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Autore: ValePeach_    27/12/2021    1 recensioni
Inghilterra, 1826
Quando la sorella maggiore ed il marito decidono di partire per una stravagante quanto inaspettata luna di miele in Italia e di mandare la giovane Camille al nord per tenere compagnia ad un suocero che odia qualsiasi tipo di contatto con la società ed una zia bisbetica molto più affezionata ai suoi amati gatti che alle persone, con grande sconforto inizierà a pensare che la sua vita sia finita.
Stare lontana da Londra e dal ton è quanto di peggio le potesse capitare e tutto ciò che spera è di tornare presto alla normalità. Ancora non sa, però, che anche la tranquilla e monotona vita di campagna può riservare svolte inaspettate… e fra l’arrivo dell’insopportabile quanto affascinante John Mortain e l’accadimento di un omicidio che la vedrà inaspettatamente coinvolta, inizierà a pensare che, forse, una vita anonima non era poi tanto male.
Genere: Mistero, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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CAPITOLO 4

 
 

 
«Bè, direi che come prima cena non è andata male» disse Daniel, dopo aver ascoltato il breve racconto di John.
Lui invece sospirò pesantemente, premendosi le dita della mano libera dal bicchiere di brandy sulla tempia. Gli era venuto un gran mal di testa e aveva la spaventosa tentazione di scolarsi l’intera bottiglia.
«Ma fammi il piacere» rispose infatti, mentre anche Daniel si versava un bicchiere e si sedeva sulla poltrona di fronte a lui. Al signor Montgomery era quasi venuto un colpo apoplettico quando aveva chiesto di far salire in salotto il signor Cooper e aveva congedato sia lui che il cameriere, ma al diavolo l’etichetta. Aveva bisogno del suo migliore amico. 
«Dico sul serio… hai superato la prova in modo brillante. Non che avessi dubbi, sei sempre stato meticoloso su questo genere di cose» una breve pausa, un sorso di brandy. «Solo non capisco perché tu sia stato così scorbutico nei confronti della signorina Grey. Al piano di sotto Fox, il cameriere, ci ha raccontato che la signorina ti lanciava saette.»
«Ha detto così?»
«Proprio così: saette! Anche se diceva che lo ha fatto più per il rimprovero della contessa che per il vostro breve battibecco. A quanto pare odia essere rimbeccata davanti alla servitù. Com’è che l’ha definita? Ah sì… una viziata capricciosa e saccente. E, strano ma vero, nonostante fosse presente anche la signora Potter non l’ha messo a tacere. A me comunque è sembrata assolutamente gentile e cordiale, dunque mi chiedo cosa ti abbia mai fatto per meritarsi un trattamento simile.»
John non rispose, preferendo svuotare il bicchiere.
Era stato molto prudente nel corso di quegli undici anni. Non si era mai fatto vedere in Inghilterra per paura che qualcuno lo riconoscesse e le lettere indirizzate a lui in Jamaica gli venivano rispedite a Londra al quartier generale dal signor Timothy, l’amministratore che aveva lasciato nelle piantagioni. Una volta ricevute, lui le rispediva in città, dove i segretari le mandavano ai destinatari.
Era stato molto prudente anche prima di tornare. Aveva ripetuto insieme a Daniel per filo e per segno almeno cento volte la storia che avrebbero raccontato. Inventare frottole dopotutto faceva parte del suo lavoro e aveva architettato tutto minuziosamente, credendo di essersi preparato a sufficienza: aveva previsto le domande di suo padre e infatti era riuscito a liquidare la sua curiosità durante il breve incontro del pomeriggio; aveva previsto le esclamazioni melodrammatiche di zia Shaw e il fatto che avrebbe parlato della guerra; per precauzione si era preparato anche ad un eventuale incontro con Jamie.
Non si era però preparato a Camille.
Era solo un modo per evitare l’argomento?
Aveva fatto centro.
