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Autore: Sweet Pink    04/01/2022    4 recensioni
Impero Britannico, 1730.
Saffie Lynwood e Arthur Worthington non si potrebbero dire più diversi di così: freddo quanto implacabile giovane Ammiraglio della Royal Navy lui, allegra e irriverente ragazza aristocratica lei. Dire che fra i due non scorre buon sangue è dire poco, soprattutto da quando sono stati costretti a diventare marito e moglie contro la loro stessa volontà e inclinazione!
Entrambi si giurano infatti odio reciproco, in barba non solo al fatto di essere i discendenti di due delle più ricche e antiche famiglie dell'Impero, ma pure alla vita che sono sfortunatamente costretti a condividere.
Eppure, il destino non è un giocatore tanto prevedibile quanto ci si potrebbe aspettare, poiché sono innumerevoli i segreti che li tengono incatenati l'uno all'altra; segreti, che risalgono il passato dei Worthington e dei Lynwood.
E se, con il tempo, i due nemici si scoprissero più simili di quanto avrebbero mai immaginato, quale tremendo desiderio ne potrebbe mai derivare?
Genere: Romantico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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Avviso importante: I capitoli Nono e Decimo sono due parti di un unico blocco, che ho deciso di separare. Per questo motivo, oggi pubblico solo il Nono mentre – rullo di tamburi – la settimana prossima verrà aggiornata la storia con il Decimo. Se vorrete fermarvi con me in fondo al capitolo, vi verrà fornito qualche dettaglio in più.

Buona lettura e scusate ancora per il ritardo.




CAPITOLO NONO

CONOSCERSI

Prima parte




“No, vi imploro! Non fategli alcun male!”

Il fascio di una luce gentile e tiepida cadde sulle sue palpebre chiuse, come a volerla salvare dalle sue stesse urla, che le esplodevano disperate nella testa.

“È me che cercate! La figlia di Alastair Lynwood! Earl non ha alcuna colpa!”

E poi, ovviamente, suo padre.

“Ti concederò una scelta, Saffie: libertà insieme al tuo disgustoso plebeo o Amandine, e la prigionia nel Northampton. Fai attenzione a ciò che deciderai di fare, poiché è in mezzo agli squali che stai nuotando.”

Gli occhi assonnati della signora Worthington si aprirono piano, con lenta cautela, mentre quest’ultima si rendeva conto che l’alba doveva essere appena sorta. Un chiarore pallido filtrava dalle vetrate poste di fianco al letto vuoto su cui si era svegliata, tramutando la stanza in un caleidoscopio di colori pastello che si infrangevano sul suo esile corpo rannicchiato, sui lunghi capelli castani sparpagliati fra le lenzuola e sul suo volto da bambina sperduta.

Le dita di Saffie si allungarono leggere di fronte a lei, esplorando la porzione di morbido materasso su cui – fino a qualche ora prima – avrebbe trovato il corpo tonico del Generale Implacabile. Le lenzuola erano fredde e inospitali, così diverse dal gentile abbraccio che l’aveva stretta la sera prima: il fatto che l’uomo non fosse al suo fianco, le fece provare più freddo di quanto ce ne fosse nella realtà dei fatti.

“Lui non c’è” considerò, e fu il primo pensiero della giornata.

Mi è stata concessa una falsa scelta, ma sono stata io a decidere.

“Io dico sempre la verità, Saffie.”

In fondo, lo aveva detto che Arthur era un eccellente bugiardo, ma anche lei si era dimostrata tale.

Saffie si alzò leggermente con il busto e osservò la stanza vuota, notando subito l’assenza del cappotto dorato che aveva restituito a Worthington. Strinse al petto le coperte, assordata dal silenzio pressante della camera e aggredita da un sentimento fastidioso, contrastante.

Lui non c’è.

Davvero, sciocca, che altro ti eri aspettata?



§



Il sole splendeva alto e accecante nel bel mezzo di un vasto cielo celeste, libero da qualsiasi uccello o nuvola; mentre il mare aperto accoglieva sereno l’Atlantic Stinger, nave da guerra occupata in un inseguimento logorante e instancabile ai danni del veloce vascello nero che prima o poi si sarebbe arreso al suo triste fato.

Erano passati tre giorni dalla sanguinosa battaglia che aveva strappato a tanti valorosi uomini la vita e, in quello stesso caldo pomeriggio, la Duchessina Saffie Worthington si decise a fare la sua apparizione sopracoperta: accompagnata dalla fedele dama di compagnia, la ragazza percorse la lunghezza del ponte con tutta calma, stringendo al petto un libro e nell’altra mano un candido parasole costituito più di pomposi merletti che altro.

“È di-di certo ricco di preziosi dettagli, si-signora” aveva commentato qualche istante prima Keeran Byrne, cercando di non sorridere di fronte alla faccia sconvolta della sua padroncina; avevano aperto uno dei numerosi bauli procurati da Cordelia – alla disperata ricerca di un ombrellino – e si erano trovate davanti quello che a prima vista sembrò loro essere un paralume coperto di trine e nastrini. Cosa che, per quanto fosse cresciuta tra l’Alta Aristocrazia e i salotti di Londra, non fece che aumentare la repulsione di Saffie per i doni di nozze generosamente offerti dai suoi genitori.

La Duchessina sapeva di dover scrivere al padre una volta arrivata a Kingston ma, pure questo, parve provocarle una sensazione di istintivo rifiuto. Certo, poteva forse dire che i rapporti con il suo autoritario marito si stessero lasciando alle spalle l’odio cieco degli ultimi mesi, anche se la ragazza non poteva dimenticare le azioni inumane di suo padre, né che lei non avrebbe dovuto – o voluto – trovarsi in quella posizione.

Aveva preso il posto di Amandine, ed era stata imprigionata da un’oscura ambizione.

Malgrado la verità di queste affermazioni, la ragazza castana dovette fare uno sforzo immane sia per domare l’agitazione ansiosa che le agguantò il petto, sia l’impulso di voltarsi e alzare lo sguardo sul ponte di comando dove, ne era certa, avrebbe incontrato la sagoma alta di Arthur Worthington.

“Sono pr-proprio contenta di vedervi di nuo-nuovo pronta per le vostre passeggiate!” esordì la voce allegra della ragazza mora al suo fianco, ora non più impaurita di uscire sopracoperta come accadeva un tempo. “Quale racconto leggeremo oggi?”

Saffie lanciò un’occhiata a Keeran e fu a sua volta sollevata nel vedere il suo viso bianco distendersi in un’espressione di quieta serenità, come se finalmente la diciassettenne stesse facendo capolino con la testa fuori dal suo guscio di impaurita diffidenza. “È una sorpresa” le rispose quindi, agganciando il braccio a quello della domestica e affrettando il passo in direzione della sua tanto amata prua, rifugio personale e luogo eletto per le letture all’aperto.

“Qu-quanta energia, si-signora!”

La ragazza castana gratificò con un sorriso gentile i marinai al lavoro intorno a loro, che si voltarono ossequiosamente a salutarla e si spinsero addirittura a levarsi i berretti al suo passaggio. “È l’entusiasmo di questi uomini che non comprendo, Keeran. Da quando veniamo accolte con così tanta benevolenza?”

“Oh, certo!” si stupì la diciassettenne, voltandosi a sorriderle con ammirazione, i capelli corvini che sfuggivano ribelli dall’acconciatura. “In questi ultimi giorni non si è fatto che parlare di voi sull’Atlantic Stinger: vi trattano in questo modo poiché sanno bene quanto siete stata coraggiosa, nel salvare il piccolo Ben!”

Un timido imbarazzo si propagò dentro Saffie, che abbassò il capo verso terra in silenzio. “E io che pensavo mi avrebbero giudicata come una sorta di donnaccia incapace di stare al suo posto…” commentò piano, rivolta forse più a sé stessa che alla ragazza in sua compagnia.

“Se fossi almeno la metà di quello che è tua sorella, io e tua madre potremmo morire felici.”

