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Autore: Eneri_Mess    03/01/2022    3 recensioni
FINE (Prima parte)
Con il segreto che nasconde, Yokohama è una città dove non si possono dormire sonni tranquilli.
Dal Preludio:
Una mano di Dazai gli strinse il braccio, mentre le dita dell’altra si aggrapparono alla sua camicia sgualcita sul petto. Il nemico barcollò, ma si rimise in piedi, recuperando una delle proprie pistole.
«Chuuya...» ridacchiò Dazai, fuori luogo. «Di nuovo: ho mai sbagliato nel formulare un piano?»
«Smettila!» e la prima nota di supplica si mischiò alla richiesta. «Non sei lucido!»
Genere: Azione, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Chuuya Nakahara, Osamu Dazai, Sakunosuke Oda
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Capitolo 15

In Vino et Whiskey Veritas





 

You've been fighting the memory, all on your own
Nothing worsens, nothing grows
I know how it feels being by yourself in the rain
We all need someone to stay
We all need someone to stay

[Someone to stay - Vancouver Sleep Clinic]





 

L’auto di Minoura si fermò davanti a uno dei palazzi della periferia di Yokohama mentre la notte stava raggiungendo il suo culmine più oscuro. Sul sedile del passeggero, Ranpo si sporse dal finestrino per dare una lunga occhiata all’edificio; su quello posteriore, Poe, Atsushi e Ango fecero altrettanto, stipandosi dietro il vetro con la curiosità dei bambini di fronte a un paesaggio nuovo. 

Di insolito non c’era però nulla, se non un cartello della polizia che avvertiva la chiusura di uno dei piani per indagine. 



 

Mentre Minoura continuava a borbottare della lavata di capo che si sarebbe preso per averli portati lì e aver rotto i sigilli della polizia senza avvertire nessuno, dalla porta sbucò Kunikida, seguito a breve distanza, con un incedere più misurato, da Fukuzawa. Entrambi erano in tenuta casalinga, ma dalle loro facce erano pronti a mettersi subito al lavoro. 

«Che sta succedendo?» 

La domanda di Kunikida somigliò molto all’abbaiare di un cane, accentuata dalla sua figura stanca e lungi dall’essere impeccabile come al solito. Da quando Dazai era tornato tra le file della Port Mafia il suo carattere aveva raggiunto picchi di intrattabilità inimmaginabili, anche se dal suo sguardo si capiva che non avrebbe voluto essere così irascibile. 

«Avete scoperto qualcosa?» mitigò Fukuzawa, avvicinandosi al gruppetto e adocchiando, con un presentimento fastidioso, l’enorme murales Angels have fallen

Poe si portò l’indice alle labbra, segnalando di fare silenzio, mentre Atsushi indicò Ranpo. Gli occhiali sul naso catturavano gli sparsi bagliori che entravano dall’esterno, affilando il viso del detective intento a fare quello che gli riusciva meglio: mettere a nudo la verità. 

«Perché siamo qui?» insistette Kunikida. 

«Non ci ha ancora spiegato molto...» iniziò Atsushi piano, assorto nel seguire ogni movimento di Ranpo, come stesse apprendendo una nuova tecnica di indagine. 

«Pensa che qui si siano incontrati Odasaku e il Ladro di Chiavi» intervenne Ango asciutto, ma altrettanto attento, abituato a trovarsi in contesti del genere. 

«Non solo loro.»

L’affermazione li raggiunse dal fondo della stanza, dove Ranpo stava esaminando i fori di proiettile inflitti all’ampia vetrata che abbracciava per intero uno dei lati. Quando si tirò su, il suo riflesso restituì un ghigno da Ho trovato qualcosa di interessante

«Spiegati» incalzò Fukuzawa. Il suo presentimento stava acquisendo i connotati di una rivelazione fastidiosa che necessitava di conferme. 

Ranpo si voltò su se stesso, si prese del tempo per risistemarsi gli occhiali sul naso e poi allargò teatralmente le braccia. 

«Ora sono sicuro di sapere con quanti nemici abbiamo a che fare!» 

Alzò una mano e un primo dito, a cui ne seguì subito un secondo. Se ne aggiunsero in rapida successione un terzo e un quarto. In ultimo, il suo sogghigno si estese insieme al palmo ben spianato. 

Poe incrociò le braccia con stizza, per poi sciogliersi in un lamento di rassegnata frustrazione. 

«Ne avevo contati quattro.»

«Quindi c’è un quinto uomo!?» gli parlarono sopra sia Atsushi sia Minoura, mentre Ango accoglieva la notizia massaggiandosi le palpebre e sentendo il mal di testa incedere. 

Ranpo non regalò alcuna risposta. Si mosse tra i resti bruciati dell’ufficio con un sorriso da volpe, facendo attenzione a non calpestare nessuna prova rilevante. Piazzatosi davanti al gruppetto, come fosse stato di fronte alla vetrina di un negozio, li vagliò tutti prendendosi il mento con una mano. 

«Iniziamo dal più facile!» esordì con l’allegria maniacale con cui piegava la ragione altrui ai propri capricci. Afferrò Poe per una manica - non senza che questi iniziasse ad agitarsi - e lo trascinò in un punto preciso, oltre l’ingresso principale e davanti alle prime scrivanie. 

«Oh» capì il romanziere un attimo dopo. Tese un braccio di fronte a sé, raccogliendo mignolo e anulare per permettere alle altre dita di formare una pistola. Tuttavia, la sua espressione non fu soddisfatta nell’adocchiare la traiettoria. 

«Non ha sparato lui, giusto...?»

«Esatto! Il calibro non corrisponde a quello usato da Red Hood, ma ai proiettili del Ladro di Chiavi. Oda si è limitato a evitare i colpi grazie alla propria abilità.» 

Mentre lo spiegava, Ranpo afferrò un riluttante Atsushi per trascinarlo a sedere su una delle sedie da scrivania bruciate.   

«Dovrebbe reggere ancora!» esclamò giulivo di fronte alle preoccupazioni della Tigre Mannara. «E siamo a due.»

«Si tratta del Ladro di Chiavi?» avanzò Kunikida, così concentrato a fissare Atsushi da farlo sentire colpevole. 

Anche Ranpo si focalizzò sul ragazzo, aumentandone la soggezione, nonostante il suo sguardo andasse oltre la sua mera visione. Attraverso di lui pareva poter osservare chi realmente si fosse seduto lì. 

«No, non è lui» concluse sbrigativo, andando avanti per non guastarsi l’umore a sottolineare altre supposizioni. Si avvicinò alla scrivania adiacente e ne saggiò la consistenza con entrambe le mani, prima di saltarci sopra a sedere. 

«E tre!» 

Il suo sorriso soddisfatto per quella abbuffata di prove abbagliò la stanza. Gli astanti passarono lo sguardo da Poe, ad Atsushi a Ranpo. 

«I restanti complici…?» Ango tradusse a parole il dubbio serpeggiante. 

Ranpo indicò di fianco a sé due resti carbonizzati. Non fu chiaro a prima vista che si trattasse di computer portatili. 