Seppur inconsapevolmente in nemmeno un’ora lo aveva smascherato. E lui era rimasto senza parole come un idiota. Per fortuna ci aveva pensato zia Shaw a distogliere l’attenzione, ma era sicuro che avesse notato il suo tentennamento. Le giovani donne erano abituate ad osservare i piccoli dettagli, lo avevano imparato dalle madri, e nonostante per la maggior parte fossero sciocche e petulanti, erano portatrici sane di curiosità. Colpa forse dei romanzi che negli ultimi anni andavano di moda, ma Camille sicuramente non faceva eccezione. Gli avrebbe chiesto ancora della Jamaica, aspettandosi probabilmente descrizioni poetiche e romantiche di paesaggi, della vita di una piantagione e delle persone che ci vivevano.
E lui non sapeva come comportarsi.
Era abituato agli imprevisti, succedevano sempre, eppure Camille era quel tipo di inconveniente che avrebbe messo a dura prova la sua pazienza e capacità di razionalizzare. Non perché avrebbe chiesto della Jamaica. Non perché fosse talmente bella da togliere il fiato e aveva quei grandi occhi ambrati incapaci di nascondere le emozioni, ma perché rappresentava esattamente ciò che più lui odiava: superficialità, vanità e frivolezza. E poteva benissimo dare ragione a Fox: era sicuramente viziata e capricciosa. Dopo il piccolo rimprovero di zia Shaw ad esempio non aveva più parlato. Se ne era rimasta immusonita limitandosi ad annuire e a pronunciare frasi di circostanza.
Era per colpa delle persone come lei che se ne era andato e adesso trovarsene una sotto il proprio tetto, doverci avere a che fare ogni giorno… non era sicuro di riuscirci. Per quello era stato maleducato con lei.
«Non sarei dovuto tornare» disse, versandosi altro brandy. «Mi sono prodigato così tanto per inventarmi la storia della Jamaica che avrei potuto andarci davvero. Dimmi, perché non lo abbiamo fatto?»
«Perché nessuno con un briciolo di cervello vorrebbe vivere in una dannata piantagione!» esclamò Daniel senza esitazione. «E ti mancava la famiglia» aggiunse a bassa voce. «Ti conosco da troppo tempo amico mio, so quanto hai sofferto la lontananza e quanto ti sentivi in colpa… puoi anche non riconoscerlo a te stesso, ma se fossi onesto diresti che non aspettavi altro che un’occasione per tornare.»
«E allora perché vorrei solo scappare?»
«Il perché lo sai benissimo… e non sarà ubriacandoti o prendendotela con una ragazza che risolverai la situazione.»
John fissò il bicchiere ormai vuoto.
Amali e dimentica tutto.
Daniel aveva ragione, come sempre: scappava perché non era mai riuscito ad andare oltre quel campo di battaglia. E di sicuro se continuava a comportarsi così non avrebbe risolto nulla un’altra volta. Non che lo volesse davvero, ma doveva provarci… almeno per il quieto vivere.
Doveva ammettere però che non gli sarebbe dispiaciuto battibeccare con Camille, soprattutto se voleva dire vedere quel delizioso broncio e quel cipiglio arrogante di chi crede di aver sempre ragione e di riuscire ad averla sempre vinta. Già immaginava le sue smorfie… e forse un po’ di leggerezza era proprio quel che gli serviva.
Preferì comunque versarsi un altro bicchiere di liquore, giusto per non perdere le vecchie abitudini.

 
 
***__*__***

 
 
Il mattino seguente si svegliò che erano le dieci passate. Stranamente era riuscito a prendere sonno quasi subito e complici i cinque bicchieri di brandy che si era scolato, aveva dormito come un ghiro per tutta la notte. Incredibile ma vero, non aveva nemmeno mal di testa.
Non credeva di riuscire a dormire… almeno non così a lungo. Da sveglio i pensieri non lo lasciavano in pace un secondo, eppure in quel particolare momento si sentiva quasi bene. E preferiva lasciarlo quel quasi, perché da quella giornata non sapeva proprio cosa aspettarsi.
