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Autore: Ciarax    01/02/2022    0 recensioni
La chirurgia è il miracolo della medicina, aprire un corpo, ripararlo dall'interno, salvare delle vite. I chirurgi hanno un detto "Ogni emorragia deve fermarsi", una sorta di "anche questo, passerà"; come ogni crisi che prima o poi arriverà ad una fine.
Il paziente vive, o muore. In un modo o nell'altro, l'emorragia finirà.
È il punto di partenza, l'arena, il bivio dove si deve compiere una scelta... un passo falso ed è finita. Non esistono mezze misure.
La vita non è poi tanto diversa.
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Greg House, James Wilson, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Più stagioni, Contesto generale/vago
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PROLOGO
 
Hang on
To nothing, to nothing, I won't
Let go
 



«Ora del decesso… ventidue e quaranta» dichiarò freddamente la donna, sospirando posò gli occhiali vicino il tavolo degli strumenti prima di rivolgere un ultimo sguardo al battito cardiaco piatto ed uscire dalla sala operatoria.

Si tolse la mascherina e gettò il resto degli indumenti dentro uno dei contenitori per i rifiuti ospedalieri, si poggiò contro il lavano e guardò assente le infermiere occuparsi di sgomberare con calma la sala operatoria. Il piccolo era coperto e il cranio richiuso precariamente.

Il Princeton Plainsboro era solitamente tranquillo a quell’ora della notte, gli unici a girare liberamente per i corridoi erano gli infermieri di turno la notte e gli specializzandi, in particolare di chirurgia. Reduci da turni di quasi settantadue ore, quasi nessuno aveva prestato attenzione al neurochirurgo che camminava lentamente tra i corridoi del piano di oncologia.

La sala d’attesa era praticamente deserta, meno di cinque persone presenti, solamente due si alzarono immediatamente quando notarono entrare la donna che aveva avuto in carica la vita del loro figlio. I due erano persone quanto più normali Natalie avesse visto, entrambi poco più che sulla quarantina e l’espressione contrita dalla preoccupazione di aver passato una giornata in trepida attesa di notizie. La moglie si teneva saldamente ancora al braccio dell’uomo, tredici ore che da quella mattina che due poveri genitori aspettavano trepidanti qualsiasi notizia dalla sala operatoria dove era stato portato il loro unico figlio. Appena nove anni, e in tredici ore quella vita era stata stroncata.

«Come sta? Ci avevano detto che l’intervento poteva durare diverse ore ma…»

Il medico serrò la mascella, il volto dell’uomo si irrigidì, l’accenno di lacrime ad offuscargli la vista e gli occhi castani improvvisamente assenti. Un solo sguardo e una scossa di testa furono più che sufficienti a far crollare la povera donna dal dolore, tenuta saldamente dal marito, incredulo, sconfitto. Natalie non era più lì, il dolore della perdita aveva soppiantato la figura del neurochirurgo che aveva portato loro la notizia, era lei quella di troppo in quel momento.

«Il tumore aveva invaso troppo tessuto cerebrale, la massa era inoperabile» capì presto come i numeri e i termini medici non gli avrebbero restituito il figlio.

Poche parole di conforto, condoglianze appena sussurrate ed era di nuovo fuori dalla sala d’attesa. Non c’era verso che avrebbe potuto reggere ore di consolazione sui due poveri genitori distrutti dalla perdita, non dopo aver passato oltre tredici ore cercando di asportare con precisione millimetrica il tumore saldamente radicato nel cervello del piccolo.

Aveva visto la risonanza magnetica meno di tre giorni prima, Wilson l’aveva fatta chiamare per un consulto. Tre giorni prima era grande poco più di un nocciolo, quando aveva effettuato la craniotomia il tumore era diventato delle dimensioni di una biglia e si era annidato in ogni angolo possibile premendo sul cervello.

Per quanto aggressivo, era stata una prognosi abbastanza ottimistica, specie considerando la normale percentuale di sopravvivenza ad un tumore del genere. Ma era giovane, in salute, avrebbe dovuto solo sopportare cicli di radio e chemio, sperando in nessuna recidiva.

Il secondo piano era l’unico adibito a chirurgia, privi di un reparto specialistico di neurochirurgia, l’ospedale perlopiù rinomato per altri reparti. Le sale operatorie era state tutte svuotare e i pochi specializzandi di chirurgia che giravano ancora svegli erano solo ragazzi del primo anno freschi di laurea e timorosi di compiere un passo falso nei loro primi momenti di lavoro vero.

Poche occhiate erano state rivolte al neurochirurgo dai capelli ramati chiusi in una crocchia di fortuna, per nulla scomodatasi nel rimettersi il camice abbandonato chissà dove. Non aveva alcun specializzando cui dover badare e non ne voleva, anche se era sempre disponibile a dare una mano.

I turni di notte erano i più estenuanti, l’ospedale sembrava tingersi di un’atmosfera cupa e sinistra. Il bip costante dell’elettroencefalogramma dei pazienti era l’unico rumore costante che si udiva tra le stanze d’ospedale e per i corridoi. La calma piatta e la cupa consapevolezza di essere i diretti responsabili per qualunque cosa fosse capitata ai pazienti durante i turni di notte.