Le dame giunsero infine davanti al castello della nave, dove un gruppetto di cordiali uomini di mare fece loro posto, portando due rozzi sgabelli di legno e facendo gesto di accomodarsi. Malgrado i funesti pensieri della Duchessina, l’equipaggio al servizio di Sua Maestà si poteva dire ormai acclimatato alla presenza della signora Worthington e della bella Keeran Byrne; non l’avrebbero mai ammesso nemmeno sotto tortura, ma era un toccasana per le orecchie poter ascoltare le ragazze leggere ad alta voce e allietare così giornate di massacrante lavoro.

“È un piacere rivedervi, signora” asserì un giovane uomo, facendo un cenno reverente con la testa castana. “Nuovo libro?”

“Ciò che pure io vorre-vorrei sapere!” commentò l’irlandese con forza. La signorina Byrne si mise seduta di fronte alla sua padrona e continuò, sistemandosi le pieghe della gonna blu con impacciata indifferenza: “La signora oggi è piuttosto mis-misteriosa!”

A quanto pareva, pensò Saffie, Keeran aveva trovato più sicurezza anche nell’interagire con gli altri e, in segreto, ringraziò Douglas Jackson per questo. La Duchessina sfoderò la solita espressione soddisfatta nel vedere gli uomini attorno a loro arrossire di fronte all’atteggiamento di adorabile ingenuità della sua serva, per non parlare del successo che riscuoteva la sua bellezza da creatura fragile, pure se quest’ultima non se ne rendeva affatto conto. “Dovrete aspettare ancora qualche secondo, temo” rispose divertita la ragazza castana, aprendo solennemente il libro che aveva portato con sé; e ne avrebbe rivelato il titolo se due manine famigliari non fossero comparse dal nulla per tirarle i lembi del suo prezioso abito rosa pallido.

“Il-il piccolo Ben Rochester!” esclamò la signorina Byrne, entusiasta di rivedere il figlio dottore, con cui ormai aveva stretto amicizia. “Vostro padre vi ha lasciato libero, vedo.”

“Dice di essere troppo occupato per potermi tenere costantemente d’occhio, seppure io non credo di essere un combinaguai” disse la sua il ragazzino, puntando poi due gemme turchesi sul viso di Saffie. “Tendete la mano, signora.”

Perplessa, la ragazza castana fece come le era stato chiesto e aspettò di vedere il piccolo pugno di Ben aprirsi sul suo palmo, prima di chiedere: “Un… biglietto?”

Loquace come al solito, il bambino annuì una sola volta e – mentre Saffie era impegnata a studiare il pezzo di carta che aveva fra le dita – commentò, stoico: “Lui ve lo manda.”

Gli occhi dell’interessata si spalancarono sul vuoto, mentre un fastidiosissimo rossore cominciò a bruciare sul suo volto sorpreso.

“Ah, ma certo” fece la vaga Saffie, non osando alzare lo sguardo su niente che fosse il biglietto scritto dall’ammiraglio Worthington: null’altro che un foglio di pergamena strappato su cui l’uomo aveva scritto un’unica fredda frase e, ovviamente, la sua grafia non poteva che essere ordinata ed elegante.

Altre lezioni all’aperto, ragazzina?

“Gli ho già detto di non chiamarmi in questo modo” sbottò fra sé la ragazza, sbuffando sonoramente. Era irritata dal lato di Worthington che sembrava non riuscire a fare a meno di provocarla: fin dal loro primo incontro, in effetti, l’ammiraglio si era sempre dilettato nel colpirla attraverso sottili frecciatine dalla punta avvelenata di superiorità. Come dimenticare il suo pomposo Padre, vi prego di non mettere in imbarazzo la signorina Lynwood con il vostro rumoroso entusiasmo; seppure credo sia difficile possa succedere una cosa del genere?

Saffie ricordò di essersi interrogata già allora sul senso della frase indifferente dell’uomo, che la conosceva da nemmeno mezz’ora e si era permesso di giudicarla alla stregua di uno dei suoi famigliari; come se, in due battute scarse, avesse compreso alla perfezione il suo carattere!

Inoltre, era diventato palese che Arthur fosse a conoscenza delle lezioni che soleva impartire a Keeran e al povero Douglas Jackson, ma questo la lasciò piuttosto indifferente, al confronto con le emozioni discordanti provocate dal ricevere un biglietto proprio da lui. Così, si sporse verso il ragazzo di bordo e disse, mettendosi una piccola mano davanti alla bocca: “Grazie, Ben. Riferisci pure questo messaggio al mio caro e premuroso consorte…”

Nell’ascoltare il bisbiglio misterioso della signora Worthington, il figlio del medico di bordo strabuzzò tanto d’occhi e si voltò a guardarla con un’aria esterrefatta, quasi a voler controllare che la ragazza non stesse scherzando. “De-devo riferire queste parole?” balbettò infine il piccolo, sfregandosi nervosamente le manine pallide. “No-non si arrabbierà?”

“Oh, no” rispose soavemente Saffie, ignorando lo sguardo perplesso dell’irlandese seduta a poca distanza. Anzi, un sorrisetto nervoso si fece strada sul suo viso ovale e lei continuò, tradendo una nota di malcelata rabbia: “D’altronde, io sono la futura Duchessa che a tutti i costi ha voluto sposare”.

“Dal momento in cui hai accettato questo vergognoso legame, sei tu ad averci condannati a questa infelicità”.

Il mio cuore si è smarrito, ma io non potrò mai dimenticare.

È stato Arthur stesso a chiudere il lucchetto di questa mia odiata gabbia dorata.

Gli occhi sempre luminosi e gentili della signora Worthington furono attraversati da un’emozione strana, ma tremenda da osservare. Il tempo di un secondo, che quel momento sembrò essere passato e la ragazza voltò la chioma castana di nuovo verso Keeran, sorridendo gaia come non mai. “Ora, sveliamo il tanto atteso segreto” asserì, mostrandole il frontespizio del libro che teneva fra le mani. “Hai mai sentito parlare di Shakespeare e dell’opera chiamata Re Lear?”



§



Trincerato nella sua pomposa divisa blu, Arthur Worthington studiava le carte di navigazione che i suoi comandanti gli avevano aperto davanti e, più osservava la complessità delle mappe, più si rendeva conto che sarebbe stata dura concentrarsi, quel giorno.

E non c’entrava nulla il fatto che si fosse svegliato con la ferita nuovamente sanguinante, nascosta sotto l’abbondante strato di bende applicato da un seccatissimo Benjamin Rochester; quanto, piuttosto, l’aver aperto gli occhi ed aver trovato l’insopportabile Duchessina ancora rannicchiata contro di lui, il piccolo corpo adeso al suo e un’adorabile espressione serena stampata su quel viso che lui aveva detto di disprezzare.

“Stai mentendo. Tu odi te stesso molto più di quanto detesti me.”

Da quando suo padre l’aveva ritrovato, Arthur non aveva permesso a nessuno di vedere il lato di sé che più odiava, di cui più aveva paura: era difatti cresciuto esercitando un controllo irreprensibile su sé stesso e su tutto ciò che gli era attorno, trasformandosi di sua volontà nel famoso Generale Implacabile. Aveva giurato davanti alla morte che sarebbe diventato un predatore senza alcuno scrupolo o pietà, proprio come i disgustosi demoni che l’avevano strappato alla sua vita e lo avevano venduto al diavolo, costringendolo fin troppo presto a sporcarsi le mani di sangue.

E a scegliere se voltare le spalle a tua madre o sopravvivere.

Dimenticalo. Dimentica tutto.

Arthur sapeva di aver costruito un’armatura incrollabile, di perfezione e grandezza, dietro alla quale nessuno avrebbe più potuto fargli del male ma, proprio per questo, ne aveva anche pagato il giusto prezzo: un sentimento di terrore annichilente su cui non aveva alcun potere e che cresceva tanto quanto la sua ambizione si faceva più grande. Un odio e un senso di colpa immensi, che sembravano non placarsi mai.

La tipica voracità capricciosa di chi vuole impossessarsi di tutto, compreso ciò che non può avere.

Eppure lei aveva compreso i suoi sentimenti con un’immediatezza che l’aveva lasciato completamente spiazzato. Non avrebbe mai voluto farsi vedere in quelle condizioni dalla strega che aveva designato come nemica, ma ogni difesa era crollata di fronte all’ennesimo attacco di Saffie e di una tristezza che giorno dopo giorno riconosceva sempre più simile alla sua.

Così uguale e diversa da me, che non ho voluto lasciarla andare.

