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Autore: InvisibleWoman    18/12/2021    1 recensioni
[Un Professore]
[Un Professore]Un missing moment che ho sentito mancare nell'episodio finale. Tutto ciò che poteva essere successo per me tra l'incidente di Simone e il suo risveglio, visto soprattutto dal punto di vista di Manuel. Enjoy!
Genere: Angst, Drammatico, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Manuel sedeva sdraiato sulle gambe della madre, la mano di lei che delicatamente gli carezzava i capelli, la quiete dopo la tempesta, l’adrenalina che lentamente lasciava il posto alla tranquillità e alla certezza che da quel momento in poi sarebbe stato libero. Si vergognava per essere finito in quel giro, per aver creduto di essere abbastanza maturo e adulto da potersela cavare da solo. Era stato invece risucchiato in un vortice dal quale non era più riuscito a tirarsi fuori e, se adesso era libero, in parte lo doveva pure a Simone che, pur sbagliando, aveva comunque cercato di dargli una mano a modo suo. 
In quell’istante, tra le braccia materne, si sentì al sicuro, abbastanza da aprirle il suo cuore. Perché Manuel sapeva bene di avere sbagliato, ma la verità era che non sapeva dare un senso e un nome a quel tumulto di pensieri che impegnava la sua mente nell’ultimo periodo. Non c’era stata solo la questione di Sbarra a preoccuparlo, ma anche il suo rapporto con Simone. Che cosa gli era preso? Perché l’aveva baciato? Gli era bastato sentirsi dire da una persona che non voleva lasciarlo, che gli voleva bene, per credere che quell’affetto significasse qualcosa di più? Era vero, con Simone era diverso, con Simone tutto aveva un’intensità differente e non riusciva ancora a spiegarsi come fossero diventati tanto vicini in così poco tempo. Non ricordava nemmeno più i motivi che li avevano spinti più volte alle mani. Sembrava una  vita fa.
Eppure, lui era attratto dalle donne, questa per lui era l’unica certezza. Aveva voluto bene a Chicca e si era sentito grande e maturo a frequentare Alice. Che altro c’era da dire? I suoi sentimenti erano chiari. E allora perché, ogni volta che Simone provava a tirare fuori l’argomento, lui sentiva il bisogno di mettere una netta distanza tra di loro? Di distruggere Simone, in modo da allontanarlo? Gli occhi feriti e colmi di lacrime di lui si erano piantati sulla sua retina come un fermo immagine che non voleva più lasciarlo. Non avrebbe dovuto dirgli quelle cose. Non le pensava nemmeno. Eppure era la seconda volta che finiva per trattarlo nel modo più crudele possibile, trasformandosi in una persona che sapeva di non essere. Perché Manuel non era omofobo, non era un ragazzo superficiale, di questo ne era convinto. Ma in presenza di Simone non riusciva a controllare quel filtro naturale che selezionava ciò che la testa pensava e ciò che la lingua pronunciava. Sentiva solo una miriade di sensazioni a cui non sapeva dare un nome, che non sapeva cosa volessero dire e si domandava perché, tra tanti, stessero dando fastidio proprio a lui. 
Manuel, tuttavia, era pentito. Teneva a Simone molto più di quanto gli dimostrasse. Non meritava di essere trattato in modo tanto meschino, specialmente dopo essersi spinto tanto in là per provare a difenderlo e tirarlo fuori dai guai con Sbarra. Era stato uno stronzo, non c’era altro modo per definirlo. 
“Ho perso pure Simone” disse a sua madre, che continuava a passare le dita tra i suoi ricci ribelli e si arrestò di colpo al sentire quelle parole.
“Non l’hai perso Simone” lo confortò con tono materno, pur non sapendo cosa li avesse spinti a litigare e allontanarsi. Anita sapeva ciò che Simone provava per lui, perché era stato proprio Dante a raccontarglielo. Si chiedeva se suo figlio ne fosse a conoscenza. Nonostante ciò, era convinta che avrebbero trovato il modo di chiarire, come avevano sempre fatto fino a quel momento.
“E invece sì” rispose lui afflitto. Questa volta sapeva di essersi spinto troppo in là. Non lo aveva solo rifiutato e umiliato, gli aveva persino fatto credere di non avere alcun valore per lui. “Tu per me non esisti”, quelle parole continuavano a riecheggiargli nella mente come un disco rotto. Quanto avrebbe voluto rimangiarsele, poter tornare indietro e gestire le cose in modo diverso. La verità era che Manuel non era grande, non era maturo, non era un adulto. Era solo un ragazzino alle prese con qualcosa più grande di lui, qualcosa che non aveva gli strumenti per affrontare e chi ne aveva fatto le spese era stato Simone. 