Le stanze del personale erano più simili a sgabuzzini con spazio a malapena sufficiente per far entrare un letto a castello, illuminato fiocamente dalla fredda luce a neon difettosa. Poche avevano un qualche tipo di finestra ma poco importava quando si era sotto turni di quarantotto o più ore consecutive. In chirurgia si dormiva dove, e quando si poteva.

«Glioma?» la voce bassa di House risuonò lugubre all’interno della stanza di servizio, l’unica tappa fissa della donna ogni volta che c’erano giornate come quella.

Il medico era pigramente sdraiato sul letto inferiore, le gambe rialzate sul bordo del letto e il bastone contro il muro. Lo sguardo distratto mentre lanciava sistematicamente la palla da tennis contro la parete della stanza.

«Astrocitoma anaplastico. Il lobo frontale destro era completamente perso, morto per emorragia -replicò lei dal tono altrettanto distratto, avvicinatasi alla parete si lasciò scivolare lentamente a terra, -aveva solo nove anni»

Troppo stanca persino per salire sul letto superiore, rimase lì, poggiando pigramente la testa contro la parete dietro di lei e socchiuse gli occhi. Il battere costante della pallina da tennis scandiva i secondi e per un istante ebbe l’impressione di essersi appisolata per più di qualche minuto.

«Perché sei qui, House?»

Gregory House sembrava completamente ignaro dei due piani intermedi che lo separavano dal suo reparto di Diagnostica, saltuariamente lo si incrociava nel poliambulatorio ma erano più le scuse che campava in aria che le effettive ore di lavoro trascorse nella struttura.

L’unica importanza che rivestiva il piano terra dell’ospedale era per il rifornimento settimanale di Vicodin. L’intero reparto di chirurgia lo detestava, dopo le ultime incursioni in sala operatoria mandando in fumo operazioni richieste proprio dal suo team, non aveva rispetto per il personale infermiere né per i medici. Non aveva rispetto per nessuno.

Solo James Wilson poteva, forse, venire escluso da quella sua fredda e logica mente, solo i puzzle gli interessavano. Che fosse un complesso del Messia o semplice noia, difficile da dire, ma dopotutto erano i casi che gli interessavano, non i pazienti, non le persone. Un essere umano sapeva rivelarsi il più intrigante dei puzzle quando ben composto e House aveva un certo fiuto per trovare quelli tanto rari da ribaltare ogni casistica.

«La sala delle infermiere ha la tv satellitare» atono, distaccato, interruppe solo per un attimo il battere di quella fastidiosa pallina da tennis prima di riprendere con la stessa cadenza.

Le persone mentono sempre. Non c’era verso che avrebbe parlato chiaro, non divagava, mentiva spudoratamente e difficilmente se ne distingueva quando, per una volta, sapeva essere onesto, brutalmente onesto. Lei era invece totalmente estranea a quella fredda razionalità, difficilmente sembrava passare anche per uno dei migliori neurochirurghi del New Jersey.

Non le voleva chiedere un’altra ricetta per il Vicodin, non gliele chiedeva mai e di certo non a quel modo; non aveva casi in sospeso da almeno una settimana e quasi mai rimaneva oltre il solito orario delle nove di sera, passate da un pezzo.

«Le infermiere ti odiano, –accennò­ un timido sorriso la donna, socchiudendo gli occhi e quasi incapace di discernere la figura sdraiata sul letto di fronte a lei, contro la parete opposta, –probabilmente tutto il piano non ti sopporta»
House sembrò soppesare per un attimo quelle parole, per nulla toccato dalla realtà dei fatti. «Tuttavia una percentuale abbastanza infinitesimale mi adora, quindi»

«Ti sopporta, al più» corresse lei, e dopotutto, aveva ragione. Quella altalenante amicizia che durava da anni non era esattamente cosa pubblica, ma almeno c’era anche qualcun altro in ospedale che riusciva ad intrattenere una conversazione civile con il medico più scorbutico dell’intero Princeton Plainsboro.

«Stessa cosa»

Se qualcosa non lo sopportava apertamente allora rientrava nell’invisibile zona grigia di indifferenza, qualsiasi persona non abbastanza interessante da poter essere smembrata pezzo per pezzo nella sua attenzione analitica per i dettagli, i gesti. L’indifferenza nel suo caso sembrava essere un indice di apprezzamento, nella migliore delle previsioni, qualcosa da custodire quando si era in grado di trascorrere almeno cinque minuti senza alcun commento o rimarco sarcastico.

A malapena pochi secondi, il tempo di interrompere il fastidioso rumore della pallina da tennis, afferare il bastone e rimettersi con lentezza in piedi. Dovette ringraziare il buio quasi completo della stanza per non riuscire a distinguere l’espressione pragmatica di House che in quel momento torreggiava su di lei a pochi passi di distanza.

«Non è colpa tua, Natalie» mormorò semplicemente il diagnosta prima di uscire finalmente dalla stanza di servizio e richiudersi lentamente la porta alle spalle, senza degnarla di un secondo sguardo.
Ma consapevole degli occhi grigi velati di lacrime trattenute della donna.
   
 
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