Così, come era sempre stato abituato a fare prima di qualsiasi mossa, fece rapidamente mente locale.
Se avesse incontrato suo padre, quasi certamente avrebbe insistito affinché si presentasse come si deve alla buona società di Windermere. La sera prima sembrava piuttosto sicuro sul fatto che avrebbero iniziato ad arrivare lettere di inviti, ergo doveva trovarsi nello studio intento a smistare la tanto agognata corrispondenza… ergo era meglio evitare quel posto. Poteva invece ritenersi salvo da zia Shaw, in attesa delle amiche per il tè del pomeriggio. Quanto a Camille… era principalmente lei il motivo di quel quasi.
Sospirando si passò le mani prima sulla faccia e poi fra i capelli, rimanendo a fissare il soffitto di legno del baldacchino.
Cosa doveva fare?
Ignorarla era impossibile. Una come Camille non poteva sperare di passare inosservata. Scusarsi poi era fuori discussione. Sebbene il suo comportamento fosse stato alquanto inaccettabile, non era stato né troppo maleducato né tantomeno irrispettoso, dunque non sussisteva alcuna buona causa per presentare le sue scuse. Ci avrebbe parlato, ma solo se non avesse potuto fare altrimenti. Una banale conversazione sul tempo poteva ritenersi sufficiente.
Prima però ci voleva una buona colazione… soprattutto perché in sala da pranzo non avrebbe incontrato nessuno. Solo lui e un cameriere. La giornata non poteva iniziare meglio. Tirò quindi la corda del campanello e in pochi minuti Daniel entrò, andando per prima cosa ad aprire le tende facendo entrare la luce del sole.
«Iniziavo a pensare che fossi scappato per davvero» esordì, mentre tirava fuori dai cassettoni una camicia e dei pantaloni beige.
«L’idea di fondo c’era, ma poi sono stato troppo impegnato a dormire.»
«L’aria di casa allora ti fa bene… preferisci la giacca verde muschio o quella porpora?»
«Perché me lo chiedi? Una vale l’altra» fece noncurante, ignorando di proposito la prima parte della frase. Per come la vedeva, avrebbe volentieri preferito che l’aria di casa gli facesse venire l’orticaria.
«Sto solo cercando di comportarmi adeguatamente… dopo ieri sera il signor Montgomery mi ha rimproverato dicendomi che ti do troppa confidenza. A nulla sono serviti i tentativi di spiegargli che siamo stati compagni d’arme prima e poi insieme in Jamaica, lui ha ribadito che non ci troviamo più né in guerra né nelle piantagioni e quindi mi devo comportare di conseguenza.»
«Stupidaggini… parlerò con Montgomery oggi stesso.»
«Preferirei non lo facessi. Dopotutto ha ragione e non vorrei inimicarmelo.»
«Se ne sei convinto.»
«Certo che lo sono» affermò. «Dunque milord, preferite indossare la giacca verde o porpora?»
«Verde, non voglio sembrare un damerino imbellettato… e per favore almeno da soli dammi del tu, sei il mio migliore amico e non il mio servitore.»
«In realtà sono il tuo servitore, ma va bene. Spero solo che i muri non abbiano orecchie.»
John scosse la testa divertito. Poi si alzò, si diede una lavata alla toeletta e infine lasciò che Daniel lo vestisse come un bambino.
Quella situazione doveva cambiare. Non gli andava che l’amico e compagno di tante avventure finisse i suoi giorni a servirlo e riverirlo. Un conto era farlo per finzione, un altro per davvero. Sapeva inoltre che i genitori di Daniel erano contadini e non fosse stato per la guerra sarebbe stato quello il suo destino, quindi magari gli era rimasta quella vocazione. Avrebbe valutato con attenzione i vari appezzamenti di terra, ma era sicuro di poter trovare una fattoria da affidargli e se l’amico avesse accettato, sarebbe diventato un modesto gentiluomo di campagna. Se lo meritava, dopo averlo sopportato per tutti quegli anni.