«Dostoevskij e il Capo» esplicò il detective, per poi estrarre dalla mantella i fogli del caso che li aveva portati lì. 

«Stando al verbale, l’incendio è avvenuto tre notti fa.»

«Lo stesso giorno in cui è stata rubata la quarta chiave» rammentò a voce alta Ango. 

«Si sono riuniti dopo il colpo, quindi?» continuò sullo stesso filo Minoura, prendendo appunti, e Poe confermò annuendo. 

«E come avrebbero fatto a parlare con Dostoevskij? È rinchiuso in una prigione di massima sicurezza… giusto?» Atsushi diede corpo a una domanda spinosa con un’ingenuità titubante, che rese arduo ai più grandi ingoiare quel boccone amaro al sapore di fallimento.

«Precisamente. Una prigione di massima sicurezza in Europa» ci tenne a specificare Ango, con un astio nutrito dai dubbi sul sistema che continuavano a scavare sempre più a fondo nelle sue sicurezze. 

«È monitorato a ogni ora del giorno. Non gli sono permesse visite o interazioni con terzi. La prigione è automatizzata anche per i pasti… Non c’è modo che possa comunicare con l’esterno o partecipare a una riunione. Come può esserci riuscito?»

«Questo dovresti indagarlo tu, uomo del governo» sottolineò Ranpo impietoso. «Sei l’unico che può avere accesso alla situazione di Dostoevskij. Procurati i filmati dell’ultima settimana e ci darò un’occhiata.»

Ango scosse la testa a negare la possibilità, per poi sospirare e, infine, annuire. 

«Ranpo-san» Kunikida si fece avanti. «Fino a ora avevi contato quattro persone» e nel rammentarlo iniziò a elencarle, puntando il dito contro le rispettive controparti, a iniziare da Poe. 

«Oda, ossia Red Hood. Dostoevskij e il loro Capo.» 

Il dito indicò i due computer, per poi spostarsi a metà tra Atsushi e Ranpo. 

«Uno di voi è il Ladro di Chiavi, ma l’altro...» ancora una volta, lo sguardo si fece penetrante, posandosi sul povero Ragazzo Tigre. «Chi è?»

«L’Informatore!» esordì Minoura, battendosi il pugno contro il palmo. 

«Bravo detective!» si congratulò Ranpo, applaudendo. La serietà calò sul suo viso come un sipario l’istante successivo.

«Del Ladro di Chiavi sappiamo che uccide le vittime con più divertimento del necessario e gli piace rendere gli omicidi spettacolari» riassunse, per poi indicarsi. 

«Sono io. Da questo posto poteva dominare la scena e» roteò gli occhi con disappunto personale, «credo che sia il terzo in comando, dopo Dostoevskij. O abbia molta libertà di azione e scelta. Nonostante le prove cancellate, sporca un po’ troppo e non ci sono state variazioni dal primo caso all’ultimo di tre notti fa. Riguardo a Red Hood, lui continua a essere sia il diversivo sia l’ariete, ma in sostanza è solo un soldato. Non gli manca molto a colpire la Port Mafia al cuore e lo farà da solo.»

Più che un sunto della situazione, suonò come una sentenza. Nessuno ebbe nulla da commentare, così Ranpo continuò, spostando l’attenzione su Atsushi.  

«L’Informatore agisce nell’ombra, senza esporsi. C’era qualcosa che non mi tornava nel primo caso della gioielleria e che l’ultimo nella ferramenta mi ha confermato: la presenza di un’altra persona. L’Informatore si muove insieme al Ladro di Chiavi» sancì, per poi tornare a fissare gli altri. «Venire qui mi ha chiarito che Capo e Informatore sono due persone distinte» nel dirlo, passò a osservare uno dei pc bruciati. «E il Capo non si è ancora messo in gioco. Non sul campo, al momento.»

«Se accreditiamo come possibile che l’Informatore abbia un’abilità legata alla mente, poteri di questo genere finiscono stigmatizzati anche tra gli utilizzatori stessi» fece presente Poe, rivolgendosi a sua volta ad Atsushi, che incassò la testa tra le spalle come se il soggetto del discorso fosse stato lui. 

«Ranpo» lo richiamò il Presidente, solenne sia nella voce sia nei pochi passi che lo portarono a superare l’americano e a guardare direttamente in viso il suo protégé. La sua occhiata fu penetrante.

«Sei sicuro di queste deduzioni?»

Il detective numero uno dell’Agenzia incrociò le braccia stizzito, gonfiando le guance. 

«Sto avendo difficoltà come durante il caso del Divorarsi a vicenda, che è ancora oscuro su certi punti perché non ho risolto il mistero di chi sia il Distruttore di Prove...» borbottò annoiato, ma nel mentre una linea più sicura, quasi di sfida, gli stirò le labbra. 

«Quindi sì, sono certo di quel che ho dedotto!» esclamò balzando giù dalla scrivania e guardando dal basso verso l’alto il Presidente. I suoi occhi verdi furono limpidi e duri come diamanti.

«Devo esserne certo. Yosano-san conta sul fatto che io la trovi.»

Fukuzawa assentì con un sorriso impercettibile. 

«In più!» riattaccò Ranpo con un rinnovato entusiasmo, superando il Presidente e rivolgendosi a tutti gli altri, ma principalmente a Poe. «Ho capito anche l’abilità del Ladro di Chiavi! O, almeno, quello che è in grado di fare.»

Il suo sogghignò tornò con una risatina dai risvolti quasi maniacali. Si posizionò in un punto specifico, afferrò i lembi della propria mantella e li aprì all’improvviso, in un gesto che ricordò ad Atsushi e Kunikida lo stesso eseguito da Tanizaki nell’imitazione del suo eroe dei fumetti. 

Dinanzi alle espressioni disorientate dei presenti, Ranpo non fece nulla per rendere più comprensibile i suoi gesti. Agitò la propria mantellina e fece solo raggiungere ai colleghi la conclusione che fosse impazzito del tutto. 

Il primo ad arrivarci fu Poe, strozzandosi con il proprio verso sorpreso. Iniziò a ragionarci su un attimo dopo, prendendosi il mento tra le dita e inclinando la testa. 

«Possibile che…! È così che entra ed esce dove vuole!?»

«Esatto!»

«Allora quegli oggetti bruciati sul pavimento...»

«Mh mh!»

«È un’abilità di alto livello! Che portata avrà? Metri? Chilometri?»

«Ranpo, sii chiaro» lo riprese Fukuzawa con una lieve vena spazientita che parlava anche per quanti erano confusi da quello scambio. 

«Il Ladro di Chiavi ha un’abilità che gli permette di manipolare lo spazio e renderlo accessibile, in entrata e in uscita, come un portale» spiegò il detective, risistemandosi gli occhiali. 

«È così che riesce a simulare gli omicidi a porte chiuse, come quelli della gioielleria e della ferramenta, e a far apparire paccottiglie di oggetti» completò Poe, indicando l’accumulo di roba bruciata per terra, fuori luogo per l’ufficio in cui si trovavano. Poi si fece serio, lasciando intravedere uno dei propri occhi per rimarcare la gravità della minaccia.