Le iridi verdi di Worthington si sollevarono e guardarono oltre al parapetto in legno, inquadrando la piccola figura di Ben Rochester avvicinarsi di corsa all’imboccatura delle scale del ponte di comando, l’espressione da solito combinaguai stampata sul volto paffuto.

Aspettò di vederlo salire i gradini e scansare le alte figure degli Ufficiali al lavoro – che si voltarono a osservarlo come se non l’avessero mai visto a bordo della nave – prima di commentare, facendogli cenno di avvicinarsi al suo tavolo: “Hai fatto presto, Ben. Sei stato bravo”.

Gli occhi turchesi del ragazzino saettarono sul viso virile dell’Ammiraglio con nervosismo e quest’ultimo pensò subito che qualcuno di sua conoscenza ne avesse combinata una delle sue. “Lei ha un messaggio per voi, Eccellenza” sussurrò dopo poco il piccolo, strusciando un piede per terra. “Mi ha detto di riferirvelo personalmente.”

Malgrado fosse un uomo adulto ed ammirato, Arthur Worthington dovette subire l’assalto di un sorpreso imbarazzo che, a tradimento, si fece strada dentro al suo cuore spezzato; certo, si sarebbe dovuto aspettare una qualche reazione da parte di Saffie a seguito del biglietto che le aveva fatto recapitare, ma non aveva creduto per davvero in una sua possibile risposta.

In effetti, nemmeno lui sapeva bene perché avesse deciso di mettersi in contatto con lei e provocarla.

Forse desidero che quella di ieri notte non sia stata solamente un’eccezione al nostro odio accecante.

“Dimmi, ragazzo” disse quindi a Ben, staccando le ampie spalle dalla poltrona di vimini e appoggiando i gomiti sulle ginocchia, le dita lunghe delle mani che si intrecciavano le une con le altre.

Dal canto suo, il figlio del signor Rochester prese un bel respiro di incoraggiamento e si sporse verso la testa scura di Arthur, portandosi le piccole manine attorno alle labbra con fare confidenziale. “Ehm...ha detto di riferivi che Non dovete essere invidioso, poiché vi darà il permesso di partecipare alle sue lezioni se lo desiderate” recitò parola per parola Ben, all’orecchio di Worthington. “Pure se non siete un amante dei Tea Party.

“…di non aver molto tempo per organizzare dei deliziosi tea party sopracoperta con i miei ufficiali.”

Un ghigno di sardonico divertimento comparve sul viso di Arthur, infastidito e al contempo internamente soddisfatto dalla risposta di una Duchessina di Lynwood che, come solito, non era intenzionata a farsi mettere i piedi in testa. “La tua è una bocca tanto bella quanto presuntuosa, mia cara” pensò con ironia l’Ammiraglio, voltando lo sguardo a prua dell’Atlantic Stinger e ricordando che era stato così fin da subito, fra loro due: un bizzarro gioco di arroganza e presunzione nato al primo sguardo.

Al primo sguardo?

Il suo forse lo era, ma il tuo…non è che hai dimenticato pure questo?

Il tempo di pensarlo e una nuova ondata di brividi gelati lo scosse interamente, provocandogli un giramento di testa nauseante e doloroso; ancora, lo stato di malessere che da qualche giorno a quella parte sembrava perseguitarlo senza sosta piantò le sue unghie affilate nelle sue viscere e Arthur ebbe l’impulso di rimettere il poco che era riuscito a mangiare.

“Ammiraglio, state…state bene?”

Il piccolo Ben lo guardava con uno sguardo preoccupato, le iridi celesti e incredibili inchiodate sulle sue. In un momento di follia, Worthington pensò fossero identiche a quelle di Amandine e si stupì di non essersene accorto prima di allora.

“Io…”

Feccia! Perché li avete portati di nuovo quassù?!”

La voce incollerita e indignata di James Chapman si era levata sopra tutti loro, congelando per un secondo l’intero vascello da guerra e uccidendo sul posto un povero nostromo fresco di promozione, che si rattrappì su sé stesso. Dietro le sue spalle magre, stavano in silenzio i dieci prigionieri della Mad Veteran che, ferri arrugginiti alle caviglie e ai polsi, non osavano alzare lo sguardo da terra.

“Sono stato io ad ordinarlo.”

La figura salda e robusta di Henry Inrving si avvicinò al parapetto dell’Atlantic e, braccia incrociate dietro la schiena, lanciò uno sguardo agli uomini incatenati sotto di loro. “Questi criminali hanno richiesto nuovamente di poter parlamentare” spiegò il capitano, ignorando gli occhi improvvisamente pericolosi dell’Ammiraglio Worthington, seduto a poca distanza da lui. “Inoltre, hanno smesso di accettare cibo e acqua.”

“Non potete discutere gli ordini del Generale Implacabile!” gli sibilò contro il tenente Chapman, quasi digrignando i denti dalla rabbia.

“E invece posso eccome” rispose tranquillamente l’altro uomo, voltando la testa grigia in direzione di Arthur e guardandolo in quieta attesa. “Se questi ordini contravvengono alle leggi dell’Impero.”

Un sorriso livido apparve sulle labbra sottili di Arthur Worthington ed egli raddrizzò la schiena lentamente, con la calma di un serpente letale. “Quale sorpresa, capitano Inrving” sillabò freddamente, piantando due ferme iridi chiare sull’uomo che aveva osato sfidarlo. “Sono fremente di curiosità, lo ammetto: che intenzioni avete, per l’esattezza?”

Tutti, sul ponte di comando, colsero la sfumatura di collera con cui quella domanda era stata pronunciata. Più di un Ufficiale trattenne il respiro e ringraziò il Cielo di non essere al posto di colui che aveva avuto la folle idea di disturbare il mostro dormiente; eppure, a nessuno di loro venne in mente come – nella sua lunga vita – Henry avesse dovuto affrontare sfide molto più pericolose del confrontarsi con il tanto temuto Worthington. Sì, era genuina la soggezione che il giovane uomo incuteva anche ad un lupo di mare come lui ma, davanti all’onore e alla salute del suo equipaggio, non esisteva Generale Implacabile di sorta.

“Dare a questi uomini il giudizio che loro stessi chiedono” spiegò semplicemente, toccandosi la falda del tricorno blu con indifferenza. “Il nostro dovere di servitori dell’Impero ci impone di giustiziarli seduta stante ed evitare in questo modo che continuino a sprecare preziose razioni di cibo e acqua.”

“In ogni caso, rimanete un semplice Capitano!” rimarcò il punto James, gli occhi grigi colmi di indignato nervosismo. Il ragazzo stesso era consapevole di essere in linea di massima d’accordo con le parole di Inrving, ma il solo fatto che quest’ultimo si permettesse di sovvertire la volontà di Arthur gli sembrò inaccettabile. “L’Ammiraglio Worthington ricopre il grado apicale della nostra gerarchia, non voi!”

Il volto da padre benevolente di Henry si tese in un’espressione di sprezzante insofferenza. “E voi dimenticate ancora il vostro posto, Chapman” lo rimbeccò severamente. “Potete anche essere il protetto del Generale, ma rimanete un tenente fra i migliaia presenti nelle file della Marina.”

Un silenzio gelido scese per la seconda volta tra gli astanti e il capitano si sentì libero di continuare, riportando il suo interesse su un Arthur immobile come una terribile statua di pietra. “Ho perso cento uomini nella battaglia di tre giorni fa. Cento valorosi soldati che non hanno avuto alcuna giustizia, mentre questi criminali implorano di essere dati in pasto all’oceano” gli disse, tornando ad ammorbidire il suo tono di voce. “Forse il vostro attuale stato di salute vi ha impedito di agire con la fermezza che vi contraddistingue, Ammiraglio.”

“Stai mentendo. Tu odi te stesso molto più di quanto detesti me.”

Dimenticalo.

E allora lo sguardo negli occhi chiari dell’uomo si fece limpido di una determinazione gelida e crudele, inamovibile. “Ben” chiamò, attirando l’attenzione del bambino al suo fianco, impegnato a fissare i corpi malandati dei prigionieri come se fossero usciti direttamente da un incubo. “Desidero tu faccia ritorno negli alloggi di tuo padre.”

