie, Luke, Clarisse e qualche altro dei regolari.»
«Abbiamo fatto una gita durante il solstizio invernale. È quando gli dei tengono il loro Gran Consiglio annuale.» aggiunsi io.
«Ma come ci siete arrivati?»
«Con la ferrovia di Long Island, naturalmente. Scendi a Penn Station, poi entri all'Empire State Building e prendi l'ascensore speciale per il seicentesimo piano.» Annie lo guardò come se fosse sicura che lo sapesse già. «Tu sei di New York, giusto?»
«Oh, sicuro.» disse lanciandomi un’occhiata a cui io risposi silenziosamente di lasciar perdere.
La questione seicentesimo piano dell’Empire State Building gliel’avrei spiegata poi, o non ci avrebbe mai creduto.
«Poco dopo la nostra visita.» continuò Annabeth. «Il tempo è impazzito, come se gli dei si fossero messi a litigare.»
«Cosa che è successa.» commentai a bassa voce.
«E, dopo di allora, ho sentito di sfuggita i satiri che ne parlavano un paio di volte. Sono riuscita a capire solo che è stato rubato qualcosa di importante. E che se non viene restituito entro il solstizio d'estate, saranno guai. Quando sei arrivato tu, speravo… cioè… Atena va d'accordo praticamente con tutti, a parte Ares… e naturalmente Poseidone. Ma, a parte questo, pensavo che potessimo lavorare insieme. Ero certa che tu potessi sapere qualcosa.»
Lui scosse la testa. Era ancora troppo stanco e confuso per essere di qualche aiuto, era evidente.
«Devo ottenere un'impresa.» mormorò Annabeth fra sé e sé. «Non sono troppo giovane. Se solo mi dicessero qual è il problema…» mi lanciò un’occhiata penetrante e, allo stesso tempo, supplichevole a cui io risposi alzando le mani e facendo un paio di passi indietro.
«Non guardare me!» esclamai. «Sai esattamente come la penso a riguardo. Posso dirti soltanto che presto saprai tutto.»
Sentimmo profumo di barbecue e Annabeth ci disse di andare avanti: ci avrebbe raggiunto più tardi. La lasciammo sul molo, a disegnare col dito sul parapetto come per tracciare un piano di battaglia, e ci dirigemmo verso le capanne in silenzio. Percy aveva molto da metabolizzare.
Nella casa undici, tutti chiacchieravano o si scatenavano in qualche gioco in attesa della cena. Seguii Percy verso il suo angolo di pavimento e lo osservai accasciarsi a sedere con il corno del Minotauro ancora stretto in mano. Luke, il capogruppo, si avvicinò. Era facile capire chi fossero i suoi fratelli, avevano gli stessi tratti distintivi, gli stessi lineamenti: naso affilato, sopracciglia arcuate e sorriso scaltro; il genere di ragazzi che vengono bollati come piantagrane dopo un’occhiata. La cicatrice sulla guancia destra li alterava, ma il sorriso era intatto. Ed era comunque uno dei più bei ragazzi del campo.
«Ti ho trovato un sacco a pelo.» disse a Percy. «E ti ho rubato un po' di roba per il bagno dal magazzino del campo. Tieni.»
«Grazie»
«Non c'è di che.» Luke gli si sedette accanto, appoggiandosi con la schiena al muro, e mi fece cenno di sedermi appoggiata a lui. Appena lo feci mi circondò con le braccia, facendo in modo che lo usassi come cuscino.
«Com'è andato il primo giorno? È stata dura?» chiese a Percy.
«Questo posto non fa per me.» rispose lui. «Non credo nemmeno negli dei.»
«Già.» convenne Luke. «È stato così per tutti, a parte Lys. E quando cominci a crederci, le cose non diventano affatto più facili.»
