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Autore: JSGilmore    05/01/2022    1 recensioni
Rachele ha sedici anni e due fratelli, Elia e Filippo, che non potrebbero essere più diversi tra loro. Elia è avventuroso, indipendente, un viaggiatore con l'ossessione per il mare, e dopo la morte del padre gli hanno affibbiato il ruolo scomodo di capofamiglia, forse è per questo che ha sempre quel fastidioso atteggiamento paternalistico. Filippo, d'altro canto, è legato visceralmente alla terra ferma, alla sua casa, alla famiglia. Entrambi hanno una passione in comune: Rachele, la sorella, che di sorella sembra aver ben poco. Tutto comincia quando Elia torna a casa dopo tre anni passati in mare a girare il mondo in barca a vela, le cose a casa sono cambiate, Rachele è cresciuta e Filippo è diventato più possessivo nei suoi confronti...Quasi quanto lui.
Qual è il mistero che si cela dietro la loro famiglia? Di quali segreti Rachele sembra essere all'oscuro?
Un'avventura, un segreto, un mistero, un amore impossibile. Sullo sfondo una meravigliosa Isola d’Elba.
"E ricordati di non avere paura del vento, perché muove il mare e lo preserva dal diventare melma".
Escape vi aspetta in questa versione "inedita" con contenuti extra non presenti su Wattpad.
(Crediti: storia Liberamente ispirata a Georgie e Outer Banks)
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Incest | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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But now the day bleeds
Into nightfall
And you're not here
To get me thorough it all



Lo Yacht era così bianco che sembrava lavato in un bagno di candeggina; ad eccezione per le balaustre, fatte di ottimo legno.

I camerieri indossavano divise bianche inamidate e fruscianti, distribuivano cocktail alla frutta, di quelli che avevo visto solo nelle cartoline tropicali che ci aveva mandato Elia, e riservavano occhiate zuccherose alle donne sdraiate sui lettini.

L’odore della salsedine era coperto da quello dell’olio abbronzante, spalmato su tonnellate di carne umana bollente.

Sul ponte c’erano almeno una trentina di modelli di ciabatte infradito, una ventina di marche diverse di macchinette fotografiche, qualche faccia verde da mal di mare, più una dose di turismo frenetico che Elia non esitò a definire come fusione di servilismo e condiscendenza propagandata attraverso la forma più disgustosa di divertimento: la crociera.

Perché odiasse tante le crociere non lo avevo capito, presumevo che fosse per quell’esperienza a Dubai. O forse per semplice ideologia.

Uomini panciuti dalla carnagione smorta indossavano occhiali da sole a specchio e sul petto si inerpicavano peli ricci e rossi: sembrava che avessero la dermatite. Ammiravano le frotte di pesciolini luccicanti che si ammassavano sulla fiancata della nostra barca a vela, ancorata accanto allo Yacht. Elia era il più sudato e trasandato, un pesce fuor d’acqua.

L’inseguimento allo Yacht che batteva bandiera olandese era andato più o meno così: Elia che virava, Elia che con il suo spirito avventuroso e brillante raggiungeva la nave, Elia che con un fischio aveva richiamato l’intero equipaggio a bordo, poi il ragazzo biondo aveva ordinato di fermare la nave. Ci aveva accolti sul ponte e ora mi scrutava inquisitorio. «C’è qualcosa che desiderate?», disse con sincera curiosità.

Elia richiamò la sua attenzione con una risata fuori luogo, come un attacco di euforia, al che il ragazzo si fece venire qualche complesso. «Ti faccio ridere?»

«Ho insistito io per farvi inseguire», dissi, «Volevo complimentarmi personalmente per la nave. È magnifica.»

Un uomo oltre la mezz’età, che aveva tutta l’aria di essere un membro dello staff, se non addirittura il principale, si precipitò sul ponte. Aveva le vene varicose e un trapianto di capelli mal riuscito. «Edoardo, perché ci siamo fermati?», si voltò a guardarci, «Chi sono, questi due? Li conosci?»

La voce del ragazzo raggiunse picchi di liricità in grado di crearmi uno scompenso. «Siamo a Cavoli, papà, godiamoci questo bel mare», allargò le braccia e poi le lasciò cadere di colpo, «Non era ciò che volevi? Dì a Dorine di preparare un tavolo nella saletta, voglio far assaggiare il nostro caviale ai miei amici.»