Proprio in quell’istante, come se dentro di sé sentisse che stesse per accadere l’irreparabile, il rumore di qualcosa che si infrangeva contro i cassonetti portò entrambi a sussultare, tirandosi fuori dal letto con rapidità per affacciarsi alla finestra.
“E’ Simone!” urlò Manuel. “Simo!” lo chiamò spaventato, nella speranza che il suo amico gli rispondesse, che gli desse qualche cenno. Pochi momenti prima aveva detto a sua madre che aveva perso Simone, e adesso rischiava veramente di averlo perso per sempre. 
Scese i gradini a due a due, con il cuore che gli martellava nel petto e la visione offuscata dal panico e dal terrore. Gli si accovacciò vicino, prendendogli la testa coperta dal casco tra le mani.
“Non lo toccare” disse Anita. “Potrebbe avere qualche lesione” gli spiegò sua madre.
“E’ pieno di sangue, ma’” esclamò spaventato, avvicinando una mano al suo viso. Non aveva mai affrontato una situazione del genere. Non aveva mai visto nessuno stare male e rischiare la vita. Fino a quel momento quella di Manuel era stata un’esistenza piuttosto facile, in fondo. Sua madre, pur disastrata e problematica, non gli aveva mai fatto mancare nulla e aveva sempre cercato di proteggerlo. Come faceva a sapere cosa fare? Come faceva a mantenere la calma necessaria per chiamare un’ambulanza, quando tutto ciò a cui Manuel riusciva a pensare era solo Simone steso per terra inerme? 
“Lo so, Manuel, stai tranquillo” provò a dirgli lei accovacciandosi a sua volta per controllare che Simone fosse ancora vivo. 
“E’ colpa mia” mormorò tra sé, mentre Anita metteva giù il cellulare e lo informava che l’ambulanza sarebbe arrivata tra pochi minuti. 
“Ma che dici, Manuel. No che non è colpa tua” lo confortò, prendendogli il viso tra le mani per costringerlo a guardarla negli occhi. “Non pensarlo neanche per scherzo.”
“Se non gli avessi detto quelle cose, se gli fossi stato accanto dopo avergli detto di suo fratello…” pronunciò con un filo di voce. Era stato un pessimo amico. Lo aveva abbandonato nel momento del bisogno, lasciandolo da solo coi suoi fantasmi, facendogli credere di non poter contare su di lui. Peggio, che a Manuel non interessasse minimamente di lui. Quanto doveva essersi sentito solo: tradito dal padre e dall’unica persona alla quale avesse rivelato le proprie confidenze.
“Non potevi impedirlo. Non toccava a te controllarlo, Manu” gli passò una mano sul viso, fermandosi sulla sua guancia. Quanto le faceva male vedere suo figlio soffrire. Non osava immaginare cosa avrebbe provato Dante dopo aver saputo di Simone.
Ma per quanto le parole di sua madre potessero cercare di dargli  conforto, Manuel la verità la conosceva. Forse non avrebbe potuto impedirgli di salire su quella moto, ma forse Simone non ci sarebbe voluto salire nemmeno se lui gli fosse stato accanto, se gli avesse dato modo di sfogarsi, se non lo avesse rifiutato in modo tanto meschino e crudele. Se si fosse comportato da amico
Non le rispose, intanto sentiva le sirene farsi sempre più vicine. I suoi occhi puntati sul viso tumefatto di Simone e la salivazione azzerata. Vide due uomini parlare con sua madre e poi avvicinarsi al corpo di Simone. Li osservò mentre gli sfilavano lentamente il casco dalla testa e lo posizionavano su una barella, tenendogli il capo fermo tra due cuscini. 
“Posso salire? Oh, mi fate salì?” chiese agitato a uno di loro, mentre sua madre chiedeva all’altro in quale ospedale l’avrebbero portato. Manuel voleva esserci, nel caso Simone avesse aperto gli occhi. Non voleva che si svegliasse da solo, in un luogo che non conosceva, senza che potesse capire cosa stesse accadendo.
“Saresti solo d’intralcio. Potete seguirci con la macchina” gli rispose secco questo, chiudendo la portiera dell’ambulanza senza nemmeno dargli tempo e modo di protestare.
