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Autore: JSGilmore    28/01/2022    1 recensioni
Rachele ha sedici anni e due fratelli, Elia e Filippo, che non potrebbero essere più diversi tra loro. Elia è avventuroso, indipendente, un viaggiatore con l'ossessione per il mare, e dopo la morte del padre gli hanno affibbiato il ruolo scomodo di capofamiglia, forse è per questo che ha sempre quel fastidioso atteggiamento paternalistico. Filippo, d'altro canto, è legato visceralmente alla terra ferma, alla sua casa, alla famiglia. Entrambi hanno una passione in comune: Rachele, la sorella, che di sorella sembra aver ben poco. Tutto comincia quando Elia torna a casa dopo tre anni passati in mare a girare il mondo in barca a vela, le cose a casa sono cambiate, Rachele è cresciuta e Filippo è diventato più possessivo nei suoi confronti...Quasi quanto lui.
Qual è il mistero che si cela dietro la loro famiglia? Di quali segreti Rachele sembra essere all'oscuro?
Un'avventura, un segreto, un mistero, un amore impossibile. Sullo sfondo una meravigliosa Isola d’Elba.
"E ricordati di non avere paura del vento, perché muove il mare e lo preserva dal diventare melma".
Escape vi aspetta in questa versione "inedita" con contenuti extra non presenti su Wattpad.
(Crediti: storia Liberamente ispirata a Georgie e Outer Banks)
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Incest | Contesto: Contesto generale/vago
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Elia


Tre italiani e quattro olandesi erano seduti attorno a un tavolo, nel bel mezzo dell’elegante sala da pranzo di uno Yacht.

Aveva sentito una barzelletta iniziare proprio così.

Però quella non era una barzelletta e lui non stava affatto ridendo. Fumava l’ultima sigaretta, e cercava di godersela, per quanto riuscisse, perché una volta spento quel mozzicone non gli rimaneva altro che ascoltare cosa diceva quel ricco e viziato olandese del cazzo. Il colletto della camicia lo soffocava. La giacca di suo padre era troppo pesante per l’estate, era il caso di farsi cucire un nuovo smoking.

Il signor Ercolani teneva d’occhio sia lui che la sua sigaretta. Lì era vietato fumare, lo aveva ripreso persino un inserviente del terzo mondo che passava un’aspirapolvere ad alto tiraggio nei corridoi. «Quella no in luoghi chiusi, per cortesia, signore.»

«Finisco questa e smetto», aveva detto, ma poi ne aveva accesa un’altra. Vivere per anni dentro una cabina grande quanto un armadio gli aveva fatto dimenticare le regole basi del vivere in società. Spense la cicca nel posacenere, vicino al vaso di fiori di ceramica cinese, sorrise al signor Ercolani con quella che sperò fosse saccenteria e Rachele lo ammonì con un solo, breve, ineluttabile sguardo.

Era la prima volta da quando erano usciti di casa che lo guardava. Si era messa un tubino nero e un rossetto rosso ciliegia; un paio di scarpe da sera con il tacco, decorate con gli strass, le solite, quelle che non si toglieva mai: sembrava accettarsi solo con quelle; però aveva lo smalto mangiucchiato e corroso dalla salsedine.

Era troppo lontana da lui.

Rally vicino a un altro, vicino a un biondo e odioso straniero dagli abiti rosa mestruo, era un’immagine che lo faceva dissociare. Il suo stomaco era vuotissimo e disturbato. L’olandese parlava con Filippo e Rachele, e tagliava una bistecca. Era noioso e autocelebrativo. Diceva cose come: «il peschereccio più grande del mondo è olandese, sapete?», e nel mentre, guardava Rally con aria compiaciuta. Ogni tanto lei rispondeva con qualche risata d’incoraggiamento. Quell’olandese aveva bisogno di un bel bagno d’umiltà, e non era affatto dispiaciuto all’idea di annegarlo personalmente.

Si accese un’altra sigaretta e si abbandonò alla sedia. Ercolani era sul punto di riprenderlo, gli tremavano le labbra. Quell’uomo sembrava più incapace di suo figlio a incutere autorevolezza. I suoi capelli parevano essere stati appena attaccati da uno stormo inferocito di gabbiani. Strusciò i palmi sudati contro la lana dei pantaloni. Ogni boccata di fumo scandiva la dipartita della ragione. Mantenere la calma non era tra le sue virtù.