Suo padre ci analizzò, gli occhi scossi dal vuoto sonoro che aveva accompagnato l’emissione della parola “amici”, e si ricordò che avevamo degli spettatori. Gesticolò ossequioso nella direzione dei passeggeri e con il massimo tatto li invitò a farsi un bagno corroborante, rassicurandoli che non c’era niente di cui preoccuparsi e che eravamo amici.

Edoardo, il ragazzo che per tutta la sera avevo ammirato da lontano al Garden Beach adesso era proprio qui, di fronte a me. Il corpo così chiaro, già scottato e spellato, era di una morbidezza tipica di certi frutti, e sembrava convalescente, appena uscito da una malattia, ma non era molle, era delicato e maschile. Nel suo volto si impose un sorriso intrattabile, forzato: le fattezze del viso che un attimo prima sembravano dipinte da un’artista di bambole russe si fecero d’un tratto ombrose. «Entriamo, venite dentro, qui fuori sotto al sole non si può più stare», si infilò una camicia ci fece segno di seguirlo all’interno.

La tovaglia era immacolata, al centro un vaso di fiori di porcellana, iris ed epilobi, le vetrate immense davano sul mare, chiazze di un blu profondo e verde smeraldo, un mare che abbagliava l’intera nave.

L’aria era di un azzurro che si poteva toccare con la mano.

Un set di posate d’argento. Tovaglioli di stoffa. Piatti di ceramica. Tutti elementi sufficienti a Elia per, in seguito, catalogarlo come ricco viziato del cazzo.

«Mi scuso per mio padre», disse Edoardo e spostò una sedia per farmi accomodare, «Ha un amore sconsiderato per gli ospiti che alloggiano sulla nave e delle volte con gli stranieri è scorbutico.» Si posizionò il tovagliolo sul grembo. «Fate spesso così? Inseguite spesso navi di lusso?»

Nessuno rispose. Il sole che entrava dalle vetrate era così forte che rendeva i colori acuminati. Elia era ancora in piedi, aveva un velo di sudore lucido sulla fronte un sorriso obliquo, il suo solito sorriso di posa, eloquente.

Edoardo cercava un modo per rompere il ghiaccio. «Se il mio italiano non è adeguato, correggetemi pure.»

Mio fratello prese posto. «Sarà fatto. Comunque, non ho visto scialuppe sul ponte, com'è?»

«Ci sono, ci sono. Ne abbiamo per tutti, ma non c'è da preoccuparsi. Questa nave è solida, l’ha costruita mio padre in persona. Resiste anche alle onde più grosse che le sbattono sul grugno, ma con i cavalloni cede anche lei. Le coppie lo adorano, pare non aspettino altro che stringersi e abbracciarsi, con la scusa che lo fanno per evitare di cascare.»

«Che chicca romantica», disse mio fratello.

Elia sembrava provare un terribile fastidio a livello spinale per quel ragazzo che, sempre in seguito, oltre a ricco viziato del cazzo, avrebbe definito sterilizzato fino al midollo. Ma al momento si lasciò persuadere dall’ottimo gusto che aveva per i vini: ci versò un bianco, un Cadillac.

Presi un pezzo di pane fresco e lo addentai. Non sembrava di stare su un pezzo di ferro che galleggiava sul mare. La barca di Elia non era così ferma. Quando mi era capitato di mangiare a bordo, la scodella della minestra scivolava da una parte all’altra del tavolo. Qui, fatta eccezione per una vaga sensazione di irrealtà mentre si camminava, tutto era stabile e stranamente rassicurante.

«Siete mai stati in crociera? Che ve ne pare?», il suo sguardo caramellato intercettò il mio e per un attimo dimenticai che per parlare era necessario respirare, così Elia mi anticipò.

«Il trionfo calvinista del capitale e dell’industria, ecco cosa sono le crociere. Ci ho lavorato per quasi un anno su una crociera per Dubai, extralusso, extra tutto», disse, «La cosa che ho odiato di più delle crociere è la finta cordialità a cui ti obbligano i boss.»

Una cameriera sulla mezz’età ci portò da mangiare: escargot, salmone affumicato dall’Alaska, omelette con quella che chiamarono salsa di tartufo etrusca, anatra, patate al forno e insalata con spicchi di arancia.