Dal pomeriggio si sarebbe messo subito a lavoro, anche perché non poteva sperare di fuggire troppo a lungo dai compiti che gli spettavano in quanto erede. Suo padre aveva già affermato che gli avrebbe lasciato carta bianca nella speranza di non vederlo partire mai più, dunque le sue future giornate erano già segnate da lunghe letture di libri mastri, incontri con gli amministratori e visite ai fittavoli.
Era a quello che stava pensando, mentre tranquillo entrava nella sala da pranzo. Non appena però oltrepassò la porta rimase inchiodato sul posto.
Ti prego, non può essere vero.
Si era diretto lì per stare da solo, invece seduto al tavolo di fronte al vassoio preparato per lui c’era suo padre che leggeva il giornale sorseggiando una tazza di tè, mentre al centro della stanza, davanti alla grande finestra che dava sul terrazzo, c’era Camille che dipingeva agli acquerelli.
E come era ovvio che accadesse, fu su di lei che i suoi occhi si concentrarono.
Vestita con un semplice abito da giorno rosa pallido a maniche lunghe e un grembiule bianco sporco di pittura, riempiva la stanza come una regina. Era impossibile non guardarla, con quel cipiglio concentrato mentre passava il pennello sulla tela con meticolosa attenzione. Notò in particolare il labbro inferiore stretto fra i denti e come i boccoli più corti sfuggiti alla treccia le incorniciavano il volto.
Poi il suo sguardo si spostò appena più in basso, soffermandosi sulla porzione di pelle fra le scapole che rimaneva scoperta per via della scollatura del vestito. Non era accentuata, ma non indossando alcun pizzo o merletto riusciva a vedere i muscoli che si muovevano a seconda dei movimenti delle braccia. A dire il vero i suoi occhi erano andati a finire anche più in basso, ma preferì non rimanerci troppo… qualcuno avrebbe potuto accorgersene e inoltre non gli stava affatto piacendo la piega che avevano preso i pensieri.
«Oh, figliolo! Buongiorno!» esclamò suo padre felice.
«Buongiorno» rispose, distogliendo a fatica lo sguardo da Camille.
Sicuramente era normale avere quelle fantasie. Insomma che fosse bella era un dato di fatto, era normale rimanerne affascinati… era un uomo dopotutto. Ciò che lo preoccupava erano la quantità di dettagli che gli balzavano davanti. Non era mai stato tanto avido di particolari come in quel momento. La sera prima era stato troppo impegnato a detestarla per accorgersi di quel suo particolare desiderio e così adesso la sua mente girava a ruota libera.
Ad ogni modo il suo saluto non ebbe risposta. Camille nemmeno si voltò a guardarlo, rimanendo concentrata sul dipinto.
Non la biasimò. Per come l’aveva trattata meritava di essere ignorato, così decise di fare il primo passo.
«Buongiorno, signorina Grey» disse cordiale, mentre si sedeva al tavolo e Fox si prodigava per servigli tè insieme ad un piatto con pane tostato, uova strapazzate e prosciutto. «Vi siete svegliata di buon mattino.»
«Naturalmente» rispose lei con sufficienza e come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «Questa probabilmente è stata l’ultima nevicata della stagione e non volevo perderla. I giardini poi sono stupendi così imbiancati e dopo la passeggiata ho deciso che dovevo assolutamente ritrarli.»
«Camille è molto brava con gli acquerelli» la lodò suo padre.
«La cosa non mi stupisce affatto.»
«Cosa intendete dire?» chiese, già pronta sul piede di guerra. Era palese a tutti che non avesse ancora digerito il suo comportamento della sera prima e John, nonostante i buoni propositi, accolse volentieri quel guanto immaginario che gli aveva lanciato. Primo perché era sicuro di vincere qualunque dibattito fosse scaturito e secondo perché litigare era molto meglio che stare a fissarla come un allocco.
«Oh nulla» disse, fintamente distratto. «Pensavo solo fosse ovvio che aveste così tanti talenti, non è forse quanto richiesto da ogni signorina della buona società? Sapete suonare il pianoforte in maniera eccellente, oggi scopro che siete brava a dipingere… suppongo che sappiate anche ricamare divinamente e che la vostra voce quanto cantate è simile a quella di un usignolo.»