«Non è da affrontare senza un piano. Potrebbe essere in grado di dislocare solo una parte di una persona… con conseguenze irreversibili.»

«Però questo… questo è veramente utile.»

Per la prima volta da giorni, Ango riuscì ad avere un tono positivo, per quanto la sua fronte fosse contratta dal correre dei pensieri. Si sfilò di tasca il cellulare e iniziò a digitare un messaggio. 

«Cercherò di capire chi può essere questo utilizzatore, iniziando dai residenti in Giappone con abilità e chiedendo qualche favore all’estero, se necessario.» 

«Così mi piaci, uomo del governo!» approvò Ranpo, alzando il pollice. 

Anche Fukuzawa apparve soddisfatto, tanto da appoggiare una mano sulla spalla del suo protetto ed esprimere un Ben fatto che lo fece esultare come un bambino, ridendo fragorosamente e ribadendo di essere il numero uno. 

«Ci resta da capire il livello di pericolosità dell’Informatore e del Capo...» riprese Minoura, sfogliando il proprio taccuino degli appunti. «Perché siamo sicuri che l’Informatore e il Distruttore di prove non siano la stessa persona, giusto?»

L’allegria di Ranpo si dissipò di nuovo, guardando gli altri negli occhi. 

«Sono due pedine molto preziose in questo gioco. Due cavalli di razza che, se finissero azzoppati, sarebbe meglio eliminare per non farli finire in mani nemiche.»

L’atmosfera si fece pesante. Più di uno sguardo si indirizzò al murales, ricordando con chi avessero a che fare. 

«Ma tra i due» riprese Ranpo, «il più utile in campo è chi può trovare le informazioni, e non distruggerle. È così che stanno rintracciando i possessori delle chiavi. È un tipo di potere di cui non hanno avuto bisogno prima. E tutto quello che sta succedendo,» nel dirlo allargò le braccia, «non è un semplice piano b, ma la diretta conseguenza del Divorarsi a vicenda

«Non vi siete auto-distrutti contro la Port Mafia, quindi ora ci penseranno loro a fagocitarvi» romanzò Poe, ricevendo un assenso da Ranpo.

«Certo, se ci fossimo divorati secondo l’intenzione iniziale di Dostoevskij, questo piano non si sarebbe concretizzato con l’uso di Red Hood… ma era già tutto previsto ugualmente. Quello che doveva essere un cannibalismo è stato la prova generale, questa è la prima. Ed è tutto pianificato da almeno quattro anni.»

L’implicazione di quella affermazione colpì a fondo, soprattutto Ango. Per l’ennesima volta, si trovò costretto a rammentare di come le ombre al tempo della Mimic fossero state più profonde e osservatrici di quanto avesse potuto immaginare. Di come, ancora una volta, ci fosse qualcosa di così sbagliato nei loro ricordi. 

«Che cosa facciamo ora?» chiese piano Atsushi, rimettendosi in piedi e abbandonando il ruolo dell’Informatore. Guardò la sedia distrutta dal fuoco con sentimenti contrastanti, rivolti a qualcuno che non conosceva, un nemico, ma che non invidiava per essere una pedina di Dostoevskij. Ripensò anche a Dazai e per un momento ebbe l’impulso di prendere il cellulare e telefonargli. La mano si chiuse a pugno, impotente. 

«Non fare domande stupide, kozou. Continuiamo a indagare.»

La risposta secca di Kunikida mise un punto ai dubbi che stavano vagando per la stanza. La sua voce conservava ancora tutta la stanchezza e la demotivazione che da giorni si erano appese al suo essere, ma c’era una rinnovata fermezza a contrastarle. 

«Grazie a Ranpo-san ora siamo più consapevoli di chi dobbiamo trovare e affrontare. È un passo avanti.» 

Si riaggiustò gli occhiali, spingendoli sul naso con un dito. 

«Il nemico potrà considerare l’Agenzia in panchina, ma questo non deve fermarci. Porterò subito i computer a Katai. Se c’è un minimo indizio dobbiamo sfruttarlo per tornare in partita.» 

«E io che mi lamentavo di quanto fosse stressante fare il detective della polizia» sospirò Minoura, ma con un sorriso incoraggiante. «Le vostre gatte da pelare hanno degli artigli davvero affilati.» 

Kunikida fece per ribattere piccato, ma Ranpo rise così forte da farlo desistere. 

«Continua a impegnarti, Minoura-kun! Metterò una buona parola quando deciderai di farmi da assistente in Agenzia!»  

«Neanche se mi raddoppiaste lo stipendio» ribatté l’altro, scuotendo la testa. «Ci tengo alla pelle e non ho più vent’anni. Non potrei affrontare giornalmente qualcuno che può far sparire cose o persone, o manipolare la mente… Sul serio, avete la mia stima.» 

Toccarono di nuovo un argomento spinoso, ma nessuno dei presenti se la prese, nonostante il rimarcare la diversità che serpeggiava tra l’unica persona senza abilità in quella stanza e ognuno dei restanti. Ranpo era un’eccezione che faceva da collante tra le due realtà, con le sue capacità in grado di superare l’umana normalità e stare anche una spanna sopra ad alcuni poteri. 

«Riflettevo su una cosa» intervenne Poe pensieroso, un dito sul mento e il capo rivolto verso l’alto, dove Karl lo guardava interrogativo, aggrappato ai suoi capelli. 

«Se sono cinque membri operativi, allora quella V potrebbe assumere un altro significato…?»

«Cinque in numeri romani» convenne Ranpo, togliendosi gli occhiali e riponendoli con cura nella propria mantella. 

«Ciò significa che anche dopo più di dieci anni, gli scopi dell’organizzazione V sono rimasti invariati?» continuò a ragionare a voce alta l’americano. 

«Un’organizzazione che agisce per avere giustizia. Una giustizia personale. Utilizzatori di abilità il cui scopo è liberarsi di altri utilizzatori di abilità...» mormorò Fukuzawa, aggrottando la fronte all’affiorare di un ricordo invecchiato di tredici anni. 

«Vogliono creare un nuovo mondo, senza peccati… senza individui dotati di potere» finì Atsushi, rammentando le parole che Dostoevskij aveva detto a Dazai. 

Ancora una volta, lo smile disegnato alla fine della scritta Angels have fallen pianse e rise di loro. 



 

* * *



 

Era la sera del giorno delle scartoffie e i tentativi di Chuuya di annegare i pensieri si erano arrestati nel contemplare il calice di vino colmo e intonso che aveva davanti. 

Intorno a lui c’era una discreta confusione, fatta di agenti della mafia di vari ranghi, ridotti a semplici uomini e donne da qualche bicchiere di troppo. Anche se infastidito, il Dirigente non si sentì di zittirli con qualche breve emanazione di gravità. Quello non era il Nine. Non era il suo Wine Bar preferito, con un posto riservato da più di un anno e una bottiglia ad aspettarlo ogni Martedì sera, e che Red Hood aveva distrutto più di una settimana prima.

