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Autore: Eneri_Mess    02/02/2022    5 recensioni
FINE (Prima parte)
Con il segreto che nasconde, Yokohama è una città dove non si possono dormire sonni tranquilli.
Dal Preludio:
Una mano di Dazai gli strinse il braccio, mentre le dita dell’altra si aggrapparono alla sua camicia sgualcita sul petto. Il nemico barcollò, ma si rimise in piedi, recuperando una delle proprie pistole.
«Chuuya...» ridacchiò Dazai, fuori luogo. «Di nuovo: ho mai sbagliato nel formulare un piano?»
«Smettila!» e la prima nota di supplica si mischiò alla richiesta. «Non sei lucido!»
Genere: Azione, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Chuuya Nakahara, Osamu Dazai, Sakunosuke Oda
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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NOTA: SPOILER! Questo capitolo contiene spoiler sulla light novel STORMBRINGER!

Capitolo 17

When Our Worlds Collide (Parte 1)





 

Watching the flames fill up the sky
When the world is on fire, we need to remember who we are
We're losing grip bit by bit, is it worth fighting for it?
Losing time day by day, are you gonna leave or stay?

[Our Worlds Collide - Dead by April]






 

Chuuya ansava nella fredda aria mattutina. 

Yokohama era al suo risveglio, in un’alba pallida e annuvolata, umida, dove il rosa all’orizzonte faticava a destarsi. 

Il Dirigente continuò a correre, il viso rivolto al cielo invece che al percorso nel parco. Il suo corpo non gli stava ancora dietro come avrebbe voluto; la stanchezza aveva cominciato a mordergli i muscoli da diversi minuti, ma il rosso aveva bisogno di sfogare ogni residuo di quel torpore dovuto alla degenza. 

Erano quattro anni che non si sentiva così allo stremo. Ancora una volta, Dazai era la parte fondante del problema, ma il resto - era inutile mentire - risiedeva nei suoi pensieri. 

Cacciò un mezzo insulto al nulla e fece sobbalzare il corridore che incrociò. Ignorando lui e lo squittio di voci che aveva in testa, aumentò il passo e calcò il terreno con sempre maggiore impulsività. 

 

Dopo un’ora, Chuuya ne guadagnò una stanchezza sufficiente a farlo crollare su una panchina, prendendo enormi boccate d’aria. Il cappuccio della felpa gli scivolò dal capo, liberando il fuoco pallido dei capelli sudaticci. Quando aprì gli occhi, a sorridergli non fu l’alba, ma una mitezza che nascondeva intenti ben affilati. 

«Tu ne sens pas très bon (Il tuo odore non è gradevole).»

«Ta tête aussi (Come la tua faccia).» rimbeccò Chuuya, tirandosi a sedere composto e massaggiandosi il petto. 

Verlaine fece il giro della panchina in un’assenza di rumore che solo un assassino come lui era in grado di produrre. Il più giovane lo seguì con lo sguardo e un muso lungo per l’inizio di giornata sbagliato. 

«Ta prononciation est meilleure (La tua pronuncia è migliorata).»

Chuuya sbuffò, alzandosi in piedi e piantandosi le mani nel tascone della felpa. 

«Seh, contento? Che vuoi? Sono occupato.» 

Il modo con cui Verlaine regalava la sua presenza al mondo aveva qualcosa di affascinante. Chuuya detestava ammetterlo - lo detestava punto, non poteva amare la persona che aveva devastato una parte importante della sua famiglia - ma esteticamente parlando, si sentiva sfigurare ogni volta che lo aveva di fianco. 

Non contava che in quel momento fosse in tenuta sportiva e bisognoso di una doccia. Era la sua presenza magnetica, da cui non si riusciva a staccare lo sguardo, probabilmente sapendo che, se avesse guardato altrove per un attimo, si sarebbe ritrovato con una lama piantata in gola. 

Era un po’ la sensazione che aveva anche con Dazai e questo gli fece contorcere ulteriormente l’umore. Non voleva pensare allo Sgombro o si sarebbe aperto un Vaso di Pandora in cui la speranza non era entrata neanche per sbaglio. 

«Allora?» incalzò Chuuya. 

Verlaine alzò lo sguardo verso l’orizzonte, parandosi dai raggi mattutini con una mano. Il pallore di una persona che viveva di propria volontà relegata sottoterra, in una bara di cemento ad addestrare la Morte, risplendette come alabastro. 