Edoardo raccontava di come quella volta aveva vinto la gara del tiro a piattello. Ebbe fantasie compulsive in cui lo prendeva a calci in testa fino a rendergli il cranio della stessa consistenza di un giornale bagnato. Era la persona più ottusa che avesse mai conosciuto, di quelli che non avevano la minima idea di cosa significasse campare, spaccarsi la schiena. E di coglioni, prima di lui, ne aveva incontrati parecchi. Rachele lo contemplava rapita, disse che lei non aveva mai nemmeno sentito parlare di certe attività come il tiro a piattello. E ti credo. Le sarebbe piaciuto andare a cavallo come quand’era più piccola, Edoardo le promise che ce l’avrebbe di sicuro portata semmai fosse passata dalle sue parti, un maneggio in olanda era gestito da amici di famiglia. Filippo mangiava le ostriche come reduce da mesi di digiuno.

Quella cena di lusso, lui non se la sarebbe mai potuta permettere, dato che era un poveraccio. L’olandese continuava a incensarsi. «Il segreto è prendersi cura dei clienti costantemente», disse. In effetti, Elia non faticava a credere che posizionasse cioccolatini freschi alla menta sulle federe pulite dei cuscini o giocasse a black jack con i passeggeri per tutto il giorno. Si spiegherebbe il fisico da mollaccione.

La madre dell’olandese, una donna austera e piacente, Florence, si pulì la bocca con il tovagliolo di stoffa e lo guardò preoccupata, con un remoto senso materno nella voce. «Lei non mangia niente?»

«Ho lo stomaco in subbuglio», rispose Elia. Poi accennò un sorriso vago, per timore di esser stato troppo perentorio.

L’argomento di conversazione, fino a poco prima, erano stati gli attacchi di mal di mare e, dato che quella sera il mare era mosso, tutti avevano una faccia verde rospo, con una vaga sfumatura spettrale. E l’abito da sera rendeva quei volti ancor più cadaverici. Discutere di nausea e vomito mentre si mangiavano sofisticatissimi piatti da gourmet non aveva dato fastidio a nessuno, anzi erano parsi tutti sollevati di condividere quella sofferenza comune. Forse era una cosa da ricchi che lui non poteva capire.

Florence, dalle sopracciglia alte e candide gli stava facendo gli occhi da cerbiatta. «Può essere un semplice mal di mare. Le passerà, sono sicura.»

Una sentenza che aveva del comico. Lui non soffriva affatto di mal di mare: un’immunità evidente, profonda e involontaria, forse perfino miracolosa, visto che lontano dall’oceano non ci poteva proprio vivere. Una vocazione che aveva senz’altro ereditato da quel vecchio bastardo di suo padre. Florence, a guardarla meglio, era una figura di eleganza magica e duratura, meritava una cartolina tutta per lei, se solo l’avesse conosciuta prima di partire. Si sforzò di sembrare benevolo. «Temo che sia colpa del sole che incoccia, fa passare la fame e fa venire voglia di bere.»

Si versò del vino rosso. Sentì mormorare qualcuno di essere molto contento di aver scoperto un posto «così remoto» come l’Elba. Era l’ammiraglio Archibald Janssen, un uomo stempiato che portava un fazzoletto nel taschino e un panciotto beige per sostenere l’addome pronunciato. La sua faccia era appesa come il culo di un gatto.

Elia si accese un’altra sigaretta, sebbene si fosse ripromesso di non farlo e la posizionò sul molle labbro inferiore. Il fumo gli inondò le narici, gli pizzicò la gola e gli ossigenò il cervello. «Mi dica, Ammiraglio», disse Elia versandogli del vino, «Anche a lei alcune spiagge qui le ricordano i Caraibi?»

Ci volle un po’ prima che Janssen capisse che la domanda era stata posta proprio a lui. «I Caraibi, dice?! Non ci ho mai messo piede. Gli americani sono troppo volgari per i miei gusti», aveva una voce servile e acuta, «volgari, rumorosi, ingordi e autoindulgenti. Lei invece ci è mai stato, signor…?»