Un sospiro infastidito gli rotolò fuori senza freni, risultato di tutte quelle cose su cui aveva perso il controllo. I cerchi continuavano a stringersi, i loro posti sicuri non lo erano più, Dazai era tornato e doveva sentire il suo nome rimbalzare costantemente in ogni stanza della Port Mafia in cui metteva piede. O peggio, doveva ritrovarselo davanti e resistere all’impulso di qualsiasi azione. Urlargli, appiccicarlo al muro, ignorarlo, tirargli un calcio, sfogarsi. 

Perché non puoi tornare dopo quattro anni e fare come ti pare!

Ormai suonava ripetitivo alle proprie orecchie. Inutile e ripetitivo. Dazai avrebbe continuato a seguire i propri capricci fino all’ultimo istante di respiro, mentre lui sarebbe rimasto ad afferrare motivi al buio. 

Come cercare di capire perché Dazai prima lo avesse minacciato di lasciarlo morire corroso dalla Corruzione, se avesse torto un capello a Odasaku, per poi permettergli di scatenare l’Arahabaki contro lo stesso amico

Il sibilo della sofferenza per quei colpi di pistola ancora riverberava nel suo cranio. Scatenare la bestia era equivalso a scacciare il dolore con altro dolore, ma uno più conosciuto e gestibile. C’era quasi rimasto secco - e svegliarsi con accanto Verlaine non era stato piacevole - per poi ricevere la notizia che il peggio era solo iniziato. 

Chuuya si sentì pervadere da un nuovo livello di incazzatura. Una che non provava da tempo. Esatta a quella di quattro anni prima. Anche allora non c’era stato nessun convenevole. Dazai non aveva idea di cosa fosse la decenza, probabilmente la reputava un paradigma utilizzabile solo da quelli che camminavano in file ordinate nelle proprie vite. 

Dazai doveva entrare a passo teso, o fingere di guardarsi in giro con noncuranza quando le sue trappole erano già piazzate. E Chuuya ci cadeva. Ci cadeva sempre. 

Eppure, non era solo incazzato. Era anche deluso, consapevole però che la delusione fosse l’alibi meschino di qualcosa che preferiva fare la tana negli angoli bui delle mezze verità, delle frasi tronche e dei perché soffocati in culla. 

Un nuovo, ribelle sospiro si prese la libertà di esprimersi fuori dalle sue labbra e il vino rimase un’altra volta intoccato. Intoccato e specchio di una realtà a cui Chuuya reagì d’istinto, facendo attraversare il locale al proprio pugnale, in un lancio che vibrò conficcandosi nel legno dell’ingresso. 

La sala ammutolì al gesto. Se il silenzio si fosse potuto azzittire, probabilmente si sarebbe sentito del gelo pervadere l’ambiente. Gli occhi passarono dal Dirigente incapace di bere un calice di vino e mettere a tacere la mente, al Dirigente che ignorava gli avvertimenti ed entrava nel territorio del leone. 

«Ehilà, Chuuya» salutò Dazai, levando la mano libera e non impicciata dalla busta di carta pregiata che si teneva contro il petto. Usò la stessa per afferrare il manico del pugnale ed estrarlo con una certa fatica. Una volta al bancone, lo offrì al partner in un gesto così normale che convinse gli altri avventori a tornare cautamente agli affari loro. 

«Non è serata» sibilò Chuuya tra i denti, reinfilandosi il pugnale nella giacca e recuperando sbrigativamente anche cellulare e sigarette, pronto ad andarsene. Rammentava di aver avvertito Dazai di stargli alla larga, ma si sentiva stanco anche di ribadire un confine che continuava a tracciare nella sabbia. 

Sordo come solo chi non ascolta può essere, Dazai gli si parò davanti, bloccandogli la ritirata. Sollevò con allegria la busta che aveva con sé. 

«Per dimenticare la giornata delle scartoffie» disse affabile, per poi fare una smorfia. «Non mi era mancata per nulla.»

L’incarto elegante, nero e oro, ebbe il merito di attirare l’attenzione di Chuuya per più di un istante, prima che i suoi occhi incrociassero quelli innocenti del - non voleva tronare a considerarlo tale - partner. 

«Tu vuoi davvero un pugno sul naso?»

Dazai sbatté le palpebre un paio di volte. Sempre più innocente

«No, per niente. Chi vorrebbe un pugno sul naso?» celiò, ma ammorbidì tono ed espressione. «Abbiamo ricominciato col piede sbagliato, però siamo di nuovo sulla stessa barca. Ti ho portato un segno di pace.»

Chuuya frugò il viso dell’ex detective in cerca di quella virgola fuori posto che avrebbe reso visibile la maschera e l’inganno. 

«Che vuoi, Dazai? Sputa il rospo e finiamola qui. Non so cosa speri di ottenere, ma ci trascinerai tutti a fondo, se non peggio. Quindi, se non ti levi di torno tu, me ne andrò io.» 

Non scappò lontano. Non con le dita di Dazai strette intorno al braccio a bloccare fisicamente la sua fuga. 

Chuuya si irrigidì lanciandogli un’occhiataccia, ma non servì a far demordere il Demone Prodigio. La malizia che Chuuya pensava di incontrare nello sguardo del partner era assente. 

«Scusa» mormorò l’ex detective con una sincerità così genuina da sbaragliare momentaneamente la fronte aggrottata dell’altro. 

«Non volevo metterti nella scomoda posizione tra me e Mori-san. È stata una discussione troppo sfibrante per prospettare un seguito. E anzi...»

Dazai lo lasciò andare, perché il gesto di trattenere qualcuno non poteva coabitare con delle parole altrettanto intime. 

«Grazie di avermi fermato e portato via.»

Chuuya soffocò l’impulso di afferrargli il volto e guardarlo dritto negli occhi per assicurarsi che fosse realmente Dazai. 

«Hai battuto la testa?» 

La sua lingua non ebbe lo stesso tempismo. 

«Ah, sì, in verità. Stamattina mi è caduta la penna sotto la scrivania più volte e l’altezza è diversa da quella che avevo in Agenzia, così continuavo a calcolare male le distanze e sbam...» raccontò allegramente l’ex detective, gesticolando con la mano libera per dare enfasi e dettagli. 

Chuuya non lo stava davvero ascoltando. Lanciò un’occhiata all’ingresso del locale, alla via d’uscita. 

È la decisione giusta

Ma Chuuya era abituato a cadere in quelle trappole a occhi chiusi. 

«Che vino è?» chiese, uccidendo anche l’ultimo barlume di ragionevolezza. 

«Una versione di Pinot Nero, se ho capito bene. Si chiama Les Amoureuses

Convincersi che fosse solo la gola a condurre la serata fu la giustificazione che si diede quando seguì Dazai in uno dei privè del locale. 



 

Il primo bicchiere di vino scivolò via con una facilità che infastidì Chuuya. Il sapore era buono, ottimo, ma la poltiglia amarognola di sentimenti che stava tentando di diluire lo insaporì con un retrogusto di aspettative. 

Si erano seduti uno di fronte all’altro; Dazai aveva ordinato del whiskey e non aveva accennato a niente e Chuuya non aveva intenzione di dare il la. Prese a studiare l’etichetta del vino, elegante e fedele nel promettere un’esperienza che valeva il costo. Come ogni vino che il suo partner gli aveva offerto in armistizio. 