Paul Verlaine era morto sei anni prima. Quella presenza che ogni tanto si muoveva priva di peso all’interno della Port Mafia era la statua che avrebbe adornato la sua tomba, se ce ne fosse stata una. 

«On va déjeuner petit frère (Andiamo a fare colazione, fratellino).»



 

«Non sei felice del ritorno di Dazai.»

Dritto al punto. Chuuya girò lo zucchero nel caffé come se avesse potuto prendere a pugni la faccia dello Sgombro. Avrebbe pestato anche Verlaine, se questo non avesse sottolineato ulteriormente quanto avesse ragione. 

La cameriera del bistrot poggiò il resto della colazione ordinata sul tavolo e augurò loro una lieta permanenza. Chuuya ascoltò di striscio, ma l’odore del burro caldo ebbe un effetto calmante. 

«Quello stronzo-»

«Linguaggio.»

«.. pezzo di merda» Chuuya lo fulminò con lo sguardo. «Pensa di entrare e uscire dalla Port Mafia come fosse un centro commerciale.» 

Verlaine sorbì il proprio tè con una lentezza volutamente studiata, esasperante. Il tintinnio della ceramica sembrò necessario prima di replicare. 

«Mori dimostra di avere un cuore quando si tratta della sua creatura più riuscita.»

La fronte di Chuuya si contrasse spaesata, ma l’espressione non incontrò alcuna spiegazione da parte del francese, scivolandogli addosso.  

«Vale anche per te. Dazai ha la capacità di gettarti in una impasse per cui-» 

«Non voglio distruggere questo posto, ma se hai intenzione di continuare su questa linea andiamo fuori» sibilò il più giovane, con il coltello per il burro che spuntava buffamente minaccioso tra le sue dita serrate.  

L’uomo parve risentito per l’interruzione, ma un attimo dopo si strinse nelle spalle e sorseggiò un altro po’ di tè, modulando il tempo a proprio piacere. Quando depose di nuovo la tazzina e il suono si alzò limpido tra loro, in mezzo alle dozzine di tintinnii simili, continuò. 

«Cosa c’è di male nel provare dei sentimenti per il proprio partner?» 

L’espressione astiosa di Chuuya si smontò buffamente, per riprendere l’attimo seguente. 

«Io non provo un cazzo per quello Sgombro di merda!»

Qualche avventore si voltò nella loro direzione, ma gli sguardi furono rispediti indietro dall’aura scottante di Chuuya. Verlaine imburrò un pezzo di pane e ci depositò mezzo cucchiaino di marmellata, per poi lasciare tutto lì e appoggiarsi allo schienale, fissando il giovane con noncuranza. 

«Ti sei mai chiesto come sono sopravvissuto? Non lo troverai scritto in nessun rapporto.»

Chuuya serrò la mascella. Tutto quello che riguardava Verlaine era un tabù a cui aveva deciso di sottostare per amor di non belligeranza. Scoprire che fosse vivo e che il Boss lo avesse fatto Dirigente erano state due verità scomodo per cui un mezzo pensiero di piantare tutto e tutti l’aveva fatto. 

Tornare con la mente a sei anni prima significava infilare le dita sotto un coperchio di pietra, rischiare di farsi male nel sollevarlo e poi guardare in una poltiglia nera di lutti e verità. Aveva accettato la sua presenza tra di loro come fosse stato l’ordine peggiore di sempre, ma se ne era fatto una ragione. 

Aggiungere a questo contratto di coabitazione forzatamente pacifica delle verità in più non gli era mai interessato, per quanto la curiosità lo pungolasse. 

Verlaine non attese una sua risposta, non con le labbra piegate nel sorrisetto menefreghista, all’apparenza gentile, di qualcuno che ti frega un libro dalle mani per buttarlo via. 

«Sono stato salvato da Rimbaud.» 

Prima che la mandibola di Chuuya toccasse livelli troppo imbarazzanti, Verlaine precisò i dettagli. 

«Da quello che era rimasto di lui e della singolarità del suo potere. La mia abilità è quasi del tutto sparita, ma lo sarei anche io se non mi avesse fatto un ultimo dono.» 

Dare un morso al pane fragrante e farcito, osservando il colore ambrato e cupo del tè, fu per Verlaine un modo per mitigare un sapore amaro in bocca che da sei anni non lo abbandonava. 