Il ragazzo di bordo voltò la chioma castana verso Arthur con uno scatto meccanico. “Ma papà ha detto…”

“Niente Ma” lo interruppe seccamente Worthington, alzandosi dalla poltrona ed ergendosi davanti a lui in tutta la sua minacciosa statura. “Se tu assistessi a ciò che sta per accadere, il Dottore non me lo perdonerebbe mai.”

Non è ironico?

Tu alla sua età avevi già ucciso una persona, Arthur.

Scrollandosi di dosso l’assurdo sudore ghiacciato che aveva ricominciato ad insinuarsi sotto la sua divisa, Worthington avanzò fin davanti al parapetto del ponte superiore, indossando la sua migliore maschera di irreprensibile autorità. Al di sotto delle sue iridi smeraldine, il gruppetto di pirati attendeva di esser sottoposto al giudizio del mare e, dietro alle sue spalle, altrettanto facevano i suoi inferiori: aspettavano di vederlo dare l’ordine senza che vi fosse alcuna esitazione o, peggio, alcuno scrupolo.

Perché il Generale Implacabile non dimostrava mai nessuna pietà.

Un macigno sembrò crollargli sulla schiena, soffocante.

“La morte indiscriminata non è la soluzione!”

“In effetti, ho pensato fosse assai strano vi fossero dei prigionieri” bisbigliò un giovane sottotenente, non abbastanza a bassa voce per non essere udito dall’Ammiraglio. Un altro gli rispose subito, mostrandosi d’accordo con lui: “Con l’Implacabile al comando, perlomeno. In ogni caso, non ha senso portarli fino a Kingston…che senso ha sfamarli, se il Governatore non esiterà a firmare la loro condanna a morte?”

Dimenticalo. Dimentica tutto, Arthur.

Un sentimento difficile da decifrare si fece strada sul volto raffinato dell’Ammiraglio, tanto che gli fu difficile mantenere il suo amato controllo.

Ma è stata lei a farti riscoprire la persona che credevi di aver seppellito sotto un abbondante strato d’oro.

Questo, non riesci a dimenticarlo.

“In nome di Re Giorgio e della Corona, che in questa sede io rappresento, giudico i prigionieri della nave corsara rinominata Mad Veteran come colpevoli di pirateria, omicidio e saccheggio” recitò ad alta voce, in modo che tutti potessero udirlo, criminali compresi. “Di questi crimini risponderanno con la condanna a morte per fucilazione, che avverrà immediatamente.”

Un mormorio d’assenso si fece sentire dietro di lui e, di nuovo, ad Arthur venne da essere disgustato di sé stesso.

“Fucilazione?” chiese perplesso Henry Inrving, avvicinandosi di qualche passo alla sagoma imponente dell’Ammiraglio. “Non dovremmo appenderli?”

Per quanto il capitano volesse vendicare e rendere giustizia alla morte di tanti suoi uomini, ogni altra protesta gli si bloccò in gola, alla vista del viso di Arthur. L’uomo si voltò con il busto nella sua direzione, i capelli castano scuro che s’intrecciavano sulla fronte alta e un pallore mortale sul viso contratto di rabbia. “Non un’altra parola” gli sibilò, in un tono terribile. “Otterrete la giustizia che tanto avete preteso, ma osate mettere un’altra volta in dubbio la mia autorità e farò impiccare voi davanti a tutto l’equipaggio.”



§



Keeran puntò gli occhi nero pece sulle righe del libro, aggrottando le sopracciglia e cercando di concentrarsi sulla fila di lettere che si susseguivano una dopo l’altra, più che sul contenuto dell’opera tragica proposta quel giorno dalla signora Worthington. “Il principe tene-tenebroso” cominciò a leggere ad alta voce, il tono incerto di chi sta soppesando una questione piuttosto importante. “No. Il principe delle tenebre è un gentiluomo.

“Molto bene, cara mia” annuì con vigore Saffie, le mani giunte in grembo e un’espressione soddisfatta stampata sul viso leggermente arrossato dal sole. “Davvero, hai fatto dei notevoli progressi nella lettura e – da ciò che mi hai mostrato finora – posso anche azzardare tu possa cominciare a redigere un diario tutto tuo.”

La diciassettenne alzò pigramente gli occhi dal libro aperto sulle sue ginocchia e commentò, timidamente: “È solo merito delle vostre lezioni, signora. Per quanto ancora io confonda al-alcune sillabe o non riesca a vedere le-le paro…” e si interruppe per un momento infinito, arrossendo furiosamente. “Un dia-diario, avete detto?”

La ragazza seduta di fronte a lei rise piano, divertita dall’innocente stupore della sua serva. “Ma certo! D’altronde ogni signorina che si rispetti tiene un suo Journal nel cassetto!”

Le iridi da cucciolo spaurito della signorina Byrne si abbatterono verso terra, sulle sue cosce tornite. “Io non-non sono una signorina perbene, però” mormorò alla sua padrona, cercando di non farsi udire dai marinai al lavoro intorno a loro.

“…tu sei il nulla.”

I lineamenti dolci della Duchessina di Lynwood si fecero malinconici, specchio di un dispiacere che non sapeva come esprimersi: in quelle lunghe settimane, Saffie aveva infatti provato a chiedere all’irlandese qualche informazione sulla sua vita di prima ma, ogni volta, la giovane si era dimostrata elusiva nei suoi confronti, rinchiudendosi subito dentro al suo guscio impenetrabile. E così, la signora Worthington aveva pensato fosse meglio lasciare che fosse Keeran stessa a venire da lei, quando si trovasse pronta ad aprirsi sul suo passato.

Questo, ovviamente, non stava a significare che si sarebbe arresa!

Rinvigorita dal suddetto pensiero, la ragazza castana si sporse con la schiena in avanti e attirò l’attenzione della sua dama di compagnia. “Keeran” la chiamò sottovoce, con sommessa pazienza. Aspettò di vedere il paffuto viso della diciassettenne alzarsi sul suo, prima di continuare: “Hai fiducia in ciò che dico?”

Gli occhi oscuri dell’interpellata si spalancarono, sorpresi. “Lo-lo sapete benissimo!” rispose con energia, per poi portarsi una mano tra i capelli corvini con goffo imbarazzo. “Io-io credo a qualsiasi cosa esca dalla vostra bocca, signora.”

“Cielo, forse così è un po’troppo” rise di nuovo Saffie, sventolando una mano nella sua direzione. “In questo caso, io non solo affermo che tu sei una gentildonna degna di avere un diario, ma pure una ragazza intelligente e di rara bellezza. Non siete d’accordo, signori?”

E voltò la chioma castana in direzione di un piccolo gruppo di giovani marinai in ascolto a pochi passi da loro che, a vedersi presi in causa dalla signora Worthington in persona, scattarono sull’attenti e divennero rossi tanto quanto un grappolo di ciliegie mature.

“Non potevate essere più onesta e giusta” si fece avanti il più coraggioso dei ragazzi, inchinandosi profondamente come fosse un paggetto di corte. “La signorina Byrne ha la beltà eterea e irraggiungibile di una sirena, se mi permettete l’ardire.”

“Ben detto!” si dimostrò d’accordo Saffie, ignorando una pietrificata Keeran che – a bocca aperta – li osservava tutti senza spiccicare parola. “Apprezzo l’analogia, signor mio!”

“Si-signora!” esclamò infine l’irlandese, sforzandosi di non sorridere dal divertimento e dalle lusinghe ricevute.

Riesce a condividere con me questo suo paradiso, pure se non mi appartiene.

“Sono più che decisa a farti dono di un diario, una volta arrivati a Kingston” continuò imperterrita la Duchessina, tornando a guardarla con i suoi occhi grandi e allegri. “Ne saresti felice?”

Illegittima, a nessuno importa della tua felicità.

“Io…sì, mi farebbe tanto piacere” disse l’irlandese, aprendosi finalmente in un sorriso di spontanea gratitudine; e stava per chiedere alla sua padroncina se c’era ancora tempo per continuare a leggere, ma qualcuno intervenne sulla scena e la precedette.

“Buongiorno, signora Worthington.”