Chuuya non ricordava situazioni in passato in cui si erano intrattenuti insieme volontariamente. Nessuna uscita programmata, ma solo segmenti di tempo in cui erano stati costretti a stare confinati nello stesso spazio, ad aspettare di intervenire in qualche missione, o troppo stanchi e malandati dopo una retata. Aggrottò la fronte, fingendo soltanto di interessarsi alle scritte in francese, ma continuando a scavare nei propri ricordi. 

Si era convinto di aver già realizzato il passare di quei quattro anni quando aveva trovato Dazai ammanettato nei sotterranei della Port Mafia, con quei vestiti nuovi così chiari, ma sempre la stessa faccia da schiaffi. La verità si infilava in quel momento, lì, seduti al tavolo, con alle spalle diversi giorni di Sì, sono tornato, e di nuovo gli abiti scuri addosso e un viso che aveva affilato i lineamenti da adolescente. Chuuya quantizzò tutte quelle sensazioni, come un dito premuto con insistenza nel fianco.

«Cos’è successo con Mori-san?» chiese, appoggiando il vino dopo essersi versato un altro bicchiere. 

Per quanto si ripetesse di non voler sapere, la realtà era ben lungi dal coincidere con la sua fuga emozionale. Se un tempo, troppo tardi, capiva Dazai tra le righe, non conservava più quel lusso. Non erano più solo loro e la Port Mafia. Le lancette avevano assunto la forma di una lama che avrebbe finito col tagliare loro la testa. Prima avesse afferrato cosa si agitava dentro il suo partner, prima avrebbe potuto arginare la minaccia. 

Ripensò alla scommessa tra lui e il Ragazzo Tigre. Ciò che aveva messo in palio non sarebbe stata una vittoria.     

«È Chuuya che me lo chiede o uno dei Dirigenti della Port Mafia?» rilanciò Dazai, sorbendo un sorso del proprio drink. 

Lo sguardo esasperato di Chuuya bastò a farlo rigare dritto. Aveva ridotto la sua pazienza ai minimi storici. 

«Alcune divergenze di operato riguardo alla questione della Mimic» spiegò laconico. «Quattro anni fa non ho avuto il tempo di appuntare le mie rimostranze prima di andarmene.»

«Non hai avuto il tempo per un cazzo» si lasciò scappare Chuuya. 

Detestava avere quell’argomento ancora incastrato tra petto e gola a scottarlo, ma se negli ultimi giorni aveva capito qualcosa, era l’essere stufo di fingere che tutto appartenesse al passato.

Mandò giù un’altra sorsata di vino più generosa che elegante, quasi felice di sentire l’ebbrezza iniziare a muovere i primi passi sottopelle. 

«Prendi e scarichi la gente come ti pare. Lo hai fatto anche ora con i tuoi nuovi compagni, no? Con quel ragazzino che pende dalle tue labbra. Stessa storia di Akutagawa, quindi niente di nuovo. Non ti fai un po’ schifo a volte, Dazai? Fingi almeno di averla una coscienza per queste cose.»

L’imitazione di un sorriso divertito affiorò sulle labbra dell’ex detective. Il resto della sua faccia preferì la penombra data dalle luci soffuse del locale. C’erano dei fantasmi a muoversi nel suo sguardo e a renderlo cupo. Scelse di bere anche lui. 

«Quanto ti piace dirmi queste cose?»

«Non mi piace per un cazzo e non sviare l’argomento!» ringhiò Chuuya, appoggiando con troppa violenza il calice sul tavolo, per poi piegarsi in avanti verso l’altro. 

«Prima pretendi… vuoi parlare con me, mi offri del vino, un segno di pace, e poi basta? Io e te non ci siamo mai fatti compagnia. Cosa vuoi? Vuoi discutere di qualcosa? Va bene, spara l’argomento, ma che cazzo, smettila di girare intorno alle cose!» 

Fece centro. E se ne pentì un istante dopo. A Dazai bastò pronunciare un nome per invadergli la bocca di un sapore sgradevole. 

«Odasaku.»

Chuuya tornò nei ranghi, risistemandosi contro il divano. Non riuscì a impedirsi di guardare altrove e incrociare le braccia. Non si tirò indietro solo perché non era nel suo stile. Aveva messo lui la ghigliottina al centro del tavolo per tagliare la testa a quell’argomento che aleggiava su di loro da un tempo umanamente troppo lungo da sopportare.

«Quindi vuoi parlare di Oda.»   

«Tu non vuoi parlarne?»

Gli occhi di Chuuya compirono trecentosessanta gradi di frustrazione per quel rispondere alle domande con altre domande. 

«Se mi devi raccontare di come ti scopava, no.»

Si frugò in tasca e recuperò le sigarette, accendendone una per dare qualcosa in pasto ai nervi. La famigliare sensazione di essere già finito incastrato in una discussione del genere lo pervase insieme all’odore acre del tabacco. Ricordò fosse successo dopo una missione all’estero e le cose erano andate esattamente allo stesso modo. Vino per rabbonirlo, chiacchiere sul fantomatico amico, escalation. 

«Secondo te come avrei dovuto reagire nel sapere che fosse vivo?» chiese Dazai, giocherellando con il ghiaccio nel proprio bicchiere, in viso una curiosità distante, a fingere che nulla implicasse davvero il significato della domanda. 

«Mi è stato fatto notare come io abbia continuato a far visita a una tomba vuota. Mi hanno proprio fregato.»

Chuuya ebbe bisogno di ingollare l’intero contenuto del calice e riempirsene un altro subito dopo. Sbuffò dalle narici. 

«’Sti cazzi» mormorò con enfasi, incredulo di se stesso, ma lasciando parlare il brio del vino. Dazai lo fissò stupito e il partner soffiò una nuvola di fumo di lato, puntandogli addosso la stessa mano con cui reggeva la sigaretta. 

«Che diavolo ne potevi sapere che fosse una tomba vuota!? Io odio il tuo riuscire a prevedere e architettare ogni follia in cui ci butti, ma ‘sta situazione di merda… è diverso.» 

Riprese fiato, ciccando nel posacenere, e calmandosi un poco. 

«Se tu avessi saputo che il tuo amico era ancora vivo non saremo qui. Non ho idea di dove saresti tu, ma so che avresti tirato giù le montagne per riprendertelo ed evitare che lo trasformassero in questa specie di super soldato senza memoria.»

«Un bel problema...» convenne Dazai, sorseggiando il whiskey come se dovesse tenersi occupato. 

«Sì, ma sappi che almeno le gambe gliele romperò per quello che mi ha fatto» ruggì Chuuya, schioccando le dita a un cameriere di passaggio per farsi portare dell’altro vino. Una bottiglia da più di trecento euro era bastata solo ad accendergli il sangue. Dal nulla, un pensiero lo raggiunse. 

«Hai detto che ti ha sparato.»

Gli occhi di Dazai preferirono vagare sul resto della sala del privè. 

«Anche io sono il nemico.»