L'amarezza con cui lo disse non mi sorprese, anche se Luke sembrava un tipo piuttosto sereno. Aveva l'aria di uno capace di affrontare tutto, ma negli ultimi tempi era molto in difficoltà. Io lo sapevo, ma lui si rifiutava di parlarne. Lo vedevo cambiato, sorrideva meno ed era diventato più ombroso. Solo con me pareva tornare il ragazzo sereno di sempre.
«Lys?» domandò Percy.
«Io.» spiegai. «Luke mi chiama così e io lo chiamo Lucky.» dissi scambiando un sorriso con il figlio di Ermes.
«E se qualcuno prova a usare uno dei nostri soprannomi finisce dritto nel laghetto delle canoe.» commentò il figlio di Ermes, facendomi ridere.
«Davvero? E perchè?» chiese Percy curioso.
«Perchè la ragazza qui presente» disse Luke stringendo la presa su di me «è particolarmente possessiva quando si tratta delle persone a cui tiene e dei suoi soprannomi. Devi sapere che si inventa un soprannome per chiunque e solo lei può usarlo. Vedrai che ne inventerà uno anche per te.»
«Oh, ce l’ho già un soprannome per lui, ma non posso usarlo. Ancora.» spiegai misteriosa rifiutandomi di essere più chiara.
«E dunque tuo padre è Ermes?» chiese Percy cambiando argomento.
Luke tirò fuori un coltello a serramanico dalla tasca posteriore e prese a grattarsi via il fango dalla scuola dei sandali, nonostante la scomodità della posizione dovuta alla mia presenza. Stavo per spostarmi e lasciargli più spazio, ma lui me lo impedì. «Già, Ermes.»
«Il messaggero dai piedi alati.»
«Proprio quello. Messaggeri. Medici. Viandanti, mercanti, ladri. Chiunque usi le strade. Ecco perché sei qui, a godere dell'ospitalità della casa undici. Ermes non fa il difficile nella scelta dei suoi protetti.»
Gli strinsi la mano libera con la mia. Luke non aveva intenzione di dare a Percy della nullità. Aveva solo un sacco di cose per la testa.
«L'hai mai incontrato?» chiese Percy.
«Una volta.» Luke alzò lo sguardo su di lui e si sforzò di sorridere. «Non ci pensare, Percy. I ragazzi, qui, sono quasi tutti in gamba. Dopotutto, siamo una famiglia allargata, giusto? Ci prendiamo cura l'uno dell'altro.»
Io sorrisi a entrambi, come a confermare quelle parole.
«Clarisse mi prendeva in giro, come se volessi essere “roba dei Tre Pezzi Grossi”. Poi Annabeth, un paio volte, ha detto che forse potevo essere “lui”. Ha detto che dovrei parlare con l'Oracolo. Di che si tratta?» domandò Percy.
Doveva chiederselo da quando ne avevamo parlato quel pomeriggio.
Luke richiuse il coltello. «Odio le profezie.»
Io sospirai. «Tutti odiano le profezie, Luke. Le Profezie sono sempre brutte. Quando sentiremo una Profezia bella, ci sarà l'Apocalisse.» commentai.
«Che volete dire?»
Il suo viso si contorse attorno alla cicatrice mentre la sua presa su di me si faceva più salda. «Diciamo solo che ho sconvolto la vita di tutti. Negli ultimi due anni, da quando la mia spedizione al Giardino delle Esperidi è fallita, Chirone non ha più concesso imprese. Annabeth muore dalla voglia di uscire nel mondo. Ha tormentato Avie e Chirone così tanto che alla fine lui le ha detto di conoscere già il suo destino. Ha ricevuto una profezia dall'Oracolo. Non ha voluto rivelarle tutto, ma le ha detto che non era ancora destinata a un'impresa. Doveva aspettare finché... qualcuno di speciale non fosse arrivato al campo.»
«Qualcuno di speciale?»