Le due dame si voltarono contemporaneamente e inquadrarono subito la figura slanciata di James Chapman, rigidamente in piedi al loro fianco. Il tenente le osservava con una strana ansia dipinta sul viso da arrogante, mentre le iridi metalliche si posarono sulla moglie dell’Ammiraglio con tesa urgenza. “Perdonate l’interruzione, ma dovete seguirmi immediatamente” disse, tradendo una nota di incertezza nella solita voce pomposa.

“È successo qualcosa di grave?” venne naturale chiedere a Saffie, il cui cuore perse un battito. La ragazza non ne conosceva esattamente il motivo, ma poteva scommettere che il suo indecifrabile marito c’entrasse qualcosa con l’apparizione di Chapman. “Non si tratterà di un’altra battaglia?!”

Il tono impaurito della Duchessina non sembrò smuovere più di tanto James, il cui sguardo grigio lasciò intendere un fastidio nemmeno troppo velato. “Non sta a me parlare, né a una donna come voi interessarvi degli affari della Marina, mia signora” commentò acidamente, sfiorando la mancanza di rispetto.

Nello stesso istante in cui Saffie aveva modo di stupirsi della reazione del tenente che – comunque – era sempre stato ossequioso nei suoi confronti, l’aiuto venne da una persona abbastanza improbabile: Keeran si alzò di scatto dal suo sgabello e, a pugni chiusi, affrontò Chapman. “Ri-ripulite il vostro vocabolario, signore!” esclamò, tremando leggermente. “Siete al cospetto di una Du-Duchessina; dovete ricordare il- il vostro posto!”

La mandibola della nobile in questione cedette di botto ed ella si trovò a spostare gli occhi spalancati su un esterrefatto James, che si volse a guardare la sua serva come se si fosse accorto solo in quel momento della sua presenza. “Non mi stavo rivolgendo a voi” sillabò il tenente con voce gelida, lanciando su Keeran uno sguardo di sprezzante superiorità. “La vostra padrona vi lascia parlare senza essere interpellata?”

Saffie capì che era giunto il tempo di intervenire fra i due giovani e sventare una tragedia annunciata. “La signorina Byrne non è la mia schiava, tenente” si intromise con severità, alzandosi in piedi e aprendo sopra la sua testa l’elegante parasole merlettato. “Ora, ritiriamoci nelle nostre stanze e proseguiamo la lezione al sicuro da questo sole cocente.”

L’interessata chinò subito la voluminosa testa nera e chiuse le mani bianche in grembo, facendo un piccolo inchino. “Come desiderate, signora” fece e, dopo aver lanciato una coraggiosa occhiata di rabbia a James, si affrettò a raggiungere la figura minuta di una Saffie già in marcia verso gli alloggi degli Alti Ufficiali.

Il ragazzo seguì Keeran con lo sguardo, chiuso in un silenzio costituito di orgoglio e dignità offese. “Stupida servetta” la insultò con il pensiero, traboccante di quella stessa insofferenza che da giorni non lo lasciava in pace: perché tutti continuavano a rimarcare il fatto che lui non valesse un bel niente.

Ehm

Al suono indistinto che udì, i suoi occhi d’acciaio si sollevarono con indifferenza e inquadrarono un piccolo capannello di uomini di mare intenti a guardarlo di sottecchi, come se lui fosse un bambino appena colto con le mani nella marmellata. “Dunque? Siamo arrivati in porto e non me ne sono accorto?!” ironizzò, quasi gridando. “Tornate immantinente al vostro lavoro!”

Lasciati indietro il tenente Chapman e la sua insopportabile superbia, la Duchessina di Lynwood e l’irlandese superarono l’albero maestro a passo sostenuto, scostando con grazia il viavai di marinai indaffarati e sollevando il giusto le loro gonne colorate, per non imbrattarle più del necessario.

“Sono fiera del tuo intervento di prima, Keeran” commentò la ragazza castana, il cui sguardo era stato attirato da una strana agitazione in corso a poppa dell’Atlantic Stinger. “Devo ringraziarti per esser intervenuta in mia difesa.”

“Ve l’ho de-detto, signora” la sentì dire, seppure in maniera vaga. “Io sarò sempre serva vostra.”

Saffie avrebbe voluto veramente dare ascolto alla sua domestica, ma il suo sguardo attento e curioso si posò sugli Ufficiali riuniti appena al di sotto del ponte di comando e sul capitano Henry Inrving ma, soprattutto, sulla fila di persone incatenate davanti al parapetto della nave. In un secondo, ogni cosa divenne chiara.

Un’esecuzione.

“Capitano!” esclamò quindi senza riuscire a controllarsi, il tono già vibrante di preoccupazione. “Cosa significa tutto questo?”

La Duchessina si portò in due piccoli passetti vicino a un più che serio Inrving e cercò di non far troppo caso agli sguardi di scandalizzata sorpresa che si dipinsero sulle facce anonime dei restanti gentiluomini: la ragazza era ben cosciente di star calpestando un territorio ostile, dal quale solitamente ogni donna era bandita ma – come sempre – ciò non fu sufficiente a fermare né lei, né la curiosità testarda per cui era tanto famosa in Inghilterra.

“Tua madre ti ha avvertita più di una volta, se non erro: la tua lingua lunga non può portarci altro che fastidi.”

Henry si volse a guardarla con aria dispiaciuta e contrita, da genitore premuroso. “Vi chiedo perdono, signora Worthington” asserì, facendole un vago gesto di saluto con la testa. “Se questo nostro insignificante contrattempo ha ostacolato le vostre attività all’aperto.”

La Duchessina scosse la testa castana con vigore e lanciò un’occhiata atterrita sulle persone tenute in catene a neanche tre metri da loro. Un insieme di ossa ricoperte di pelle sporca e malata, di occhi scavati e senza alcuna luce, si mostrava a una Saffie dal cuore ghiacciato; la sua mente tornò indietro di tre giorni in un battito di ciglia e la ragazza vide di nuovo lo sguardo terribile di colui a cui aveva tolto la vita. Uno scheletro malnutrito, che si era cibato solo di ignoranza e povertà.

“Non è questo” commentò infine la ragazza, sudando freddo. Si sforzò di distogliere lo sguardo dai prigionieri ed aggiunse, prendendo in mano una manciata di autocontrollo: “Pensavo…pensavo l’Ammiraglio avesse deciso di garantire loro almeno l’arrivo a Kingston.”

“Voleva ucciderti. Ma tu non gliel’hai permesso.”

Saffie abbassò gli occhi sulla punta delle sue scarpette rosa, colpita da una vergogna che non riusciva a comprendere. “Perché sto dicendo queste cose?” pensò, piantandosi le unghie nei palmi delle mani. “Perché, proprio io, sto dicendo queste cose?!”

“È così, infatti.”

Sbalordita, la ragazza alzò di nuovo il capo su Inrving, guardandolo con stampata sul grazioso visino un’espressione da bambina perplessa. Trincerato dietro a un atteggiamento di indifferente professionalità, l’uomo la fissava di rimando e aggiunse, lasciandosi sfuggire però un sorrisetto piuttosto nervoso: “Credo di aver tirato un po’troppo la corda, perché ho seriamente rischiato di trovarmela stretta attorno al collo questa volta.”

“Signore, non capisco cosa questo…”

“Sono stato io a costringerlo, signora Saffie” la interruppe dolcemente il capitano, incrociando le mani dietro alla schiena. “Avrò giustizia per la morte dei miei uomini, pure se ho dovuto forzare al Generale Implacabile la mano.”

Le iridi castane della Duchessina si sgranarono, mentre comprendeva il significato delle parole di Henry Inrving. “Non l’ha ordinato lui” diede debolmente voce all’ovvio, a malapena conscia del gesto di assenso che l’attempato uomo fece a seguito della sua affermazione. Muta dalla sorpresa, si voltò indietro a guardare una Keeran Byrne che – in silenzio pure lei – pareva essere più preoccupata per la sua, di reazione.

Saffie si portò una mano sul petto, d’istinto.

Cos’è questa nuova sofferenza?

Dietro alla testa corvina dell’irlandese, un movimento attirò la sua attenzione. Saffie alzò gli occhi e incontrò subito quelli smeraldini di Arthur Worthington, impegnato a scendere le scalinate del ponte superiore con fredda calma; eppure, lei sentiva che l’uomo non doveva sentirsi per davvero in quel modo.