Chuuya congedò con un gesto frettoloso l’uomo in livrea, facendosi lasciare l’apribottiglie. 

«Quindi non ricorda proprio un cazzo… come possono aver fatto a incasinargli così la memoria?»

«Una delle cento domande che troverà risposta solo e se Odasaku riavrà i suoi ricordi» fu la risposta asciutta di Dazai, tornato al suo drink e buttando giù un generoso sorso per bruciarsi la gola. 

«Sto pensando a quale delle nostre passate strategie potremmo usare contro la sua abilità, ma mi sto convincendo che sarà necessario inventarsi qualcosa di nuovo.»

La mano di Chuuya si alzò a mezz’aria di piatto, per poi colpire il tavolo con irruenza e far vibrare tutto. Un sorriso un po’ brillo e un po’ diabolico accompagnò lo sguardo intenso con cui inchiodò il proprio partner. 

«L’idea del palazzo non era male e ha funzionato. Scommetto che l’avevi pensata anche prima del Quattrocchi.»

L’ex detective svicolò dall’occhiata e dal raccogliere la provocazione, rilanciando. 

«A proposito, non abbiamo più parlato di come conosci Ango.»

Dazai era abituato a giocare partite di scacchi mentali continuamente, ma con Chuuya era diverso. Il loro gioco era la Dama. Poche regole, mosse veloci, dritte al punto. Il suo partner si lamentava del suo essere sfuggevole, ma Dazai si trovava troppo spesso circondato dalle sue pedine e non aveva alcuna intenzione di lasciargli vincere la partita. 

Chuuya replicò agitando una mano in modo scoordinato e scuotendo la testa. 

«Roba di anni fa, gli dovevo un maledetto favore. Ho ripagato il mio debito venendo a salvare te e lanciando un palazzo nella bocca di quel drago metafisico del cazzo. Ma il Quattrocchi continua a tenermi in rubrica come se fossi al suo servizio. Me ne occuperò dopo questo casino.»

Dazai ridacchiò sinceramente divertito. 

«Perché io non conosco questi retroscena? Siete un’accoppiata buffa da immaginare.»

«Ti affogo nel bicchiere» minacciò l’altro. «Non c’è bisogno che vieni sempre a sapere tutto.»

«Oh, oh! Chuuya ha dei segreti? Non posso vivere senza conoscerli!»

«E allora torna ai tuoi tentativi di suicidio.»

Era stato un battibecco come un altro, uno dei mille che erano intercorsi in passato, e come già avvenuto in altre circostanze, terminò con Dazai a stirare le labbra in una linea sottile ma ampia, sinonimo di sventura. Di trappola. 

«Scommetto la prossima bottiglia di vino che indovino almeno tre cose su di te che non mi hai mai detto apertamente.»

La linea divenne un ghigno degno del suo se stesso sedicenne e Chuuya ebbe un fremito. Un fremito che ignorò.

«Voglio un Romanée-Conti» accettò, prima che il buon senso potesse dialogare con l’ebbrezza dell’alcool in circolo e impedire sul nascere quella débâcle.  

«Prevedibile» commentò Dazai ridendo, vagamente accaldato sulle guance. Era stato come lanciare un osso a un cane e vedere l’impulso irrefrenabile agire e farlo correre. 

«Prima cosa» e si schiarì la voce, assottigliando poi lo sguardo nella palese caricatura di qualcuno che studia un esemplare raro. 

«Ti piace leggere poesie. Se frugo bene in camera tua sono sicuro che ne troverò anche qualcuna scritta da te.»

Per effetto del vino, la capacità di Chuuya di controllare i propri muscoli facciali era rallentata, e questo gli impedì di mascherare per bene il colpito e affondato. Il rossore ubriaco contribuì a nascondere almeno l’imbarazzo. 

«Tch, lo so che ti sei introdotto nel mio appartamento senza chiedermelo.»

Dazai si strinse nelle spalle.

«Ho sempre saputo che di base sei un’anima romantica. Ti piacciono anche i romanzi sentimentali e gli young adult pieni di pathos?»

«Va’ al diavolo!»

«Lo prendo per un sì!» e prima che Chuuya potesse rompergli la bottiglia del vino in testa, Dazai alzò un secondo dito. 

«Ti fa schifo il viola.»

Il Dirigente sbuffò. 

«Be’, questo non è un mistero.»

«… ma perché non si abbia ai tuoi capelli.» 

Chuuya annuì di malavoglia con una faccia scocciatissima e annegò una bestemmia nel calice. 

«Ehi, se indovino ti devo comprare il vino, dovresti essere contento.»

«Spara la terza e facciamola finita.»

Dazai mandò giù alla goccia ciò che rimaneva del suo whiskey e si passò il pollice sulle labbra per togliere i residui. Poi alzò il terzo dito. Il suo sorrisetto era in parte schermato dalla mano, ma si intravedeva ancora. 

«Questa è una mera constatazione» iniziò e Chuuya avvertì una fitta allo stomaco per la sensazione familiare di qualcosa di aspro e spigoloso in arrivo. 

«Entrare nella Port Mafia, anche se circuito, è la cosa migliore che ti sia mai capitata nella vita. Hai trovato il tuo posto. Hai trovato una famiglia. Ami la posizione che ricopri e ti preoccupi dei tuoi sottoposti, arrivando a vendicarli, anche se sembra non ti stiano simpatici. Il motivo per cui non temi di sporcarti le mani non è perché sei un mafioso, ma perché non vuoi perdere ciò che hai. E...» 

Dazai fece vibrare una risata di gola, roca, intima. 

«È anche il motivo per cui non ti sei arreso con me. Il tuo atteggiamento nei miei confronti non è mai cambiato di fondo. Mi hai portato via dall’ufficio di Mori-san senza concedergli il tempo di darti ordini, perché se ti avesse detto di uccidermi non lo avresti fatto. Mi consideri parte del tuo mondo.» 

I bicchieri si rovesciarono e uno cadde in terra spaccandosi, quando Chuuya salì con un ginocchio sul tavolo e la sua mano volò ad afferrare Dazai per la cravatta, costringendolo in avanti. La rabbia lampeggiò nel suo sguardo, bruciando di un’autocombustione che lasciava il dubbio se fosse rivolta contro il partner o verso se stesso. 

L’atmosfera fu asciugata da qualsiasi umorismo o emozione. Restò la tensione di camminare su un filo così sottile da dare per scontato che nessuno sarebbe sopravvissuto. 

Dazai non era più divertito, ma neanche serio. I suoi lineamenti erano calmi, distesi, quasi in attesa del verdetto. Quello che aveva da dire lo lasciò allo sguardo, ma senza malizia. Come aveva cominciato, finì allo stesso modo, con una constatazione: sappiamo entrambi che è così

Chuuya non sciolse la presa su Dazai, anche quando uno dei camerieri si affacciò attirato dal rumore. Capita l’aria che tirava, il ragazzo tentò di fare dietro-fronte. 

«Fermo» intimò Nakahara, ringhiando e facendo trasalire il poveretto. 