“Ma’, piglia il casco” disse a sua madre mentre correva a tirare fuori dal garage il suo motorino.

Raggiunsero l’ospedale prima della vettura e poterono osservare ogni movimento dei due uomini mentre tiravano fuori Simone e lo portavano dentro l’ospedale. Lo aveva seguito con gli occhi fino all’ultimo momento, poi era sparito tra i corridoi e per ore non aveva più saputo niente. Aveva sentito sua madre chiamare Dante e lo aveva visto arrivare con aria trafelata, chiedendo a lui cosa fosse successo e perché. 
“Gli ho detto di suo fratello” gli confessò Manuel, mortificato. 
“Ma come ti passa per la testa, dico io” gli andò contro Dante. “Non spettava a te dirgli tutto. E poi come hai fatto a saperlo?” domandò furioso.

“Sono stata io. Speravo riuscisse a tenerselo per sé, mi dispiace” mormorò Anita, avvicinandosi a Dante per toccargli un braccio. Lui si allontanò, rifugiandosi davanti alla finestra con aria afflitta. 
Di quella notte i ricordi si erano fatti nebulosi. Manuel non ricordava da quanto tempo fossero lì, né quando i suoi occhi si fossero chiusi, troppo stanchi per riuscire a tenerli aperti.
“Ti accompagno a casa” gli sussurrò sua madre chinandosi su di lui.
“No” rispose secco Manuel, che non aveva alcuna intenzione di andarsene di lì senza prima aver visto Simone. Che cosa avrebbe fatto se non ce l'avesse fatta? Come poteva andare avanti con la sua vita sapendo di aver giocato un ruolo fondamentale nella sua morte? Non se lo sarebbe mai perdonato. Lui doveva sapere che gli voleva bene, che era importante e per il momento l'unica cosa che poteva fare era restare lì.
“Come vuoi” rispose, allontanandosi per raggiungere la macchinetta e prendere un caffè.
La voce di una dottoressa lo risvegliò qualche ora dopo, facendolo scattare immediatamente sull’attenti. Era un fascio di nervi, non sapeva cosa stesse accadendo a Simone, se stesse bene. Per ore nessuno era venuto a raccontargli niente. Si rimise in piedi e si avvicinò a Dante e a sua madre, ascoltando la notizia migliore che potessero dargli. Simone era salvo. Sarebbe andato tutto bene, pensò tirando un sospiro di sollievo. 
“Posso vederlo?” domandò Dante.
“Sì, ma solo lei. Non lo affatichi,  mi raccomando” gli rispose lei e in quel momento Manuel aveva solo voglia di protestare. Era rimasto lì per tutta la notte in attesa di potergli parlare, e la sola idea di dover trascorrere un’altra giornata in quel modo, gli sembrò insostenibile. 
“Scusi, dopo suo padre posso entrà pure io?” Manuel andò a chiederle, fermandola prima che potesse andare via. 
“Mi dispiace, si è appena svegliato dall’anestesia, ha subito un intervento e…” Manuel la interruppe.
“Oh, la prego! Solo un minuto” provò a convincerla.
“Dai, Manuel, non insistere. Se lo vedi domani non cambia nulla. L’importante è che stia bene” provò a intermediare sua madre. Ma lei non poteva capire. Manuel aveva bisogno di vederlo, aveva bisogno di parlargli. Non poteva aspettare altre ventiquattro ore prima di scusarsi con lui. 
“Va bene, ma solo un minuto” si arrese la giovane dottoressa, placando i nervi di Manuel. 

 

“Non sei solo, Simone. Non lo sei mai stato” Dante disse a suo figlio. Steso su quel letto di ospedale non riuscì a non riportare alla mente i ricordi di dodici anni prima. Quella ferita che mai si sarebbe rimarginata e quella sofferenza che aveva voluto risparmiare almeno a Simone, ma che invece gli si era ritorta contro, ferendolo mille volte di più. Aveva sbagliato, di questo ormai ne era certo, ma non poteva più tornare indietro per cambiare le cose. Potevano solo andare avanti e ricostruire da lì. 
“Non dire mai più, neanche per scherzo, che volevi morire. A noi non resti nient’altro che tu.”