«Ferrazza», Elia sorrise e alzò il calice nella direzione di Janssen, «Ci sono stato sì.»

Ora aveva la sua attenzione, gli occhietti acquosi che lo scrutavano con perizia e con inequivocabile meraviglia. «E mi dica, come le descriverebbe le Isole? Dove ha alloggiato?»

«Descriverle è impossibile, ciò che mi viene in mente è che tutto sembrava avesse a che fare con una ricercatezza artificiale, tutto sembrava in effetti costoso», risero, soprattutto la signora Ercolani, «Ho alloggiato sulla mia barca.» Florence era colpita. Lo guardava con quegli occhi smeraldo intenso, che risaltavano su quell’abito indaco. «Lei ha l’aria di un uomo che ha viaggiato molto. Sembra saperne molto sul mare. Non è così, signor Ferrazza?»

Nessuno l’aveva mai definito uomo prima d’allora e neanche ci si era mai sentito, però scoprì che non gli dispiaceva affatto essere definito tale; quell’appellativo lo ringalluzzì a tal punto da versarsi altro vino, che aveva un sapore fruttato e corposo, si scioglieva sul palato. «Sì, ho viaggiato molto. O per lo meno, abbastanza da imparare che ci sono intensità di blu oltre il blu più trasparente che si possa immaginare…»

Janssen ripulì la patina di grasso dai suoi occhiali privi di montatura. «Continui pure, la ascolto.»

In realtà aveva finito, ma ciò che gli aveva appena offerto il signor Janssen era irresistibile. Intercettò lo sguardo di Rachele e sentì uscire la propria voce dal profondo, senza difficoltà. «Viaggiare in mare è un’occasione imperdibile per capire che l’oceano non è uno solo, che il mare cambia. Le onde dell’Atlantico che si gonfiano al largo della costa orientale degli Stati Uniti sono opache, senza luce, anonime. Intorno alla Giamaica, invece, il mare è di un azzurro lattiginoso e trasparente. Al largo delle isole Cayman è blu elettrico e a largo di Cozumel è quasi viola. Una volta in quelle acque ho abbracciato un’iguana. Lo stesso è per le spiagge. Si può dire a occhio nudo che la sabbia della Florida del Sud viene dalle rocce, perché fa un male cane sotto ai piedi e ha quella specie di luccichio minerale... Ma quella di Ocho Rios assomiglia più allo zucchero raffinato, e in alcuni posti lungo la costa della Grand Cayman la sabbia sembra addirittura farina, così vaporosa e irreale…»

Ora Rachele gli puntava gli occhi addosso, due carboni neri e ardenti, due ossidiane immense. Janssen, a differenza di tutti gli altri, non si era fatto incantare dai suoi discorsi. «Niente che non si potrebbe apprendere su un documentario ben fatto. E dopo cos’è che vorrebbe fare? Come vorrebbe impiegare il resto della sua vita, escluse le iguane?»

Si era sempre pensato immerso nelle possibilità: avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. Viaggiare per il mondo non era una di quelle cose carismatiche e sensazionali da poter inserire in un curriculum? «Mi piacerebbe trovare lavoro al porto, magari proprio l’impiego del mio vecchio. Scarica barili», gli cresceva dentro una sorta di orgoglio perverso nell’osservare le facce scioccate che lo ascoltavano con una certa repulsione, «Ma chi può saperlo: la vita è sempre piena di sorprese. Non sai mai dove ti porterà il giorno dopo, o quello dopo ancora, soprattutto a uno come me.»

Il signor Ercolani era un po’ pallido. «La può spegnere per favore, quella sigaretta?»

Elia ubbidì. Rally non gli parlava, ma sapeva benissimo ciò che pensava. Sei proprio allergico alle regole Elia, gli aveva detto una volta. Florence strinse la mano di suo marito e sorrise. «Ci racconta qualche altro piccolo aneddoto sui suoi viaggi? Sono davvero molto affascinata dalla sua temerarietà, signor Ferrazza.»