«Non ci pensare, ragazzino.» disse Luke. «Ad Annabeth piace credere che ogni nuovo arrivato sia il segno che sta aspettando. E adesso andiamo, è ora di cena.»
Nello stesso momento, sentimmo il suono di una conchiglia in lontananza.
Luke gridò: «Undici, in riga!» poi mi aiutò ad alzarmi. «Mangi con noi?»
«Certo.» risposi. «Conosci la tradizione.»
Uscimmo nel cortile, una ventina di ragazzi in tutto, e ci disponemmo in fila in ordine di anzianità. Nonostante non facessi parte della casa undici, affiancai Luke. I ragazzi uscirono anche dalle altre case, tranne che dalle prime tre in cima e dalla numero otto, che era sembrata normale durante il giorno ma che ora cominciava a luccicare d'argento man mano che il sole tramontava.
Marciammo su per la collina fino al padiglione della mensa. I satiri ci raggiunsero dal prato, le Naiadi emersero dal laghetto del canottaggio. Altre ragazze spuntarono fuori dal bosco… letteralmente. Vidi una bambina di nove o dieci anni staccarsi dal tronco di un acero e scendere saltellando giù per la collina. Le Driadi.
In tutto, c'erano forse un centinaio di ragazzi, poche decine di satiri e una dozzina assortita di Naiadi e ninfe dei boschi.
Al padiglione, delle torce fiammeggiavano attorno alle colonne di marmo e un fuoco centrale ardeva in un braciere di bronzo grande quanto una vasca da bagno. Ogni casa aveva il suo tavolo, apparecchiato con una tovaglia bianca bordata di porpora. Quattro tavoli erano vuoti, ma quello della numero undici era fin troppo affollato. Mi dovetti accomodare sulle gambe di Luke, ignorando i fischi di routine dei suoi fratelli e degli altri ragazzi che ci osservavano dai tavoli accanto, e Percy si ritrovò sul bordo di una panca con mezza chiappa fuori.
Grover era seduto al tavolo dodici insieme al signor D, a qualche altro satiro e a un paio di ragazzi biondi e grassocci identici al signor D, i suoi due figli Castore e Polluce. Chirone stava in piedi da una parte, dal momento che il tavolo da picnic era decisamente troppo piccolo per un centauro.
Annabeth era seduta al tavolo sei con un gruppetto di ragazzi atletici e dall'aria seria, tutti con i suoi stessi occhi grigi e i capelli biondi come il miele, i suoi fratelli.
Clarisse invece era dietro di noi, al tavolo di Ares. A quanto pareva, aveva superato l'onta dell'annaffiatura, perché stava ridendo e ruttando allegramente con tutta la sua banda. Anche se dubitavo non si sarebbe vendicata di Percy in qualche modo.
Alla fine, Chirone batté con lo zoccolo sul pavimento di marmo, e si fece silenzio. Levò il bicchiere. «Agli dei!»
Tutti lo imitarono. «Agli dei!»
Le ninfe dei boschi portarono dei vassoi colmi di cibo: uva, mele, fragole, formaggio, pane fresco, e sì: una grigliata di carne!
«Parlagli. Chiedigli quello che vuoi... di analcolico, naturalmente.» sentii dire Luke a Percy mentre riempivo il mio piatto e quello della mia panca umana.
«Cherry Coke.» ordinò, allora, lui.
Il bicchiere si riempì di uno scintillante liquido color caramello.
Io gli feci un occhiolino e sillabai la parola “blu” con le labbra.
Cogliendo il mio suggerimento disse: «Cherry Coke azzurra.»
La Coca assunse subito una violenta sfumatura cobalto.
Ne assaggiò un sorso, poi mi sorrise riconoscente.
Sapevo a cosa stava pensando e non volevo si sentisse solo. Ma non potevo neanche incoraggiarlo. Non ancora comunque.
«Tieni, Percy.» disse Luke, porgendogli un vassoio di carne da cui io ci avevo già servito entrambi.