Vincent finse un colpo di tosse a quelle parole, agitandosi sulla sedia. John non si scompose, prendendo una forchettata di uova.
«Infatti, milord… ho avuto ottimi precettori. Anche se devo dissentire con voi riguardo l’ultima affermazione: la mia voce non è affatto simile a quella di un usignolo. Purtroppo il saper cantare non rientra fra i miei talenti, ma suppongo di poter ovviare a questa mancanza con tutto il resto.»
«Lungi da me dire il contrario.»
«Suvvia John lascia Camille al suo dipinto» intervenne il visconte. «Tieni, assaggia invece questa marmellata: è fatta con le ciliegie del nostro frutteto. Abbiamo anche quella di mele, fragole o prugne se preferisci.»
«Prugne sicuramente, zio Vincent… vostro figlio mi sembra parecchio nervoso questa mattina, forse il viaggio lo ha scombussolato.»
John trattenne a stento un sorriso. «No grazie, detesto le cose dolci… voi piuttosto, il vostro stomaco sta bene?»
«Il mio stomaco?»
«Mi era sembrato che non vi sentiste molto bene ieri sera, forse la cena vi è risultata indigesta?»
A quel punto le guance di Camille divennero rosse, mentre gli occhi si spalancavano appena. Aprì le labbra come a volergli rispondere, ma poi all’ultimo si voltò con un piccolo sbuffo arrabbiato.
«Non sono mai stata meglio» asserì, tornando a dipingere e facendogli capire che la conversazione finiva lì.
Con non troppa sorpresa vide che sulle labbra di Fox c’era la parvenza di un sorriso, mentre la disapprovazione di suo padre era tangibile in ogni angolo della sala. Poteva capirlo. La sera prima gli aveva promesso che avrebbe cercato di essere gentile e cordiale, invece si stava comportando come un idiota.
Era quasi pronto ad essere rimproverato, ma il visconte venne distratto dall’arrivo del signor Montgomery che portava la tanto agognata corrispondenza. Evidentemente a causa del maltempo il postino era arrivato con diverse ore di ritardo. Non solo lui, ma anche i servitori che avrebbero dovuto portare le lettere di bentornato e di inviti dato che sul piatto ne vedeva quattro, al massimo cinque. Poco male. Un giorno in più di pace gli avrebbe fatto sol che bene, prima di venire subissato dalle visite di signore e rispettive figlie tutte casualmente nubili e tutte casualmente in perfetta età da marito. Dio, si sentiva soffocare al solo pensiero. Perché se c’era una cosa che odiava ancora di più della società e di tutti gli impegni mondani che da essa derivavano, erano le madri alla ricerca dello scapolo perfetto. Lo avrebbero braccato neanche fosse stato una lepre in un covo di lupi affamati.
Vincent invece era proprio quello che sperava di vedere: suo figlio, il suo erede, circondato da giovani fanciulle altolocate. Ce ne sarebbe stata almeno una adatta a diventare la futura viscontessa e lui avrebbe passato il resto della vita a viziare i nipoti, perché altrimenti che altro motivo aveva per costringerlo a frequentare Windermere?
«Oh, Camille! È arrivata una lettera da parte di Heather!»
«Finalmente! Ormai non ci speravo più, sono passate quasi tre settimane dall’ultima e temevo fosse andata perduta» esclamò felice e dopo essersi tolta il grembiule sporco di pittura e aver appoggiato tavolozza e pennello sul tavolino di fianco al trespolo, quasi corse a prendere la lettera che suo padre le porgeva.
John cercò di non soffermarsi troppo su quel sorriso, anche perché Camille dal canto suo nemmeno lo degnò di uno sguardo. Se lo meritava.
«Allora, cosa dice? Stanno bene?»
Camille mosse velocemente gli occhi. «Sì, zio. Ha scritto che il bambino cresce bene e che sono entrambi in ottima salute.»