Sapeva che si stava nascondendo.

E, nell’istante in cui lo vide evadere il suo sguardo, non fu più in grado di tenere alcun suo senso di dignitoso orgoglio o distante cortesia. Superò Keeran e il capitano dell’Atlantic, portandosi davanti all’imboccatura delle scale con decisione, sbarrando il passo all’Ammiraglio Worthington. “Non siete obbligato a farlo” gli mormorò preoccupata, aggrappandosi con le dita al corrimano di legno.

“Spostatevi, moglie.”

Incassando quelle due misere parole glaciali, la Duchessina decise di non cedere terreno alcuno e piantò i piedi, trattenendosi dal piangere con sforzo disumano. “Potete decidere di concedere loro almeno la possibilità di un processo” continuò, odiandosi per il suo patetico tono tremante. “Perché sei tu l’Ammiraglio. Tu sei colui che comanda.”

Le iridi dell’uomo scattarono su di lei, limpide di furia tagliente. “Ho detto che dovete spostarvi, Duchessina” sillabò marmoreo, il viso livido di sudore freddo. “I miei complimenti: avete finalmente compreso che i miei ordini sono legge su questa nave. Quindi, ubbidisci e vattene.”

Non dirmelo. Non dirmi di lasciarti solo in questo inferno così simile al mio.

E fu altrettanto faticoso il tentativo di Worthington di ignorare la sofferenza dipinta sul grazioso visino ovale di Saffie che, tutto rosso, si abbassò fino a celarsi ai suoi occhi. Un silenzio opprimente calò fra loro e, in quell’infinito secondo, entrambi sentirono tutto il peso del loro legame crudele.

Non desidero che l’altra notte sia stata solo un’eccezione.

Ti prego, vai nei tuoi alloggi” le sussurrò alla fine l’ammiraglio con voce roca, tradendo la stanchezza che da giorni pareva divorarlo dentro e fuori. “Non devi vedere anche questo.”

Non voglio farti vedere un altro disgustoso lato di me.

Saffie si accorse di non star vivendo un’allucinazione uditiva, ma che il marito la stava pregando sul serio. Posò un’altra volta lo sguardo sul suo volto virile e fu colpita in pieno da un’esplosione di annichilente dolore: due profonde iridi verdi splendevano controluce, tanto tormentate e tristi da assomigliare a quelle di un Re in catene.

Cos’è questa nuova sofferenza che non riesco a comprendere?



§



Lo aveva sempre saputo che, prima o poi, sarebbe giunto il culmine.

Ne era a conoscenza e non aveva mai nutrito alcun tipo di dubbio in merito, perché ciò era accaduto ogni maledetta volta in cui la paura che abitava dentro al suo cuore era riuscita infine a prendere il controllo, lasciandolo solo un fascio inerme di muscoli e nervi tesi.

“Hai condannato la mia sorella adorata alla prigionia eterna e me alla morte” gli disse ancora Amandine nella sua testa, ed era come al solito un bianco cadavere dallo sguardo aberrante. “Vuoi negarlo, ma sei diventato esattamente come lui.”

“…vorrai solo crepare, marmocchio.”

Bruciava.

Il terrore bruciava nel suo torace dolorante, nei suoi polmoni alla disperata ricerca d’aria e nelle sue tempie pulsanti di sofferenza e vergogna. Era un fuoco ghiacciato e insopportabile che lo torturava ininterrottamente, provocandogli brividi violenti e terribili.

Solo nella sua camera immersa nella tenue oscurità della sera, Arthur si raggomitolò su sé stesso, nascondendo la chioma scura e ribelle fra le ginocchia tremanti. L’enorme senso di colpa riempiva tutta la stanza, come fosse un mostro crudele e insistente, che incombeva sulla sua figura inerme e rannicchiata: l’uomo sapeva di non dover alzare lo sguardo, altrimenti quella creatura l’avrebbe inghiottito. Ucciso.

“Va tutto bene” mormorò piano, a sé stesso. “Va tutto bene, lui non è qui. Non siamo uguali.”

“Ah, no?!” ironizzò aspramente Amandine, ridendo con una crudeltà che in vita non le era mai appartenuta. “Non ti basta più disseminare morte e disgrazia, ma ora cominci a desiderare di avere Saffie solo per te.”

Non ti ricorda qualcuno?

“Come se la tua vergognosa madre avesse avuto molta scelta, comunque.”

Il dolore dentro di lui divenne immenso, mortale. Insopportabile.

L’ammiraglio cercò di nascondersi nel buio che lo circondava, celarsi agli occhi di quel mondo che tanto si aspettava da lui e che egli aveva l’urgenza di conquistare, possedere. Sentì le sue spalle scuotersi con violenza, aggredite da altri brividi freddi, e come sempre l’uomo riversò un disprezzo impressionante su sé stesso: si vergognava e si odiava al contempo, per quello stato su cui non aveva alcun controllo.

Lo chiamavano Generale Implacabile, ma gli altri non vedevano le sue pesanti catene.

Quando la paura lo riduceva così, Arthur non si sentiva nemmeno un uomo degno di questo nome.

Ovviamente, aveva serrato gli occhi dietro alle palpebre, ma ciò non bastava mai a frenare i suoi confusi ricordi, i frammenti taglienti della sua coscienza corrotta: davanti alle iridi verdi, Worthington vide i corpi dei dieci prigionieri cadere di botto sotto al fuoco incrociato del plotone di esecuzione. Gli era bastato dire una sola parola e già un secondo dopo quei giovani criminali non erano più .

“Non siete obbligato a farlo.”

No, gliel’aveva detto…che lei non sapeva un bel niente.

“Forse, sarebbe stato meglio se fossi morto molto tempo fa” si disse a bassa voce, contro i palmi delle mani tremanti, chiuse sul suo viso.

Quasi si aspettava di sentire di nuovo Amandine commentare con un mielato e malvagio: “Oh! Dopo trentatré anni, l’hai infine compreso”, ma fu un’altra la voce che le sue orecchie udirono.

“Ammiraglio?”

Alla stessa stregua dell’esile tono che aveva pronunciato il suo onorifico, due piccole mani incerte si posarono leggere sulle sue spalle larghe e scosse dai brividi. “Devo…devo chiamare il dottor Rochester?”

Saffie.

Worthington poté quasi visivamente intravedere la sua disgustosa vergogna esplodere dentro di lui e ferirlo a morte, come se fosse stato un colpo di cannone sparato dritto contro di lui. Un vortice di pensieri si accavallarono nella sua testa in meno di un secondo e l’uomo non riuscì a districarne la matassa. Non mi deve vedere così. Non lei, non lei! Quando è entrata? Perché è entrata?!

Ora tornerà ad odiarmi, ad avere paura di me.

Stava per aprire le belle labbra sottili e dirle di andarsene al Diavolo, che le dita della ragazza risalirono lente e rassicuranti fin alla base del collo, andandosi a intrecciare con le ciocche ondulate dei suoi capelli castano scuro. “È tutto a posto. Va tutto bene, davvero” la udì mormorare, con una voce tanto dolce e comprensiva che l’uomo dubitò Saffie stesse rivolgendosi a lui. “Stai bruciando. Ora, se…se non ti arrabbi, andrò a chiamare il medico di bordo.”

Arthur riconobbe la sfumatura di nuovo incerta nel tono della piccola strega e si rese conto di doverla mandare via a tutti i costi, di doverla allontanare definitivamente, perché l’aveva scoperto. Eppure, nemmeno lui stesso si aspettava di vedersi agire nel modo in cui alla fine fece: non appena sentì i polpastrelli della moglie discostarsi dalla sua pelle sudata, l’uomo si raddrizzò di scatto con la schiena, il braccio teso a trattenere quello della ragazza, le sue lunghe dita strette attorno alla piccola mano di lei.

“Stai mentendo. Tu odi te stesso molto più di quanto detesti me.”

L’hai compreso per davvero?

“Non chiamare Benjamin” bisbigliò, a fatica. La sua visione divenne offuscata e tremolante, ma aspettò di vedere la Duchessina girarsi con il busto verso di lui, prima di attirarla a sé e continuare, con voce roca: “Resta, ti prego. Ancora un poco.”