In Elia avevo sempre colto qualcosa di peculiare, qualcosa che in quel momento gli comparve chiara in faccia. Un’insofferenza che si avvicinava alla disperazione. Una disperazione misurata di cui ne possedeva tutta la coscienza e il peso. Una combinazione tra noia, desiderio di scappare e disprezzo, ma poteva anche essere soltanto noia.

Era intrattabile.

Edoardo sorrideva come se gli prudesse il naso. «Se lavori su una crociera, non te la godi affatto.»

Elia mangiava il salmone solo con la forchetta, senza neanche tagliarlo. «Sulla crociera in cui ho lavorato, un tizio in vacanza si è suicidato. Un ingegnere nucleare che si è gettato dalla prua. Sai qual è il problema? Da cliente, vieni sottoposto a una rassicurazione martellante sul fatto che ti stai divertendo, e questo ti fa venire una gran voglia di buttarti giù dalla nave.»

Edoardo rise, sebbene io ancora non trovassi la parte divertente del discorso. «Vero, sono d’accordo», mentre mangiava guardava fuori dalle vetrate, «Ho fatto tante crociere, mio padre è proprietario di un cantiere navale, ad Haarlem, perciò sono un privilegiato. Ma le odio. Soprattutto odio l’oceano. Non il mare. L’oceano. Abissi popolati da mostri terrificanti con terrificanti denti aguzzi che risalgono sulla superficie, pronti a sbranarti. E l’oceano stesso. Salato come l’inferno, come un collutorio scadente.»

«Mio fratello ha passato tre anni nell’oceano, è praticamente la sua casa ormai, vero, Elia?»

Edoardo rimase sospeso a guardarmi. «Tuo fratello?», poi rise; una risata allegra che Elia analizzò con una bizzarra assenza di tensione, «Scusatemi, è imbarazzante, lo ammetto, ma credevo che voi due foste… Foste, be’… Non fa niente. Che sciocco, scusatemi.»

Forse per stemperare la tensione o perché era solito comportarsi in modo incontenibilmente blasé, Edoardo fece decantare il vino nel calice, agitandolo con movimenti lenti e circolari. «E quindi sareste fratelli. Ve l’hanno già detto che non vi assomigliate affatto?»

«In continuazione», dissi brevemente.

«La conoscete San Piero?»

«Ci abitiamo», disse Elia.

«Alloggerò lì, le prossime notti.»

Elia non sorrideva più. Pareva facesse uno sforzo. Reprimeva una parte primitiva risvegliata all’improvviso. Uno sforzo così visibile che sembrava quasi stesse facendo un esercizio di meditazione. «Buono a sapersi.»

Edoardo parlò di Vienna e ci raccontò di un intero pomeriggio passato a contemplare l’Allegoria della Pittura di Vermeer, di quel tour estivo in Europa con i suoi amici che poi si era concluso in un soggiorno nel suo casale toscano immerso nel verde, annegato nel sole e nel giallo dei girasoli, e con una vigna, di quando una volta aveva rifiutato fumo autentico giamaicano da un autentico giamaicano.

Elia mangiava avidamente, strappava a morsi la carne tenerissima dell’anatra, le labbra umide di sugo, e un costante sorriso indulgente rivolto all’olandese. Arrivò il caviale e sia io che mio che mio fratello concordammo sul fatto che faceva schifo. Non so come, tornammo a parlare del mare, Edoardo ci raccontò del suo terrore oceanico.

«È qualcosa di misterioso, tutta quella densità oscura sospesa, penso di avere una sorta di terrore oceanico. Pensare a tutto quel vuoto che galleggia mi fa venire il male di esistere.»

Il vino bianco mi aveva fatta sprofondare in una parziale, sedata incoscienza: riuscivo a cogliere pochi elementi alla volta. Le spalle massicce e calanti di Edoardo. Le labbra graffianti e arcuate di Elia. «Però mi piace la riva, l’acqua limpida.»

«Vuoi dire quella brodaglia in cui fanno il bagno i poppanti», lo corresse Elia.

«Sì.»

Finii di mangiare, evitando che il tintinnio delle posate sul piatto attirasse su di me l’attenzione dei due ragazzi, che ora si stavano scrutando con un interesse meticoloso. Edoardo, etereo. Elia, sferzante e selvatico.