Era incerto. Filippo gli lanciava sguardi di allarme, come se quella fosse in realtà una trappola, ma non poteva disattendere la richiesta di Florence proprio adesso. «Sono stato su un sottomarino, una volta. Per vedere la barriera corallina. Quelli del posto mi hanno raccontato di una leggenda locale. C’era una credenza vittoriana riguardo il mare, secondo la quale l’acqua diventerebbe più densa a maggiori strati di profondità; a causa di strati d’acqua via via più viscosi alcuni oggetti non potrebbero scendere sotto un certo livello», ogni volta che lui parlava dei suoi viaggi Rally aveva un’espressione malinconica e sofferente, «Una nave, affondando, può rimanere sospesa senza mai atterrare sul fondale. Un morto scende a una profondità che dipende dal suo girovita, dal peso dei suoi vestiti e, secondo alcuni, dalla densità dei peccati accumulati e di cui non si è pentito. Così, il mare diventa una sorta di purgatorio terrestre, in cui i più cattivi colano a picco e i più moralmente ambigui vanno alla deriva per l’eternità.»

«Lei ha davvero una cultura ammirevole», disse Florence. Il signor Ercolani non pareva essere dello stesso avviso; una radicata forma di superiorità lo obbligava a rimanere rigido e a giocare con le posate. Si scambiò sguardi cupi con l’ammiraglio. «Sai cosa penso, Archibald? Il ragazzo, qui, avrebbe proprio bisogno di un’istruzione», si rivolse a Elia, «Diventare un progettista di navi le permetterebbe di viaggiare per il mondo ancora più in grande. Ci ha mai pensato?»

«La mia testa non è abbastanza quadrata per studiare», disse Elia, «Per viaggiare, comunque, non servono chissà che qualifiche. Basta avere i polmoni e un paio di braccia.»

«Un po’ di quattrini aiutano sempre», intervenne l’olandese, «Alla fine sono i soldi, a conferire realtà al mondo.»

Quando quello parlava, avvertiva il bisogno atroce di toccare qualcosa e si sfregò la fronte, scoprendo poi che era molto bagnata. «Scambiare porzioni del proprio tempo, che per altro in questa terra è estremamente limitato, per una stupida invenzione umana come i soldi. Bah. Una vita dettata dal denaro non fa per me.»

L’ammiraglio era alquanto divertito. «Signor Ferrazza, lavorare è necessario per vivere, non trova?»

Non sapeva più cosa farsene delle mani, così estrasse dalla tasca l’accendino d’argento e le impegnò facendolo scattare convulsamente. «È tempo che nessuno ci restituirà, signor Janssen. Voglio dire, il tempo è reale.»

Janssen scrutava impassibile il flebile riverbero del fuoco.

«Anche i soldi sono reali», e questa volta fu Rachele a parlare. Quel viso. Gli occhi scuri, energici e vispi. La bocca era un bocciolo di rosa brillante e carnoso. Le sopracciglia delineate le davano sempre quell’aria concentrata, intelligente. Era impossibile interpretare correttamente le sue espressioni.

«Il tempo di più», ribatté Elia, «Il tempo è un fenomeno fisico, quasi… filosofico. I soldi sono soltanto una costruzione sociale. Secondo me è meglio vivere che avere soldi.»

«Al lavoro sei comunque vivo», obiettò l’olandese.

Elia scosse la testa e soffocò una risata sprezzante. «Vivere davvero significa essere liberi, significa scegliere da soli cosa farne del proprio tempo, il denaro non è altro che la manifestazione di un mondo rigido e servile.»

«Davvero?», Rachele era visibilmente risentita per qualcosa che lui ancora non capiva, «Anche la facoltà di scegliere è una costruzione sociale, se pensi il contrario quello in gabbia sei tu. La realtà non è mai svincolata dalle contingenze, no? Ciò che fa sul serio la differenza è trovare qualcosa di vero in quello che si fa, a prescindere da cosa sia. E poi, essere libero significa anche vivere secondo le regole. Vivere, invece, senza regole significa soltanto essere libertino.»