Il cuore incastrato in gola, Saffie sgranò tanto d’occhi e seguì docilmente la presa del marito, che la avvicinò di nuovo al letto su cui si era messo a sedere. Le iridi scure della ragazza osservarono preoccupate Worthington portare un braccio attorno alla sua vita sottile e affondare la chioma scura sul suo petto, tremante come un bambino impaurito da un temporale.

Non disse più nulla, e lei sentì solo il suo respiro irregolare contro la pelle esposta della scollatura.

Incapace di trattenersi oltre, la Duchessina di Lynwood lasciò spazio alle sue lacrime traditrici perché, ancora, una sofferenza infinita si fece sentire in fondo al suo stomaco; strinse a sé il corpo imponente dell’uomo che aveva scelto come suo nemico naturale, come se potesse così lenire il suo stesso dolore. “Questo legame è crudele per davvero” si disse, socchiudendo gli occhi lucidi di un pianto annunciato.

“È stato grazie a te e ad Arthur, se me ne vado felice.”

Di cosa è costituita questa nuova sofferenza, che non riesco a comprendere?

Infine, un mezz’ora veloce passò nel silenzio più assoluto e Saffie comprese di non poter attendere oltre, ma che era essenziale mettersi in contatto al più presto con il medico di bordo. Arthur si era lasciato totalmente cadere fra le sue braccia e lei non pensava di riuscire a sostenerlo ancora tanto a lungo; inoltre, era oltremodo preoccupata per il suo stato di salute: la ragazza era sicura lui fosse in uno stato di semi-incoscienza dovuto alla febbre alta che gli stava consumando le forze, e pensò subito al taglio sul suo braccio, quello che si era procurato per proteggerla.

Abbassò lo sguardo e riuscì appena ad intravedere quelle che parevano essere delle bende insanguinate e nuove schegge di senso di colpa si insinuarono nel suo cuore furibondo e sofferente.

A causa di qualche intervento divino, una persona bussò forte contro la porta di legno, riempiendo Saffie di sollievo e gratitudine.

“Ammiraglio, sono il capitano Inrving” fece la voce seria di Henry, al di fuori della camera. “Vorrei conferire con voi in privato sullo stato in cui versa la Mad Veteran e sul nostro arrivo a Kingston.”

“Siate ringraziato, Capitano!” esclamò la ragazza, fissando l’uscio con le lacrime agli occhi. “Entrate!”

“Si-signora Worthington?”

Saffie non fece caso all’imbarazzo sorpreso di Inrving, ma anzi aggiunse subito: “Dovete aiutarmi a stendere sul letto l’Ammiraglio, vi prego! La ferita deve aver fatto infezione ed ora è febbricitante…e mandate immediatamente qualcuno ad avvertire il signor Rochester!”

Dal momento in cui il Capitano dell’Atlantic Stinger aveva eseguito le istruzioni della signora Worthington e si era precipitato vicino al letto per aiutarla, passarono esattamente cinque minuti e – incredibilmente – la figura allampanata di Benjamin fece la sua muta comparsa.

“Dottore!”

Saffie si volse a guardarlo agitata e colse in un attimo il suo sguardo limpido di rabbia. “Siate dannato, Arthur” sibilò volgarmente, serrando le labbra bianche e avanzando verso di loro a grandi passi. “Fatemi spazio, per cortesia” imperò con voce terrificante, aggiustandosi gli occhialetti sul naso adunco.

La Duchessina di Lynwood e il capitano Inrving si fecero da parte contemporaneamente, con un unico gesto nervoso. Di solito Benjamin era una persona abbastanza tranquilla e posata, dalla quieta educazione, ma entrambi compresero quanto in effetti il medico dovesse essere fuori di sé dalla rabbia.

Le mani aggraziate e pallide del signor Rochester si aggrapparono alle spalle dell’Ammiraglio Worthington, inchiodando la sua possente figura tremante al materasso. “Non vuole mai darmi ascolto” commentò acidamente, scrutando il volto mortalmente pallido di Arthur. “Da quando è in queste condizioni?”

“È importante?”

E il tono con cui il dottore decise di rispondere alla domanda del capitano tutto fece intendere del suo umore e della gravità della situazione: “È essenziale, signor Inrving; o, almeno, finché il nostro brillante Generale continua a portarsi fino al limite dell’autodistruzione.”

Un piccolo sussulto scosse Saffie che, con una stretta al cuore, unì le mani contro il petto e si sporse in avanti, cercando di affrontare l’ira del medico di bordo. “Penso si tratti solo di qualche ora” ipotizzò, la voce flebile di un passerotto impaurito. “Ho visto molte volte questo tipo di stati febbrili, signor Rochester: posso senz’altro darvi una mano, se doveste averne bisogno.”

Ancora, l’avvenente uomo non si volse verso di lei. “Ne avete viste molte, avete detto?”

“Mia sorella minore era una ragazza di salute cagionevole” spiegò in un mormorio basso, chinando il capo castano sul pavimento. “Amandine soffriva grandemente sia a livello fisico che psicologico.”

Benjamin si voltò nella sua direzione di scatto e alcune ciocche di fini capelli biondo cenere sfuggirono dal suo disordinato codino basso, mentre l’espressione dei suoi lineamenti delicati sembrò tradire una certa sorpresa. “Soffriva?”

“Sì” bisbigliò la ragazza castana, nascondendosi alla vista degli uomini intorno a lei. “È morta l’Autunno passato.”

Le mani di Rochester si chiusero subito a pugno, stropicciando il tessuto dell’elegante camicia di Arthur, e il dottore aprì la bocca per dire qualcosa, se una vocina non li portò tutti a voltarsi indietro: dentro una cornice di luce soffusa, stava la figura in piedi del piccolo Ben. “Papà, Douglas Jackson sta delirando di nuovo. Perde un sacco di sangue” disse in tono piatto e maturo, appoggiando una mano all’uscio della camera e fissando i tre adulti con i suoi occhi dall’incredibile color turchese. “Come sta l’Ammiraglio?”

“Maledizione” sbottò a sua volta l’interpellato, sbiancato pure lui in viso nell’arco di un battito di ciglia. Raddrizzò la lunga schiena e tornò a guardare Saffie, aggiungendo: “Avrò bisogno del vostro supporto, Duchessina di Lynwood.”

In un istante di pazzia, la ragazza realizzò due verità assolute: la prima stava nel fatto che il dottore non l’aveva mai chiamata in quella maniera e, la seconda, che gli occhi neri dell’uomo la fissavano come se avesse appena visto un fantasma.



§



L’oscurità era infinita e sorda. Sprofondava la camera da letto in uno stato di spettrale immobilità che a Saffie risultò fin troppo famigliare, poiché riusciva a udire solo il respiro irregolare e affaticato dell’Ammiraglio Worthington, sdraiato supino sopra le lenzuola candide.

Una pallida luna brillava alta nel cielo, facendo intendere alla ragazza che doveva essere ormai notte fonda. Una luce bianca, quasi argentata, penetrò le vetrate e carezzò con magica dolcezza il visino esausto della Duchessina, oltre che il corpo malato dell’uomo di fronte a lei.

Lasciandosi sfuggire un pesante sospiro, la signora Worthington immerse una pezza di stoffa nella bacinella di acqua ghiacciata che il signor Rochester aveva lasciato di fianco al letto sfatto e la sollevò dopo poco, stringendola con forza fra le mani. Cercò di ignorare i violenti tremiti che continuavano a scuotere un Arthur incosciente e si sporse su di lui, premendo con cautela il panno sulla sua fronte pallida e sudata.

Il medico di bordo aveva prestato i primi soccorsi all’Ammiraglio e se n’era poi andato di tutta fretta, chiuso in un silenzio piuttosto enigmatico. Si era trattenuto il giusto per poterle dire quanto fosse imperativo tenere sotto controllo la temperatura di suo marito, e che quindi Saffie avrebbe dovuto provvedere non solo a vegliarlo per tutte le ore successive ma – fra le altre cose – asciugare il suo sudore malato ogni qual volta lo ritenesse necessario.

“…perché mi sono scelta io questa morte, come una stupida accecata dall’amore”.