All’orizzonte, un gommone si muoveva verso lo Yacht subendo l’innalzarsi delle onde. Tre figure indistinte sbracciavano nella nostra direzione. Elia si alzò dal tavolo, fluido e scattante, ricambiò il saluto con dei fischi da skipper. Massimo agitava in aria le braccia, come se stesse ballando una sorta di danza del gabbiano. Poi riconobbi Filippo e Alice.

«Rally, torniamo alla base», disse Elia.

Edoardo rimaneva seduto a sorseggiare vino bianco, mi spiava dai suoi occhi color prato, sopra l’orlo gelido del bicchiere. La sua pelle profumava di miele, la respirai quando si alzò e mi salutò con dei baci sulle guance. «A presto, Rachele.»

Uscimmo dalla saletta, arrivammo sul ponte; Elia mi prese in braccio e mi scontrai contro il suo petto infuocato. «Reggiti forte a me, piccoletta.»

Ci tuffammo e lo stomaco mi risalì in gola. Chiusi gli occhi: nel buio inamovibile delle mie palpebre c’erano residui di luce arancione. Stavamo volando. Il torpore mi avvolse. L’acqua fredda mi bagnò, mi liberò da quel sole divorante, che mangiava tutto. Il mare riempì tutti i recessi del mio cuore. Spalancai gli occhi nel sale e vidi scie di schiuma bianca, le gambe di marmo di Elia, il costume a pantaloncino risalito fino all’inguine, per l’impatto con l’acqua, i suoi piedi che si agitavano nel blu profondo, il fondale roccioso, i pesci che nuotavano sinuosi. Sentii le sue mani sul mio corpo, sui miei fianchi, la sua pelle liscia, il suo petto ampio che si avvolgeva al mio, al riparo dalla realtà, i rumori erano improvvisamente cessati. Mi lasciò andare e risalii in superficie, i polmoni esausti. Respirai dall’altro lato del mondo e lui mi stava guardando oltre il vetro. Edoardo.

«Ehi, culi bagnati», disse Massimo sfilandosi gli occhiali da sole e mostrando un’espressione di voluttuosa comicità, «Che si dice?»

Salimmo sul gommone. Filippo mi arruffò i capelli e passò a me ed Elia dei teli. Alice era lucida di crema solare. Sulla fronte aveva una spruzzata di efelidi e il nasino a punta era cosparso di minuscole lentiggini; le sue guance, due cuscini di carne morbida, rendevano meno credibile la sua aria lugubre: aveva sempre un sorriso di riserva nascosto lì, in mezzo ai denti grandi.

Massimo ci invitò a sdraiarci e a prendere il sole. Elia raccontò ai nostri cugini e a Filippo l’avventura sullo Yacht.

«Elia si è comportato da maleducato», dissi.

«Ah, sì? Ieri sera serataccia con la tua ragazza?», commentò Massimo con aria abbattuta.

«Angelica? Non è la mia ragazza.»

Massimo scosse la testa, con saggia sfiducia. «Non tirare fuori la storia dell’amica adesso, ti prego, cugino. Se ieri la bimba ti ha invitato al Garden Beach significa che ci sta. Giusto, Filippo?»

Filippo si tirò su, sollevato sui gomiti, e gli assestò un’occhiataccia. «E io che ne so.»

Massimo si indignò. «Ma come sarebbe a dire che ne sai? Non eri tu quello che stamani a riva parlava con quella tipa dalle tette sovrabbondanti, o mi sbaglio?»

Le orecchie di Filippo presero fuoco.

«Massimo!», urlò Alice stizzita, «Sei il solito maschilista del cazzo.»

«Che c’è?», si difese Massimo e allargò le braccia con aria innocente, «Tette sovrabbondanti non è mica un giudizio estetico, soltanto una valutazione quantitativa.» Poi tornò giù, a farsi accecare dai raggi solari come il resto di noi. «Che magnifica estate, eh, ragazzi.»

Con un paio di occhi verdi caramellati incisi nella mente, non riuscii a fare a meno di pensare che quella fosse davvero una magnifica estate.


Note
Se state leggendo la storia, vi prego: lasciatemi una recensione! Mi farebbe tanto tanto piacere sapere se vi sta piacendo, oppure no!
Con tantissimo affetto,
JSGilmore.
   
 
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