«Manda qualcuno a trovare un Romanée-Conti e mettilo sul conto di questo Sgombro del cazzo. E poi porta un altro giro a entrambi. Le bottiglie» specificò, senza mai sottrarre gli occhi da quelli del partner, anche dopo che il cameriere si defilò. 

«Gli hai fatto paura, Chuuya. Ti sognerà urlargli che è licenziato e che la mafia lo perseguiterà.»

Il tentativo di sdrammatizzare andò a vuoto. 

«Mi lasci andare?» 

In risposta, Chuuya lo strattonò di più, costringendolo a inarcare la schiena con dolore, mentre con l’altra mano lo afferrava per la nuca, facendo presa nei capelli. Dazai si ritrovò a piegare con fastidio la testa da un lato, ma non si lamentò, come non sbatté le palpebre. L’Arahabaki era un mostro, ma il suo vessillo non era mai stato da sottovalutare. 

«Mi fai male» sussurrò Dazai, senza sprecare lagne, ma appurando solo la sgradevole sensazione. 

«Non hai neanche la minima idea di quanto vorrei fartene» e non posso, disse e pensò tra sé Chuuya. «Dovevo ammazzarti a quindici anni.»

«Hai perso l’occasione» celiò Dazai con un sorrisetto strafottente, ma onesto. «Ci saremmo risparmiati un sacco di problemi entrambi.»

Chuuya lo lasciò andare, ributtandosi contro lo schienale del divano a braccia incrociare. Non parlò più per tutto il tempo in cui i camerieri tornarono per portare le nuove ordinazioni e pulire i cocci di vetro. 

Dazai si risistemò la camicia bianca sgualcita e allentò il nodo della cravatta, massaggiandosi la gola. Dall’altro lato del tavolo, Chuuya si liberò della giacchetta a mezzo busto e slacciò il gilet, sentendo una costrizione al petto che sapeva non avere nulla a che fare con i vestiti. 

Di nuovo soli, Chuuya si attaccò alla bottiglia del vino, ignorando il calice. Dazai non gli risparmiò un angolo di bocca sollevato a sottolineare che la sua mossa gli avesse concesso di promuovere una delle sue pedine a Dama. Non che Chuuya avesse idea di come Dazai si figurasse parte del loro rapporto come una partita. 

Per tutta risposta, il rosso alzò invece un dito medio. 

«Bevi, stronzo» gli intimò, riprendendo fiato da una sorsata così lunga che un terzo del contenuto era sparito. 

«Non voglio sentire un fiato da te finché non ti reggerai più in piedi.» 

Dazai gli accordò la richiesta in un cin cin solitario, riprendendo a sorseggiare il whiskey. 



 

«… tu hai una memoria di merda. Eravamo a Budapest e siamo stati inseguiti da quel tizio sanguisuga.»

Un tempo indefinito più tardi, i due erano scivolati sotto al tavolo insieme alle bottiglie. Chuuya stava fumando l’ennesima sigaretta, seduto a gambe incrociate e sfiorando appena l’altezza del tavolo. Al contrario, Dazai era mezzo sdraiato, appoggiato al bordo del divano in equilibrio precario, retto più dall’attrito dei vestiti, con ancora il bicchiere in mano e un dito di whiskey che ballava a ogni scroscio di risatine insensate. 

«Vampiro» lo corresse l’ex detective. «Ti ha morso un polpaccio e sei andato in paranoia blaterando ti avesse infettato. È successo a Bucarest.»

La vacuità dello sguardo con cui Chuuya replicò fu sinonimo della sua poca convinzione. 

«Tu non sei abbastanza ubriaco» e nel dirlo, afferrò la bottiglia di whiskey quasi finita e rovesciò tutto ciò che rimaneva nel bicchiere di Dazai, centrandolo per miracolo. 

«È la prima volta che beviamo così insieme, che ne sai che io da brillo non sia...» 

Dazai indicò tutto se stesso con un sorrisetto brillante, neanche avesse dovuto vendersi. 

«Se manco l’alcool ti spegne il cervello, non hai speranze» commentò Chuuya, sbuffando una voluta di fumo. 

Con un altro sorso, Dazai abbandonò le forze con cui si reggeva malamente al divano e scivolò di lato, finendo contro la spalla di Chuuya. Chiuse gli occhi. Non era un’altra posizione comoda, ma nessuno dei due se ne lamentò. 

«C’è una cosa che riesce a non farmi pensare.»

«Te ne compro mille» borbottò Chuuya, agitando la propria bottiglia di vino per stimare quanto ancora ce ne fosse. 

Dazai cedette all’impulso di ridere per la battuta, ma si zittì un istante dopo. 

«… Odasaku.»

«E ti pareva...»

Chuuya roteò gli occhi e scelse di riattaccarsi alla bottiglia, finendo le ultime gocce. 

«Non dirmelo» brontolò con una smorfia. «Riusciva a scoparti fino a spegnerti il cervello.»

Non fu una domanda, ma Dazai scosse la testa, ma infine annuì, fissando il bicchiere come se avesse potuto guardare in un pozzo oscuro e vederci quello che era stato un tempo. 

«Anche. Ma...» 

Il sapore del whiskey di quella sera era diverso da quello servito al Lupin. Gli sembrò una brutta copia, ma stava funzionando come veicolo per i ricordi. 

«Bastava lui.»

«Ok» convenne Chuuya diplomaticamente. «Sono io a non essere abbastanza ubriaco.»

Mise da parte il vino e fregò a Dazai il suo bicchiere, prendendo un sorso che però gli andò di traverso per il sapore disgustoso. Tossì e glielo ricacciò in mano. 

«Che schifo. E comunque… sai quanto picchia forte il tuo amico, porca puttana!?»

Dazai fece spallucce, passando l’indice sul bordo del bicchiere per poi leccarselo. 

«Presumo che negli ultimi quattro anni lo abbiano addestrato per questo. La sua abilità arrivava a prevedere cinque, massimo sei secondi, prima.»

«Cristo. Non addestri qualcuno al corpo a corpo così da zero.»

Dazai lo fissò dal basso verso l’alto, strusciando la guancia sulla sua spalla, mentre Chuuya controllava che il vino fosse finito davvero. 

«Prima di entrare nella mafia era un assassino su commissione. A quattordici anni ha tenuto testa a Fukuzawa-san.»

«… quindi è vero» sbuffò il rosso, arrendendosi e spegnendo anche il mozzicone della sigaretta. Appoggiò la testa contro la seduta del divano con stanchezza. 

«Ne avevo sentite di cotte e di crude, mentre indagavo su di lui. Qualcuno lo descriveva come un filantropo, altri come un mostro sotto al letto… merda

«Alla salute!» ridacchiò senza gioia Dazai, ingollando finalmente l’ultimo goccio. «Domani morirò di mal di testa e ulcera tra atroci sofferenze. La vita fa schifo.»

Chuuya ritrovò la propria vena incazzosa, incrociando le braccia, incurante del peso e della presenza di Dazai contro il fianco.

«Sai cosa fa schifo? Che da mesi non ci sia più un cazzo di giorno tranquillo! Succede sempre qualcosa, in continuazione! E non roba per cui ti porti una dozzina di uomini e risolvi. No, vaffanculo...» 