Simone osservò il padre, vulnerabile e privo di maschere, per la prima volta da che ne aveva memoria. Iniziò a domandarsi come sarebbe potuto essere il loro rapporto se gli avesse raccontato sin da subito di Jacopo. Quanti anni avevano sprecato tenendosi a distanza. Quanta rabbia si erano riversati l’un altro. Simone si era davvero sentito solo, abbandonato. Non aveva nessuno con cui confidarsi, nessuno che potesse ascoltarlo e stargli accanto. Suo padre gli aveva mentito per tutta la sua vita e Manuel… beh, Manuel lo aveva rifiutato nel peggior modo possibile. “Tu per me non esisti”, si ripeteva mentre guidava disperato su quella moto. Tutte le certezze gli si erano sgretolate nell'arco di una giornata. “Non so chi cazzo sei” gli aveva detto suo padre, e pensandoci bene non lo sapeva nemmeno lui. Come aveva potuto fare quelle cose a Pin? Che persona era diventata? Quanto si vergognava, quanta rabbia stava covando verso se stesso, iniziando a pensare che forse aveva meritato di essere rifiutato da suo padre e da Manuel. Non meritava il loro affetto. 
Su quella moto non sapeva nemmeno lui cosa stesse facendo, né dove volesse andare. L’istinto lo stava portando da Manuel, ma non sapeva spiegarsi il perché. Lui non contava niente, e Simone in fondo lo aveva sempre saputo. Che lui vivesse o morisse non faceva alcuna differenza nell’esistenza di tutti quelli che gli orbitavano intorno, perché lui non contava niente. Non era stato abbastanza nemmeno per suo padre, che aveva preferito farsi da parte dopo la perdita di Jacopo. Lui era vivo, era stato lì per tutti quegli anni, perché suo padre non aveva cercato di dare a lui ciò che non avrebbe mai più potuto dare a suo fratello? Si sentiva in colpa per quei pensieri tanto egoisti. Jacopo non solo non c’era più, ma lui non lo ricordava nemmeno. Aveva cancellato una parte di sé dalla sua vita. Chi faceva una cosa del genere? Si era sentito talmente disperato e senza speranza, che l’unica cosa che aveva pensato di fare fosse quella di autodistruggersi. Tanto che differenza faceva?
Ma adesso che giaceva su quel letto indolenzito e vedeva suo padre con gli occhi colmi di lacrime per la paura di perderlo, si era reso conto della stupidaggine che aveva rischiato di compiere. 
“Mi dispiace, papà” disse Simone, mentre la mano di Dante si avvicinò alla sua per stringerla forte e infondergli fiducia.
“Non importa, l'importante è che tu stia bene. A me dispiace di più. Non avrei dovuto mentirti. Ci sarei dovuto essere per te” gli rispose, colmo di rimorso. 
Simone osservò in silenzio il suo volto stanco e provato e riuscì solo a dire “povero papà” mentre una lacrima gli bagnò il guanciale del cuscino. 
“Non sei solo, hai capito?” gli ripeté ancora una volta. “Ci sono tante persone che tengono a te. Tante persone per cui la tua vita ha un valore inestimabile. Non dimenticarlo mai” gli ricordò.
E Simone non poté fare a meno di ripensare ancora una volta alle parole di Manuel, che gli avevano scavato il cuore, lasciandogli una ferita profonda che non riusciva ancora a risanarsi. Lo aveva colpito lì dritto dove faceva più male, facendo centro su uno dei suoi punti più deboli.
“Anche Manuel è qui fuori. E’ rimasto tutta la notte ad aspettare tue notizie” gli spiegò Dante con un sorriso, come se fosse in grado di leggergli nel pensiero.
“Manuel?” domandò Simone confuso. 
“E’ lui che ti ha trovato. Ma ti pare il caso di andarti a schiantare proprio sotto casa sua?” Dante scosse la testa quasi divertito.
“Puoi farlo entrare?” gli chiese speranzoso. Se Manuel era lì, questo doveva pur significare qualcosa. Simone avrebbe dovuto essere arrabbiato con lui, e una parte di sé non voleva effettivamente vederlo. Ma l’altra… l’altra non riusciva a chiedersi come mai, se non contava nulla, Manuel fosse rimasto tutta la notte in ospedale per lui. 
“La dottoressa ha detto che non devi affaticarti” gli intimò preoccupato Dante.
“Non mi affatico, te lo prometto.”
“Va bene” gli concesse con un cenno del capo, uscendo dalla stanza per lasciare spazio a Manuel, che già aspettava lì fuori in trepidante attesa.
“Professò, m’hanno detto che per un minuto posso entrare” si giustificò.