Janssen era come turbato e soddisfatto assieme. «Sua sorella gliele ha appena cantate. Che maturità, per una ragazza di soli quindici anni. O mi sbaglio, signor Ferrazza? Ascolti i consigli di sua sorella e ci dica: ce l’ha qualcosa di vero da raccontare, a parte le storielle?»

Qualcosa di vero da raccontare. Di vero. Lui di vero conservava ben poco. Una copia malconcia di In Patagonia di Bruce Chatwin che prendeva polvere sulla libreria della sua camera. Una volta in Giamaica un suo amico di bevute canadese l’aveva definito “belloccio e spaccone”: il problema era che qualsiasi cosa dicesse o facesse, la gente pensava che la dicesse o facesse per tirarsela. Che non c’era niente di autentico in lui nemmeno a pagarlo.

Alle volte si comportava in maniera spavalda e sconsiderata. Stupida. E non era poi così scorretto che per lui viaggiare aveva da sempre presentato innegabili attrattive: donne vere, non quelle ragazze cattoliche che andavano in vacanza in toscana, alcool, sesso a fiumi, alcool.

Aveva letto Kerouac troppe volte.

Era sempre stato pronto all’eventualità che il resto del mondo potesse farsi un’idea sbagliata su di lui e sui suoi viaggi. Ma c’era di più: il mare possedeva qualcosa di indubbiamente vero che lo attirava.

Era la sensazione sotto le scarpe quando camminava su quella specie di pavimento tridimensionale: rimanere in piedi sulla barca non era automatico come nella cara vecchia planare statica terraferma; tutto ciò che a terra dava per scontato, come rimanere in equilibrio, in mare non lo era più. Doveva riattivare meccanismi sepolti del suo sistema nervoso centrale.

Era il sordo e remoto rombo dei motori della nave, che gli scorreva in una vibrazione alla spina dorsale, così viva e rassicurante. Era il mare grosso, che faceva paura ma era un toccasana per le notti insonni: lo cullava, con quella spuma delle onde così simile alla schiuma da barba, che cantava la sua ninna nanna preferita, con il rumore dei motori che era un battito del cuore.

Il mare era come una mamma, però senza farti venire i sensi di colpa.

Pensò ai discorsi con suo padre, che gliene aveva sparate di storie sui mari. Nei suoi ricordi, suo padre era un folle senza controllo, delirante, un ladro di relitti a briglia sciolta. Raccontava sempre la stessa leggenda, nell’ultimo periodo, quella di una nave a vele nere carica di tesori, e si era convinto di poterla riportare alla luce. Trecentocinquanta milioni di euro. Per la ricerca di quelle coordinate ci aveva buttato la vita. A differenza di tutti gli altri, Elia lo aveva capito: non era un fatto di soldi. Per questo non aveva mai accettato la sua scomparsa. Anche suo padre, proprio come lui, era un miserabile sognatore.

*

Tre anni e venti giorni prima. Quel momento non l’avrebbe mai scordato. Costeggiò la facciata di pietra e mattoni, divorata dall’edera incolta, le finestre di legno inchiodate. Svoltò l’angolo, aprì il cancelletto di ferro e Rally era sulle scale di casa, la faccia nelle ginocchia sbucciate, rosse, di pesca e le gambe bianche come se non avessero mai preso della sana abbronzatura. Nel profilo di quei capelli neri c’era il riflesso del sole, che declinava nel cielo violetto, azzurro e arancione.

Anche senza più rivolgergli la parola da lì fino all’alba, Elia lo sapeva che lei ce l’aveva con lui, gli era chiaro quanto il motivo più urgente per cui doveva lasciare l’Elba. Gli si era appena materializzato di fronte, così reale e sfiancante: lei non era biologicamente sua sorella e lui ne era innamorato da stare male.

Se soltanto Rachele glielo avesse chiesto, lui sarebbe rimasto per lei. Una verità così atroce da risultare ingestibile. Non poteva permettere che ciò accadesse, perché lui non poteva restare. Doveva ignorarla. Che piangesse pure, tanto gli sarebbe passata in fretta. Una chiacchiera con Filippo e tornava come nuova. Niente più occhi gonfi e singhiozzi profondi. Quel pianto gli dilaniava il petto. Non poteva vederla piangere così.