«Manca molto al parto?» chiese John.
«No, non molto. Ah, perdonatemi se lo dico, ma non vedo l’ora che lascino l’Italia… so che per Heather è meglio aspettare, ma in cuor mio spero che tornino e decidano di farlo nascere qui. Ho proprio voglia di sentire le risate di un neonato!»
«Sono sicura che anche nel caso nascesse in Italia, non aspetteranno molto prima di tornare… dopotutto si tratta solo di cinque o sei giorni di nave e ho letto che ce ne sono molte costruite appositamente per i viaggi, il che vuol dire che potranno godere di tutte le comodità necessarie.»
«Lo spero tanto… dice altro che dovrei sapere?»
«Mmh… dice che il clima è già molto mite a Napoli e che fanno spesso lunghe passeggiate sulla spiaggia. Oh! Non ci credo!»
«Cosa?»
«Dice che hanno conosciuto alcuni gentiluomini inglesi e che sono stati tutti invitati alla festa di primavera che si terrà alla reggia di Caserta a cui parteciperà anche il re di Sardegna in persona e tutta la sua corte. Saranno ospiti per due intere settimane». A quelle parole Camille si appoggiò allo schienale della sedia lasciandosi sfuggire un sospiro sognante. «Chissà che bello dev’essere…»
«La vita in una reggia è molto sopravvalutata» intervenne John sovrappensiero, prima di mordersi la lingua.
Doveva stare zitto.
«E voi come fate a saperlo, ci siete forse mai stato?»
Appunto.
Cinque anni, alla corte dello Zar al Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo.
«No, ma ho conosciuto diversi nobili che ci hanno vissuto e tutti loro mi hanno confermato che non è poi così entusiasmante come si tende a credere.»
«Io invece penso che sarebbe magnifico. Passeggiate negli immensi giardini, pic-nic, giri in barca, musica, balli e feste. Non sarebbe neanche lontanamente paragonabile alla stagione di Londra.»
«Già, un vero paradiso pieno di promiscuità» disse Vincent.
«E perché mai?»
«Mia cara ma perché in una reggia ci sono cortigiani e libertini fino allo sfinimento! Non è certo il luogo adatto ad una signorina per bene.»
«Bè immagino dipenda tutto dal giudizio e dal raziocinio della signorina in questione.»
«Forse» fece John. «Ma siete così tanto piene di curiosità da cadere ai piedi del primo uomo che vi fa una lusinga.»
«Questo non è affatto vero.»
«Ah no?»
«Io di sicuro non cederei così facilmente.»
«Ed io al contrario credo che se veniste corteggiata da un vero libertino, vi ritrovereste nel bel mezzo di uno scandalo nel giro di un istante. Anche se, in una corte, scandali di quel tipo non vengono presi molto in considerazione.»
«Avete una così bassa opinione di me?»
«Non di voi, ma della vostra capacità di cedere alle lusinghe di un uomo. Siete stata a Londra, giusto?» lei annuì. «Non ditemi che nemmeno un giovanotto vi ha fatto battere il cuore o che magari avreste desiderato ben più di un semplice sfiorarsi di mano.»
«John! Stai parlando ad una signorina, non dimenticarlo» lo rimproverò Vincent.
Giusto.
Alla buona società piaceva far crescere le giovani donne nell’ignoranza più totale, per cui cosa ne poteva sapere Camille di che genere di scandali stesse parlando o del desiderio e di quello che succedeva in una camera da letto?
Si impose di calmarsi, soprattutto perché la stava rimproverando neanche fosse suo padre e lui di paternali non poteva proprio permettersi di farne.
«Scusatemi, ho parlato a sproposito.»
«Non scusatevi. È evidente che abbiamo una visione del mondo e delle cose completamente diversa… può darsi che abbiate ragione, ma credo anche che siate un po’ troppo sicuro delle vostre idee. Ora perdonatemi, ma ho una lettera da scrivere. Chiederò alla signora Potter di portarmi il pranzo in camera, ci vedremo questa sera per la cena. Con permesso.»