«F-Frena» farfugliò Chuuya, dimenticandosi di odio e rabbia per l’incredulità, e lasciando che la marmellata scivolasse dal suo cucchiaino. 

«Non fare domande stupide» lo anticipò Verlaine, giudicandolo con un’occhiata. 

Il più giovane serrò la bocca, ma questo non impedì di intuire che si fosse appena rimangiato un Com’è possibile!? per lui più che legittimo. 

Sbuffò, cercando di elaborare in fretta. Avere a che fare con Verlaine era come con Dazai. Un costante correre dietro ai loro pensieri. E si odiò per il paragone, sentendosi ancora di più un idiota. 

«Perché me lo stai raccontando ora?» 

Chuuya cercò di ignorare la malinconia che si irradiava dall’ex Re degli Assassini e che lo faceva sembrare così terribilmente umano. L’ultima cosa di cui aveva bisogno era empatizzare con i sentimenti di Verlaine. 

«Da prima di venire in missione in Giappone mi sentivo incompreso da Rimbaud, credevo che il suo comportamento nei miei confronti fosse un modo per manipolarmi. La notte che ti liberammo e lo tradii mi sono sentito libero. Libero e solo col peso della mia esistenza per quasi nove anni, finché non sono tornato per te.»

Non importava quanto tempo fosse passato, i ricordi di cosa Chuuya avesse perduto davano ancora schicchere violente alla sua coscienza e a quella parte di petto che tendeva ad ammassare dolore fino a ingrossarsi e premere contro la cassa toracica. C’erano persone nella sua vita che avevano la tendenza a incidersi nella sua pelle con violenza e, all’alba dell’ennesima cicatrice che si riapriva, col ritorno di Dazai, Chuuya si chiese perché non riuscisse a sbarrare quelle porte una volta per tutte. 

Perché mi consideri parte del tuo mondo. 

Di certo, l’ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento era la voce dello Sgombro a premere come tasti di un pianoforte le sue debolezze. 

«Rimbaud ha usato la propria abilità su se stesso e questo lo ha reso un fantasma. Un fantasma in attesa del mio arrivo» proseguì Verlaine, le dita intrecciate tra loro e lo sguardo perso in un punto del passato visibile solo a lui. 

L’espressione di Chuuya tradiva tutta la sua riluttanza verso quel racconto, ma se ne rimase zitto ad ascoltare con i propri demoni nella testa.  

«Arthur mi ha aspettato per chiedermi scusa. E salvarmi.» 

Verlaine si portò una mano sul gilet e le sue dita strinsero lì, alla stessa altezza in cui Chuuya stava accumulando, goccia dopo goccia, la propria rassegnazione. Tuttavia, sul viso di Verlaine non c’era alcuna speranza. Per un solo, triste istante, Chuuya si lasciò pungere da quella malinconia indelebile, quella di aver perso qualcuno di troppo vicino per riuscire a dimenticarlo anche solo per un giorno. 

Pensò a Dazai e Odasaku e la bocca del suo stomaco si chiuse. 

«… cazzo

Il sorriso di Verlaine - un pellegrino che certe strade le aveva percorse e le raccontava con la tristezza di chi le aveva viste crollare - sembrò ridere della sua reazione, come se avesse ben chiaro cosa passasse per la mente del più giovane. I suoi occhi però erano privi di sentimenti, ma anche di oscurità. Erano un cielo troppo terso ed esteso, senza più confini o punti di riferimento, in attesa di quella tempesta di cui andava raccontando ogni tanto. 

«Arthur ha chiamato il proprio gesto un regalo di compleanno alternativo. Non avevo capito l’importanza del primo» e nel dirlo, si tastò i capelli con un dito, a indicare la mancanza di un capello che non gli apparteneva più. 

«Perché» iniziò Chuuya, a mandibola serrata, le dita strette sulla tavola. «Perché mi racconti questo ora?» 

Niente domande stupide. Quella era l’unica per cui avesse bisogno di una risposta concreta.

Afferrò il pane che si era preparato e gli diede un morso, col bisogno fisico di ingoiare il groppo in gola. L’intento di quella mattina di correre e spompare i muscoli non sembrava essere servito, se si ritrovava a pensare con più intensità a Dazai, al suo amico e a una gamma di emozioni che non gli appartenevano, ma che stavano forzando i suoi pensieri. 