Lui riempì il piatto e stava per addentare un bel boccone quando gli toccai il braccio facendogli notare che si stavano alzando tutti e portavano i propri piatti verso il fuoco al centro del padiglione.
Gli feci cenno di seguirci.
Quando ci avvicinammo, Percy vide che gli altri sceglievano una porzione della propria cena e la gettavano alle fiamme: la fragola più matura, la fetta di carne più succosa, il panino più caldo e burroso.
Luke mormorò: «Bruciamo le offerte per gli dei. Gradiscono l'odore.»
«Stai scherzando!»
Dal nostro sguardo capì che non doveva prenderla alla leggera, ma era evidente che non capisse come un essere onnipotente e immortale dovesse gradire l'odore del cibo bruciato. Io trattenni un sorriso.
Luke si avvicinò al fuoco, chinò la testa e ci gettò dentro un grosso grappolo d'uva rossa. «Ermes.»
Io mi avvicinai a mia volta e gettai nel fuoco una pesca grande e succosa, sniffandone il fumo che ne scaturì come se non volessi altro. «Temi.»
Sorelle, pensai riferendo l’offerta anche a loro. Era il turno della mamma, quella sera, ma come ogni volta nella mia mente offrivo il cibo anche agli altri parenti.
Percy gettò alle fiamme una grossa fetta di petto di pollo arrosto.
Quando il fumo lo investì, però, non gli venne il voltastomaco come si aspettava. La sua sorpresa era così evidente sul suo volto che non potei fare a meno di ridacchiare.
Non somigliava affatto all'odore di cibo bruciato. Sapeva di cioccolato e biscotti appena sfornati, hamburger alla griglia e fiori selvatici e un centinaio di altre cose buone che, nonostante la stranezza degli abbinamenti, stavano benissimo insieme.
«Sì.» confermai con un sorriso attirando la sua attenzione. «Il fuoco sa di cibo. Di buon cibo. Talmente buono che a volte mi viene voglia di assaggiarlo.» conclusi facendolo ridacchiare.
Tornammo a sederci e finimmo di mangiare, poi Chirone fece di nuovo risuonare il suo zoccolo.
Il signor D si alzò in piedi con un gran sospiro. «Sì, suppongo che debba salutarvi, marmocchi. Ebbene: salve. Il nostro direttore delle attività, Chirone, dice che la prossima Caccia alla Bandiera è per venerdì. Al momento gli allori sono detenuti dalla casa numero cinque.» un coro sgraziato di esultanza si levò dal tavolo di Ares. «Personalmente» continuò il signor D «non me ne importa un fico secco, ma congratulazioni. Aggiungo che Avalon ha deciso di non partecipare, questa settimana, quindi evitate di sfinirla con le vostre richieste. Inoltre, devo dirvi che oggi abbiamo un nuovo arrivato: Peter Johnson.»
Chirone mormorò qualcosa e io alzai gli occhi al cielo. Tipico dello zio sbagliare tutti i nomi a parte il mio e quelli dei suoi figli.
«Ehm, Percy Jackson.» si corresse il signor D. «Giusto. Urrà e via discorrendo. Adesso correte al vostro stupido falò. Via!»
Tutti esultarono.
Ci dirigemmo verso l'anfiteatro, dove la casa di Apollo guidava il coro. Cantammo le canzoni del campeggio sugli dei, mangiammo i marshmallows arrostiti sul fuoco e ci scatenammo.
Tenni d’occhio Percy e lo vidi sempre più rilassato. Si stava sentendo finalmente a casa e ne ero felice. Dopotutto, quella era casa mia.
Più tardi, quando le scintille del falò si levarono roteando verso un cielo stellato, il corno a conchiglia risuonò di nuovo e rientrammo nelle case. Salutai i ragazzi e mi diressi alla Casa Grande: avrei dormito lì per quella sera.
   
 
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