«Rachele…», disse e a pronunciare quel nome il fiato gli si era accorciato, «Sei ridotta un po’ male, che ti succede?»

Lei alzò lo sguardo e lui fece in modo di evitarlo, si mise seduto accanto a lei sulle scale. Rachele gli si buttò addosso e lui si sentì pienamente consapevole del calore, della fragilità, dell’intensità di quel doloroso abbraccio. Lei piangeva tanto da non riuscire a parlare, ma il senso lui era riuscito a coglierlo lo stesso, e sperò che lei non lo articolasse a parole. Si maledisse per non aver continuato a salire le scale fino al portone, ignorandola.

«Rachele…», se la staccò di dosso con delicatezza e tatto, con distanza, perché se continuava a stringerla in quel modo, se continuava ad accarezzare e annusare il profumo dei suoi capelli rischiava seriamente di arrivare all’irreparabile, rischiava di non trovarlo più il coraggio di partire. Allontanarla da lui mentre si disperava fu terribile, quasi mostruoso, come se gli avessero staccato la pelle. «Non c’è bisogno di piangere in questo modo, non vado mica via per sempre.»

Anche sua madre aveva tentato innumerevoli volte di dissuaderlo dal partire, ma poi piangeva sconsolata, straziata, tutti i giorni: chi lo conosceva bene si era rassegnato da tempo all’idea che fosse cocciuto come un mulo. Ma con Rally era diverso. Il suo dolore lo sentiva come se fosse suo, anzi era peggio, perché quel dolore non poteva archiviarlo e basta, come invece riusciva a fare ogni giorno con il suo. «Capito, Rally? Non è per sempre.»

Lei si asciugò gli occhi con le nocche. «So che lo zio quest’estate voleva che lo aiutassi con la disinfestazione degli scarafaggi», disse e nella sua voce colse delusione, una delusione che lui non avrebbe mai voluto udire.

«Sono sicuro che mi imbatterò in progetti altrettanto lodevoli», disse Elia e cercò di figurarseli nella testa: per quanto si sforzasse non trovava un’immagine più emblematica di un sé stesso che fumava come un turco, sotto un ventilatore in un paese tropicale, beveva whisky e si scattava istantanee con la sua polaroid. Nonostante le smorfie, di solito riusciva a cogliersi in pose così naturali, pittoresche e fighe. Aveva un futuro come fotografo.

Rally poggiò un palmo sul suo ginocchio, come per chiedergli di rimanere lì seduto per sempre. «Perché te ne vai?»

Lui voleva andare alla ricerca di qualcosa di grande, sebbene ancora non sapesse cosa fosse questo qualcosa di grande. «La verità?»

«Sì, certo. La verità.»

«Qui mi sto annoiando.»

I suoi occhi neri e dolci brillarono di lacrime. «Posso venire con te? Anch’io mi annoio, mi annoio davvero a morte.»

Elia si sforzò di ridere. «No, hai scuola.»

Rachele prese a guardarlo con strazio. «Be’ allora… Mi scriverai? Mi telefonerai?»

«In mezzo al mare prende poco.»

Lui e il suo solito sarcasmo inefficace. Lei alzò gli occhi un po’ incredula e schiuse le labbra; era stato cattivo con lei, ma in un certo senso l’aveva fatto anche per il suo bene; le sue guance erano avvampate di calore. Rally stava per dire qualcosa, una protesta magari, ma quelle labbra rosee erano immobili.

Rachele stava cercando di ucciderlo.

Aveva deciso di ucciderlo lì, su quelle scale, poco prima di cena. Altrimenti, per quale ragione lei avrebbe dovuto guardarlo in quel modo? Per quale ragione le sue guance prendevano fuoco, e le sue labbra si schiudevano se, per sbaglio, lui iniziava a sfiorarle il viso? Lui le sfiorò il viso ancora e ancora, e si convisse che fosse accaduto un’altra volta per sbaglio, perché le sue dita ormai non le controllava più. Era l’amore fraterno ad averla ridotta in quel modo? A spezzarle i respiri, a renderle quegli occhi così sofferenti? Elia non lo sapeva, non sapeva cosa fosse giusto credere, e doveva smettere di chiederselo. Rally aveva soltanto tredici anni e sarebbe stato a dir poco traumatico per lei venire a sapere di tutta quanta la sua storia. Lei lo credeva suo fratello. Era giusto continuare a mentirle, continuare a illuderla, sapendo che comunque, presto o tardi, avrebbe dovuto sapere la verità? Lui sapeva solo che, dentro di lui, non scorreva proprio niente di fraterno e non poteva continuare a ignorare qualcosa che ormai era diventato un dato di fatto…