Una fitta di dolorosa malinconia si fece strada nel cuore della ragazza castana, che non poté fare a meno di ripensare ad Amandine; in fondo, si disse, aveva passato innumerevoli notti insonni per starle accanto e confortarla, ma occuparsi dell’insopportabile Arthur era tutto un altro paio di maniche: credeva di aver appena iniziato a lasciarsi indietro il disprezzo che per mesi aveva nutrito nei suoi confronti e non sapeva bene come doversi sentire, nell’accarezzare le tempie bollenti dell’uomo con la pezza bagnata, per poi scendere lentamente lungo la linea del suo collo saldo e forte.

Nell’oscurità opaca della camera, gli occhi luminosi di Saffie scivolarono sul volto sofferente di Worthington che, da quando era svenuto fra le sue braccia, non aveva più accennato a risvegliarsi. Un respiro spezzato, irregolare, sfuggiva a più riprese dalle sue belle labbra sottili, bianche come quelle di un cadavere.

“…o, almeno, finché il nostro brillante Generale continua a portarsi fino al limite dell’autodistruzione.”

“Mi hai salvato così tante volte” gli sussurrò, forte del fatto che lui non potesse udirla. “Ti prego, non abbandonarmi anche tu.”

Il percorso della sua piccola mano tremante si fermò sul petto dell’Ammiraglio, dove le allacciature della sua stropicciata camicia bianca ne segnavano il confine. Un rossore pudico imporporò le gote di Saffie, anche se la ragazza ben sapeva di dover accantonare qualsiasi imbarazzo e proseguire nel suo lavoro, asciugando il torace sudato dell’uomo.

So così poco di te, mentre vorrei comprendere tutto.

Incerte, le dita della ragazza tirarono uno a uno i lacci di seta e discostarono i lembi della camicia ormai aperta, rivelando al suo sguardo intimidito un petto muscoloso, temprato da una vita di fatica e battaglie mortali. Un corpo sfregiato da un’unica, enorme cicatrice.

“Muoia all’inferno, se ha dimenticato chi è l’uomo che l’ha cresciuto!”

L’orrore si impossessò del suo cuore, mentre i suoi occhi continuavano a riempirsi dell’immagine che a lungo era stata curiosa di poter vedere: un largo e candido taglio si faceva strada sulla pelle di Worthington, partendo dall’addome fino ad arrivare al suo torace ansante. Era una cicatrice tremenda, che attraversava l’uomo da parte a parte, e lei ricordò la sua prima notte di nozze, di come aveva sfiorato quel segno a malapena visibile e di come altrettanto velocemente Arthur le aveva impedito di andare oltre.

Ora, invece, la cicatrice era lì in tutta la sua aberrante interezza.

Vorrei sapere tutto di te.

Stretta attorno al panno, la mano di Saffie accarezzò il petto del marito, inseguendo la linea frastagliata e bianca del taglio di cui tanto quest’ultimo si vergognava.

Come è stata la tua infanzia?

La pezza bagnata proseguì fino agli addominali di Arthur, senza che la ragazza provasse più alcun imbarazzo.

Chi ti ha fatto questo?

Il suo piccolo indice sfiorò la pelle nuda dell’Ammiraglio. Gli occhi castani e assenti attirati – ipnotizzati – dalla grande cicatrice crudele.

Mi odi ancora?

Improvvisa e inaspettata, una mano grande e calda coprì la sua, stringendole le dita con rabbiosa forza. “Cosa ti è saltato in testa di fare?”

“Toglimi le mani di dosso.”

La Duchessina alzò lo sguardo di scatto, spaventata. Arthur aveva voltato la scarmigliata testa scura nella sua direzione e la osservava ad occhi socchiusi, esausto. “Non dovresti essere qui” le sibilò ancora, la voce arrochita dalla febbre. “Non tu.”

Uno sguardo triste si palesò sul viso ovale di Saffie che rispose, rilassando la mano nella stretta dell’uomo. “Non posso andarmene” soffiò, arrossendo nel buio. “Perché mi hai chiesto di restare insieme a te.”

“E, dimmi, è ciò che desideri?”

Cos’è questa nuova sofferenza, che non riesco a comprendere?

Saffie si poteva dire troppo basita per poter rispondere alle parole di un Arthur che, davvero, non sapeva se poter giudicare come delirante oppure no. Inoltre, per un secondo, il suo cuore aveva perso un battito e lei aveva capito che non sapeva cosa sarebbe stato più giusto dire.

Dopo un attimo di pesante silenzio, la voce profonda dell’Ammiraglio si fece sentire di nuovo. “Ieri notte sei rimasta, ma non significa che tu non abbia in realtà paura di me” disse a fatica, mollando bruscamente la presa sulla mano piccola della moglie. “Il tuo posto non è al mio fianco, Duchessina.”

Perché lo temiamo entrambi, questo inesistente e crudele legame.

Una morsa di dolore agguantò l’anima della ragazza castana che, dentro di sé, sentì di essere in gran parte d’accordo con il discorso dell’uomo: il loro rapporto somigliava ogni giorno di più al moto consistente dell’onda, che tanto si ritirava per tornare più violenta e grande. Distruttiva.

Un respingersi ed avvicinarsi pericoloso.

“Mi occuperò di te, Ammiraglio” asserì infine Saffie, adorabilmente irremovibile. Si sporse su Arthur e premette nuovamente la pezza sulla sua fronte, ignorando con un sorrisetto saccente la smorfia infastidita dell’uomo. “Vi sono molteplici matrimoni senza amore, ma dove il rispetto e l’amicizia fioriscono deliziosamente.”

Davvero, sciocca, puoi essere più bugiarda?

“Questa frase l’hai letta in una delle tue operette, ragazzina?”

Saffie arrossì per la milionesima volta nel giro di sei giorni. “Chiudi gli occhi e riposa, arrogante marito.”




Angolo dell’Autrice:

*Se vi è piaciuto il capitolo, spero considererete di votarlo/recensirlo/fammi sapere cosa ne pensate!*

Buonasera e Buon Anno nuovo a tutti!! :D

Come spiegato nella mia Bio, arrivo in ritardo sulla pubblicazione a causa di un mese che – sul fronte della salute – mi ha messo veramente KO. (-.-)

Io già di mio non sono famosa per avere una salute di ferro ma, ovviamente, la ciliegina sulla torta di malanni non poteva essere che il “poco” dilagante Omnicron! (T.T) Quindi, eccoci qui, in ritardo di una settimana sul piano d’azione “aggiorniamo Away with you con cadenza regolare”.

Ora, ripeto qui quello che già vi ho accennato a inizio capitolo: la settimana prossima pubblicherò il Decimo capitolo (e seconda parte di Conoscersi)! Olè!

Difatti, il nono stava diventando veramente troppo, troppo lungo: è vero che, di base, io ho un’allergia per i capitoli corti, ma troppe info tutte insieme penso creino pesantezza e confusione! Inoltre, ho pensato fosse giusto nei vostri confronti (e farvi così un piccolo regalo in ritardo) pubblicare un altro aggiornamento a poca distanza, così da poter “recuperare” il tempo perduto!

Perdonatemi il ritardo! (T.T)

Parlando un po’della storia, devo ammettere di star amando questa parte centrale, seppure siamo ancora lontani dalla sua conclusione. Una volta – nove lontani anni fa – mi è stato detto che sono piuttosto sadica nei confronti dei miei personaggi (che dire, amo il Drama), ma mi sono divertita molto anche a descrivere questo avvicinamento timoroso da parte dei nostri due: in fondo, cerco di ricordare che Arthur e Saffie sono umani, e non due sagome di cartone con un tratto caratteriale a testa.

Spero di non essere l’unica ad aver apprezzato questo capitolo! (T.T) Sob!

Infine, vi ringrazio tanto per la pazienza nell’aspettarmi e per stare dando una possibilità al mio racconto, perché io ci tengo tanto! E sono altrettanto onorata se riesco a trasmettere qualcosa, a farvi sognare, in questo periodo di buio, stress e fatica!

Alla prossima settimana!

Un abbraccio virtuale,

Sweet Pink



Due respiri divennero uno, e fu il solo suono che poterono udire. Come guidato da un incantesimo, Arthur abbassò il capo scuro su Saffie con una lentezza estenuante, timorosa, e il suo naso dritto sfiorò appena quello di lei.

(Dal Decimo capitolo. Conoscersi, seconda parte)

\(*w*)/

  
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