“Vai tranquillo, anche Simone vuole vederti” aggiunse lui, tenendogli aperta la porta. 

Manuel entrò cauto dentro la stanza, all’improvviso tutta la sicurezza e la tenacia che aveva avuto fino a pochi istanti prima, sembrava venirgli meno. “Tu hai una forza incredibile, che è quella delle persone amate ma giustamente irraggiungibili. Basta una tua parola per fargli molto male” e Manuel aveva fatto proprio questo. Si sentiva uno schifo e aveva il timore che Simone non volesse più saperne di lui. Avrebbe avuto pure ragione, in fondo. 
“Ciao” gli disse piano. Simone era steso sul letto, una benda gli fasciava la testa e qualcosa gli bloccava il braccio sinistro. Alle narici portava l’ossigeno, ma gli occhi erano aperti e rivolti verso la finestra posta al lato opposto alla porta. Si voltò non appena sentì la sua voce, ma il suo sguardo non lasciava trapelare alcuna emozione. Dante gli aveva detto che Simone voleva vederlo, ma era davvero così? Aveva subito un intervento e una lavanda gastrica, oltre al trauma cranico che lo avrebbe accompagnato per le settimane a venire: era comprensibile che non fosse al massimo della forma e non lo accogliesse con un sorriso a trentadue denti. Tuttavia, Manuel non poté fare a meno di sentirsi scoraggiato da quel trattamento. Rimase a fissarlo a distanza, indeciso a fare qualche passo per avvicinarsi. 
“Oh, hai intenzione di sprecare così il tuo minuto di udienza?” lo prese in giro Simone. 
“Sei un cretino” gli rispose Manuel avvicinandosi per sedersi sulla sedia lasciata vuota da Dante. E cretino lo era davvero anche per quello che aveva combinato, infilandosi in quella storia con Sbarra e abusando delle pasticche che lui gli aveva affidato. Aveva rischiato la propria vita e Manuel avrebbe tanto voluto prenderlo schiaffi, se non lo avesse visto già abbastanza provato dall'incidente.
“Come ti senti?” gli chiese sedendosi. 
“Una merda” rispose onestamente Simone. 
“Ah vabbè, niente di nuovo allora” scherzò Manuel accennando un sorriso.
“Sei sempre uno stronzo” ribatté stanco, con un filo di voce. 
Manuel lo osservò per qualche istante, mentre il sorriso gli moriva lentamente sul viso. Sapeva di dovergli delle scuse, ma non era mai stato semplice capire come cominciare e ammettere i propri errori. 
“Simò, io te volevo di’...” iniziò, abbassando lo sguardo sul petto di Simone, pur di non guardarlo negli occhi. “Vabbè, insomma, te volevo di’ che mi dispiace per quello che t’ho detto.”
“Hai detto così anche la prima volta” Simone provò a tenere il punto almeno per qualche istante. Quell’incidente e soprattutto il chiarimento con il padre, gli avevano dato una maggiore consapevolezza di se stesso e di ciò che era. Non solo non era disposto a farsi prendere ancora in giro da Manuel, ma ormai aveva anche capito che tra di loro non c’era e non ci sarebbe stato mai nulla. Manuel era un capitolo chiuso, poteva smetterla di preoccuparsi. Non lo avrebbe più disturbato. 
“C’hai ragione, c’hai” ammise sospirando. “Però, come l’altra volta, non lo pensavo davvero. Infatti sto qua, no?” disse senza sottolineare quello che per lui era l’ovvio: era lì, si era preoccupato per lui, aveva avuto paura di perderlo, e quella era la dimostrazione che a Simone ci teneva eccome. E pure parecchio. 
“Sì, sei qua” concordò Simone guardando il suo viso contratto in un’espressione indecifrabile. Anche Manuel, come suo padre, aveva un aspetto stanco e stropicciato. Aveva fatto passare a entrambi una nottataccia. Pensò che in fondo lui non doveva essere messo tanto meglio, anzi. In quel momento aveva male dappertutto, segno che l’effetto dell’anestesia iniziava già a diminuire.
“Mi dispiace anche perché te dovevo restà accanto e invece non ce so stato” gli confessò. Quella che aveva ricevuto era una notizia sconvolgente, che lasciava solo immaginare il trauma profondo che Simone aveva vissuto da bambino e che aveva condizionato la sua intera esistenza. E invece di aiutarlo, tutto quello che era riuscito a dirgli era che stava facendo una cazzata. Lo aveva lasciato andare via su quella moto e non lo aveva seguito. 