Non se lo chiese nemmeno, se era in grado di lasciarla andare, forse no, ma in quel momento non gli importava. Doveva farlo e basta. Doveva farlo come una missione. A costo di morire dal dolore, a costo di diventare pazzo, di sprofondare nel baratro della follia.

Perché l’alternativa sarebbe baciarla adesso. Proprio lì, difronte casa, con la mamma e Filippo che li spiavano dalla finestra. Baciarla e baciarle le lacrime. Come avrebbe reagito? Si sarebbe fatta baciare? Ma come diavolo faceva adesso a non accorgersi che lui le stava sfiorando il labbro, che in quel tocco non c’era assolutamente niente di fraterno, che i suoi respiri lo chiamavano, lo incitavano, lo facevano precipitare, gli spalancavano le porte dell’inferno? Se solo avesse potuto averla…

In un intimo momento di confidenze, Filippo gli aveva detto: «Non sei costretto, Elia. Troveremo una soluzione»

E se la soluzione fosse stata baciarla? Rachele era così vicina a lui, talmente vicina che gli sarebbe bastato pochissimo per scoprire che sapore avevano quelle labbra, che sapore aveva un sogno irrealizzabile; Rachele era così vicina che sembrava come non aspettare altro che le loro labbra si congiungessero.

Per quanto irresistibile, però, lui non poteva. Lei aveva tredici anni, se la meritava una famiglia, se lo meritava un fratello come Elia, bello, forte e pronto a tutto per lei; un fratello come Filippo, buono, dolce e accogliente, e una mamma, che seppur scostante, le voleva bene. Un giorno, l’avrebbe baciata, l’avrebbe messa difronte al fatto compiuto per poi stare a vedere cosa succedeva. L’avrebbe fatto come faceva quasi ogni cosa: senza pensarci. Ma quel giorno non era ancora arrivato.

«Ragazzi», disse Filippo sull’uscio della porta, «La mamma mi ha mandato a chiamarvi, dice che è pronto.»

Dal tetto pioveva la cruda e fredda luce di un giorno che stava finendo. Elia trovava la voce di suo fratello calma, pacata, come una sorta di sfida. Per un momento, lo invidiò. Gli invidiò la serenità che gli permetteva di rimanere accanto a Rachele, il buon senso in ogni circostanza, («Non sei costretto, Elia. Troveremo una soluzione»), mentre lui invece collezionava un errore dietro l’altro e non faceva mai niente di giusto.

Rachele si alzò dai gradini, gli scivolò dalle mani in un attimo, e lui la seguì; entrarono e lei andò in cucina, a prendere la tovaglia di stoffa, quella riservata alle occasioni speciali. Sua madre non lo guardava nemmeno in faccia, era avvolta dal vapore delle pentole sui fornelli. Filippo fissava il tavolo sgombro nel bel mezzo del salotto e in quegli occhi azzurri Elia colse un avvilimento nascosto, una disperazione che moriva nella riservatezza.

Dentro Filippo c’era qualcosa, un’essenza, non sapeva bene cosa fosse, però gli sembrò che avesse a che fare con la bellezza e la bontà.

Suo fratello si stava facendo uomo, proprio come lui. Pensò che tra di loro c’era un’intesa, una stima e un rispetto che si era solidificato pian piano, crescendo. Forse, Filippo aveva capito. («Non sei costretto, Elia. Troveremo una soluzione.»), ma era troppo onesto per farglielo sapere o per farglielo pesare.

Filippo disse: «Non c’è nessun modo per farti cambiare idea, immagino.»

Elia aveva lo stomaco e il cuore annodati. «Non c’è. Prenditi cura di lei anche per me, mentre sarò via.»