Allungò una mano sul tavolo, tastandolo alla cieca alla ricerca delle sigarette e dell’accendino. Trovate, si accorse che il pacchetto era vuoto e bestemmiò, rincarando la dose nel continuare il proprio sfogo. 

«Prima tutto il casino con quella cazzo di taglia sulla vostra Tigre Mannara. Poi si scopre che dietro c’è la Gilda che vuole radere al suolo la città. A questo segue quello stronzo russo amico tuo che quasi ci fa secchi. Ora risorge dalla morte quell’altro amico tuo...»

Non avendo né vino né sigarette a portata di mano, Chuuya si ritrovò a fissare il partner e il suo sorrisino pacifico da aspirante suicida. 

«Sei una fottuta calamita per i disastri e i casi umani.»

Dazai si umettò le labbra, ricambiando l’occhiata. 

«Già, tu sei stato il primo.»

Non c’era un modo per smontare e ribattere a quella affermazione. 

Chuuya artigliò l’aria sconfitto, sbuffò e si espresse in un verso disarticolato, per poi vociare verso l’ingresso del privè. 

«Ohi, cameriere! Un altro giro!»



 

Hirotsu e Akutagawa arrivarono all’ingresso del privè circa due ore più tardi, chiamati dal proprietario che non sapeva come disfarsi dei Dirigenti ubriachi. 

L’odore dolciastro di alcool languiva nell’atmosfera della saletta e fece arricciare il naso al più giovane, poco avvezzo. A prima occhiata non scorsero nessuno, salvo poi accorgersi di due piedi nudi che spuntavano da sotto il tavolo. Inequivocabilmente di Dazai, dalle bende intorno alle caviglie. 

I due mafiosi si scambiarono uno sguardo, prima di abbassarsi a constatare la situazione sotto il tavolo. 

«Oh, Chuuya, guarda! È arrivato il barboncino!» ridacchiò Dazai, alzando un dito per indicare, ma il braccio gli tremava troppo per rimanere fermo. 

Akutagawa aggrottò la fronte. Al suo fianco, Hirotsu mascherò uno slancio di risata con un colpo di tosse. Si schiarì la gola, porgendo la mano all’ex detective. 

«È la prima volta che la vedo davvero ubriaco, Dazai-san.»

Quest’ultimo ridacchiò. Chuuya non diede segni di interazione, russando e blaterando sillabe disarticolate nel sonno. 

«Stavamo… come si dice… recuperando!»

Quando Dazai riuscì ad afferrare la mano di Hirotsu al quinto tentativo, diede una spallata al partner, facendolo scivolare di lato, ma neanche questo lo svegliò. 

«Sai Hirotsu… penso che a Odasaku piacerebbe Chuuya… non in quel senso! Credo… forse sì.»

«Naturalmente» convenne l’anziano. Il sorrisetto che aveva sulle labbra era una linea divertita che, ancora una volta, pescava dall’esperienza, ma che allo stesso tempo non si stava davvero curando della conversazione. 

Mentre Hirotsu si occupava dell’ex detective, ad Akutagawa toccò infilarsi sotto il tavolo per recuperare l’altro Dirigente. Memore di essere stato minacciato in passato da Chuuya stesso di non sfiorarlo mai, per nessuna ragione, con Rashoumon, Ryuunosuke gattonò fino ad afferrare il superiore e trascinarlo fuori. L’operazione non fu facile, oltre che sgradevole per l’appestante odore di tabacco. 

Entrambi i mafiosi riuscirono a mettere i due Dirigenti seduti sui divani, ma l’equilibrio durò poco e sia Chuuya sia Dazai scivolarono all’indietro. Il primo continuando a dormire come un bambino, il secondo esibendo un’espressione nauseata. 

«Credo che i miei organi… vogliano scappare.»

«Disgustoso» commentò Akutagawa con una mano davanti a naso e bocca. Neanche la visione di un magazzino pieno di corpi maciullati gli avrebbe rivoltato lo stomaco come osservare due delle persone che più stimava, e a cui doveva portare rispetto, ridotte a spugne zuppe di alcool e pessimo umorismo. 

Dazai era troppo andato per uscirsene con qualcosa di sagace e brillante, così ridacchiò di nuovo, per poi pentirsene e coprirsi la faccia con i palmi. 

«Sì… fa tutto schifo» convenne, bloccando un conato sul nascere.

Akutagawa decise che poteva concedersi di ignorarlo e fissò il più anziano. 

«Come li riportiamo indietro?»

«Aspettiamo che si addormenti anche Dazai-san. Non ci vorrà molto» e Hirotsu lo disse tirando fuori il portasigarette e avviandosi all’uscita. Si fermò solo per un’ultima raccomandazione, una sigaretta già tra le labbra e l’accendino in mano. 

«Fa attenzione che non ti vomitino addosso. L’odore non se ne andrà più.»

Akutagawa considerò seriamente di disertare. 

 

To be continued.



 

Buon anno lettori! 

Speriamo sia pieno degli ultimi capitoli di No Longer Flawless (Prima Parte UU)... dobbiamo resistere fino al 22! 23 massimo…! 

Nel mentre, stanno succedendo tante cose! Non so se avete letto il capitolo nuovo di BSD oggi? Ecco, c’è un riferimento non voluto qui, una cosa che avevo appuntato quasi due anni fa, e che ora sembra la parodia di quello che sta succedendo, ahah. 

Ma oltre a questo, c’è qualche novità! 

Ho aperto un profilo instagram ( https://www.instagram.com/nolongerflawless.fanfic/ ) dedicato a NLF e alle storie che andranno a comporre la raccolta “No one knows all the story”. È un modo per sfogare un po’ di grafica :D 

In più, sto lavorando all’adattamento cartaceo di Dazai, please. (prequel di questa storia) e che penso di rendere disponibile verso fine Gennaio/Febbraio, vediamo come procede. Sto revisionando la storia e vorrei aggiungere un pezzo nuovo!
Se siete interessati, scrivetemi :D
Lascio il link per aggiornamenti (che farò anche su Instagram nelle stories!) https://dazaiplz.carrd.co/ 

Voglio impaginare anche NLF appena finirò la prima parte. Nel mentre, ho trovato penso il finale (o quasi) dell’intera storia. Ringraziate BEAST e-- *spoiler* 

 

Per finireeee chi vuole un po’ di Odasaku con l’aspetto che avrebbe in questa storia?
Ho fatto un “redraw”/edit di uno screenshot dalla Dark Era dopo il rewatch dell’altro giorno: 

 

(Oggi ho l’entusiasmo di Ranpo)

 

Noticine al capitolo (che me le scordo sempre)

kozou: vuol dire “ragazzino” (brat!) ed è come spesso Kunikida appella Atsushi!
Les Amoureuses: significa “gli amanti” *wink* Giuro che quando lo scelsi non lo sapevo.
Barboncino: nota dedicata alla Socia, che per prima lo chiamò così XD 

 

A presto!

 

Prossimo capitoloThe demons we're made of

 
   
 
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