John la guardò andare via. Probabilmente con quelle ultime parole sperava di farlo sentire in colpa, ma non era così.
O forse sì?
Che diamine, non era mai stato tanto sincero come in quel momento. Lei non se ne era resa conto, ma quella con ogni certezza era stata la conversazione più onesta che avesse mai avuto in… quanti? Vent’anni di vita? Certo avrebbe potuto usare parole meno forti o un atteggiamento più accondiscendente, ma a quale scopo?
Era sempre difficile accettare la realtà delle cose, lui ne era l’esempio lampante, ma lei era una donna che non aveva mai conosciuto davvero un uomo e a quel mondo di onesti gentiluomini ce n’erano ben pochi dunque perché sentirsi in colpa?
«Dico, ti ha forse ucciso il cane?»
John bevve un sorso di tè giusto per camuffare il sospiro rassegnato. Era ovvio che suo padre non potesse stare zitto, ma glie ne diede atto. Gli aveva chiesto di essere più gentile con Camille e lui non solo non lo aveva ascoltato, ma aveva cercato ogni minima scusa per scontrarsi con lei.
«Mi dispiace» disse semplicemente.
«Ti dispiace!» esclamò furioso. «Io davvero non so cosa ti abbia preso… ho sorvolato sulla cena di ieri sera pensando fossi stanco e quindi di cattivo umore, ma oggi? Che bisogno c’era di trattarla tanto male?»
«Avete perfettamente ragione, padre… è solo che devo ancora abituarmi al cambiamento» mentì.
«Lo capisco» disse invece Vincent, abboccando alla menzogna. «Ma voglio molto bene a quella giovane e non vorrei mai saperla infelice a causa tua. Dopotutto ha solo ventun anni, che esperienze di vita credi che abbia? Non c’è bisogno di contraddire tutto quello che dice. Parlare poi di corteggiamenti e sfioramenti di mani… l’avrai sconvolta e qui non c’è nessuno che possa consolarla.»
«Non penso sia così sconvolta come voi pensate, ma ammetto di aver esagerato. Mi scuserò con lei questa sera stessa.»
«Bene… e spero di non dover più assistere a questi battibecchi. Non scherzo quando dico che è diventata come una figlia per me, per cui considerala anche tu come una sorella: una persona da proteggere e a cui riservare il tuo affetto.»
John cercò di non alzare gli occhi al cielo, pensando che non era mai stato in grado di proteggere nessuno nella sua vita. E per quanto riguardava il considerarla una di famiglia, non c’era niente di più lontano fra loro che considerarsi fratello e sorella.
Amali John, loro ti aiuteranno ad andare avanti. Promettimelo.
Maledetto Henry e maledetta promessa.
Con quale coraggio poteva confessare tutti gli orrori che aveva visto? Che era vivo solo perché Henry si era sacrificato per lui?
In un attimo rivide la palla di cannone schiantarsi sul carro, le schegge di legno che volavano ovunque e gli si conficcavano nella carne. E poi il peso del corpo di Henry sopra di sé. Gli si era gettato addosso, coprendolo evitando che le schegge lo colpissero in petto.
Gli aveva salvato la vita quel giorno e lui non aveva fatto nulla per ricambiare quel sacrificio, solo scappare.
Sospirò.
«Tenterò, promesso. Ora che ne dite di visionare gli ultimi libri contabili? Voglio capire come sono andati gli introiti in mia assenza.»
Il sorriso che gli riservò suo padre non ebbe bisogno di ulteriori parole.






Ciao a tutt*!
Volevo spendere due parole per scusarmi per il ritardo nella pubblicazione del capitolo... purtroppo il lavoro è stato molto stressante in questo periodo e il tempo per scrivere praticamente nullo! Spero di riuscire a riprendere ad aggiornare con più continuità!
Grazie a chi fino ad ora ha speso qualche minuto del suo tempo per leggere e recensire!
A presto,
Vale 
   
 
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