«Lo farò, puoi scommetterci se lo farò, ma lei avrà sempre bisogno anche di te. Ha bisogno di entrambi, lo sai questo, almeno?»

Quella notte non riuscì a prendere sonno, si rigirò nel letto in continuazione e poi decise che avrebbe smesso anche di provare a dormire. Uscì fuori nel buio, nell’oscurità implacabile, sotto il vuoto nero e schiacciante dell’universo. La luce opalescente della luna era in transito oltre le tenebre, e lasciava intravedere le sagome afflitte degli alberi, nell’aria c’era l’odore di solitudine e di sigarette.

Non faceva altro che pensare a quella labbra brucianti sulle scale e nei ricordi realizzò che se solo lui avesse seguito l’istinto… era assurdo, sbagliato e malato persino pensarlo…se soltanto si fosse fatto trasportare dal desiderio, forse lei si sarebbe fatta baciare. Davanti casa. Da suo fratello. Questo pensiero lo annientò, lo stordì e rinunciò definitivamente a dormire.

Pensava solo a lei, e a quanto male poteva fare a quella ragazza se solo si fosse fatto prendere dai sentimenti che provava. Il lento arrivo del mattino fu accompagnato da un silenzio terribile, come un’alba prima della battaglia. Un paio d’ore e tra loro due ci avrebbe messo gli oceani interi. Non ci provò più a immaginare quanto doloroso sarebbe stato. Si augurò soltanto che fosse abbastanza.

*

La sua storia vera era Rachele, era sempre stata lei, solo che non avrebbe mai potuta raccontarla così apertamente, no? Afferrò una tartina e si guardò Janssen. «Sono partito per amore. Per amore dell’avventura, della vita libera, per fare affidamento sui muscoli e nient’altro, e poi sono partito per fuggire da una ragazza», Rally lo guardava interdetta, l’olandese con l’espressione da pesce lesso e Filippo si stava per strozzare con le ossa del pollo, «Quello che ho imparato? Mi ci è voluto un po’ però poi ho capito: per quanti mari tu possa attraversare… Nel petto ti batterà sempre lo stesso cuore.»

Ed era proprio quel cuore ora a battergli all’impazzata, mentre la guardava e diventava sordo. In sottofondo, la melodia di un valzer, forse di Strauss.

Non solo era cresciuta, ma la sua bellezza era diventata consapevole e ricercata.

La sua Rally.

Per un po’ era stata come una sorella, ovvero una rottura di scatole; sempre alla ricerca di attenzioni e praticamente invisibile ai suoi occhi di adolescente composto al cento per cento da testosterone. Poi quella faccia, prima compatta, carnosa e grassottella sul mento, con il muso lungo quando qualcosa non andava secondo i piani, senza preavviso si era fatta smilza e decisa.

C’era qualcosa di tenace nel suo viso, e vederlo ogni giorno lo aveva abituato a coglierne le sfumature. Ma la loro vicinanza come fratelli l’aveva resa irraggiungibile. Qualcosa non era andato quella volta in cui lei lo aveva preso in giro per il calzino bucato sull’alluce e lui si era scoperto imbarazzato da morire; da quel momento il suo armadio era stipato di calzini.

La luce calò e lui avrebbe voluto soltanto prenderla e farla ballare, custodirla sul suo petto come una perla dentro uno scrigno. Janssen gli diede una piccola pacca sulla schiena. «Ah, l’amore, è una buona ragione per tutto.» Il signor Ercolani sfiorò il coltello, e per un momento Elia credette che avesse intenzione di sgozzarlo. Si voltò verso suo figlio. «Vi rubo questo giovane ragazzo romantico per una partita di poker, che ne dite voi altri di onorare le tradizioni e aprire le danze? Florence, insegna a Filippo qualche passo, noi uomini adesso abbiamo da fare…»


Note.
Primo punto di vista di Elia, che ne dite, vi piace? è abbastanza intenso e arrogante?
Ovviamente, la scena non è finita qui, ma il resto ce lo racconterà la nostra Rachele... Presto.
Vi ringrazio per aver letto, ci vediamo presto con un un nuovo capitolo.
Con tantissimo affetto,
JSGilmore.
   
 
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