“Non potevi fare niente. Era una cosa che dovevo affrontare da solo. E con mio padre” Simone gli alleviò la condanna, sebbene non fosse esattamente la verità. Poterne parlare con qualcuno, avere il suo appoggio che per lui contava molto, forse non avrebbe fatto la differenza, ma quantomeno lo avrebbe aiutato a sentirsi meno solo. La verità era che da quando aveva ricevuto quella notizia, Simone aveva finalmente dato un nome a quel vuoto  che sentiva da sempre dentro di sé. Come quella sensazione strana che capitava spesso a chi subiva una mutilazione, che li portava di tanto in tanto a sentire quell’arto fantasma, come se fosse ancora attaccato al loro corpo. Simone per tutta la sua vita aveva percepito quell’assenza, senza riuscire a darsi una spiegazione. Ma adesso ogni tassello era andato al proprio posto e il puzzle mostrava un’immagine che, seppur ancora sfocata, era tornata intera. Tutto ciò che restava era il rimorso e il senso di colpa per quel fratello che non aveva avuto modo di vedere crescere e che aveva dimenticato, cancellandolo dalla sua vita come se non avesse alcuna importanza. 
“Ma ora che lo sai… te ricordi lui, no?” gli chiese d’un tratto Manuel. Simone corrugò la fronte e scosse la testa sconsolato. Quella era la cosa peggiore. 
Allora Manuel si chinò sullo zaino che aveva portato con sé dentro la stanza e aveva appoggiato sul pavimento e lo aprì. Simone sentì il suono della zip e lui che cercava qualcosa al suo interno, poi finalmente si sollevò e poggiò sul suo petto un dinosauro di gomma. 
“Che ce devo fa con questo? Lo sai che non c’ho più tre anni?” sorrise Simone. 
“Tu no, ma Jacopo sì. Era suo” gli confidò Manuel con un cenno della testa. 
“Ma come suo? Che dici?” chiese.
“Eh, nel senso che era suo. Quando si è ammalato eravamo compagni di stanza. Me l’ha detto mia madre. A quanto pare m’ero affezionato a ‘sto pupazzo e quando lui è… beh, tuo padre me l’ha regalato. Ce l’ho da allora” gli rivelò con un sorriso. “Ma ora è giusto che ce l’abbia tu.”
Simone lo fissò confuso, poi gli occhi gli si inondarono di lacrime mentre portava la mano sana al pupazzo di gomma. Era l’unica cosa che avesse di suo fratello. L’unico ricordo, che poi in fondo nemmeno gli apparteneva. 
Nel vederlo piangere, istintivamente la mano di Manuel si poggiò lenta sul suo braccio ferito con l’istinto di confortarlo. Simone rimase in silenzio per un po’ a fissare quel pupazzo che in qualche modo aveva fatto da nesso tra la sua vita e quella di Manuel. Jacopo aveva fatto loro da tramite, legandoli indissolubilmente. Quanto sapeva essere assurda e complicata la vita, a volte. Suo padre avrebbe certamente pensato a qualche filosofo per dare un senso a quella vicenda, trovandogli un significato importante e profondo. Ma Simone, che di quelle cose non ci capiva niente, lo vide solo come un segno del destino. 
“Ma tu che ci facevi in ospedale con lui?” gli chiese dopo un po’. 
“Ma che ne so, avevo sbattuto la capoccia da qualche parte” provò a spiegare Manuel.
“Ah, ecco perché sei così. Da bambino t’hanno buttato giù dal seggiolino” lo prese in giro.
“Sta parlando quello che s’è schiantato contro un materasso” continuò a sua volta, sorridendo nel vedere il suo amico meno cupo e triste. 
“Voglio andare alla sua tomba” gli rivelò d’un tratto Simone, asciugandosi gli occhi umidi con un rapido gesto della mano. 
“Appena esci da qua te ci porto io” rispose Manuel. “Te lo prometto.” 
E la mano di Simone si spostò su quella di Manuel per stringergliela, in cerca di un appiglio, di una boa che lo aiutasse a tenersi a galla in quel mare di emozioni che sembrava soffocarlo. Manuel non la ritirò, come di recente aveva fatto dopo ogni suo contatto, ma la strinse a sua volta. Voleva essere lui quell’appiglio, perché anche se non aveva ancora capito che nome dare a quei sentimenti, dopo quella nottata una cosa gli era chiara: non voleva perderlo. Non poteva perderlo.

  
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