Verlaine si prese di nuovo del tempo prima di concedere una risposta, delineando pigramente con un dito il profilo della forchetta intonsa vicino al piatto. C’erano diverse parole nel suo sguardo, righe di poemi sussurrati o che non avevano mai avuto la consistenza di un fiato trasformato in suono. Rimorsi

«Risolvi i tuoi sospesi con Dazai. È un consiglio da chi non ne ha più la possibilità.»

C’era un motivo per cui Chuuya preferiva menare invece di perdersi in chiacchiere. 

Il dolore fisico era gestibile. Si guariva dai lividi. Si guariva dalle ossa rotte. Si sopravviveva a una bestia che aveva dimora nel buio dell’anima e della carne e che portava ogni fibra dell’essere a spezzarsi. 

Ma per le parole non c’era una prognosi certa. Per le promesse. Per i significati nascosti tra le righe. Per il valore di un insieme di sillabe che, quattro anni prima, aveva perso di importanza con l’assopirsi del sole al tramonto e il giorno successivo non sussistevano più.

Partner

«Vaffanculo

Chuuya non ci provò neanche a elaborare. Fu sincero come lo sarebbe stato con i pugni serrati. Sapeva che non avrebbe risolto la situazione, ma non aveva chiesto lui quella conversazione, quel peso in più sulla sua coscienza già portata all’estremo. 

Dazai, Dazai, Dazai.

Sarebbe impazzito. Sembrava la conclusione quasi più auspicabile che fermarsi anche solo a pensare alla forma di quei sospesi e a come risolverli. 

Dazai non si risolveva. Dazai era al mondo per creare problemi al prossimo e Chuuya non era che una delle sue vittime preferite. 

«Mi hai fatto passare l’appetito» sbottò con voce schifata, maledicendo con lo sguardo Verlaine. «Sei uno stronzo.» 

Fu come fargli un complimento, dall’espressione serafica che il maggiore si dipinse in viso. 

Con un gesto della mano, elegante nella sua semplicità, il francese attirò l’attenzione di una delle cameriere dall’aspetto straniero. Questa si avvicinò con le guance simili a due pesche mature e un sorriso timido. 

«Oui Monsieur?» 

«Nous boirons du vin, si vous plaît (Ci porti del vino, per favore).»



 

* * *



 

A Chuuya erano servite ventiquattro ore per tornare di un umore in grado di sopportare un’altra presenza intorno a sé. Tuttavia, era chiaro che con gli inizi di giornata non aveva una gran fortuna. 

Caffè d’asporto alla mano per viziarsi e documenti sottobraccio, l’ingresso nel suo ufficio se lo immaginò molto diverso. Per cominciare, Dazai non si sarebbe dovuto trovare seduto alla sua scrivania a salutarlo con uno sbadiglio. 

Ci provò sul serio a contare fino a dieci prima di rispondergli, ma fallì al tre. 

«Scegli se vuoi uscire dalla porta o dalla finestra.»

«Non ho tempo per queste cose. Sto lavorando.»

Risolvi i tuoi sospesi con Dazai.

Chuuya sbuffò a bocca larga. 

Era impossibile risolvere qualcosa se ogni volta che vedeva la faccia dello Sgombro la prima reazione era afferrarlo e lanciarlo da qualche parte. Escluso quello, un’intera giornata ad arrovellarsi la mente non lo aveva aiutato a capire quali dovessero essere quei sospesi

Dazai era uno stronzo egoista e menefreghista, un giorno se ne era andato e un altro era tornato e tutto per la medesima ragione. Chuuya non faceva parte - e non voleva far parte - di quell’equazione. Aveva solo avuto la sfortuna di doverci lavorare insieme e subirne le conseguenze. Per il resto non erano affari suoi. 

Si avvicinò alla propria scrivania e notò come la superficie fosse stata costellata di fogli, cartelline, un paio di faldoni, planimetrie e diverso materiale da cancelleria in un disordine che, in effetti, gridava lavoro. Dazai stava sul serio lavorando

«Vattene nel tuo ufficio» sbottò, cercando di rimanere concentrato sulla propria linea di pensiero.

Dazai sbadigliò di nuovo, occhieggiando il bicchiere in carta che la Lumaca stringeva in mano e da cui arrivava un invitante odore di caffeina.

«Non posso. È in ristrutturazione.» 

«Che?» 

Dazai si stiracchiò e la risposta ne restò coinvolta. 

«Mi hai detto tuuu di interpellare un interior designer. È stato un ooottimo consiglio! Dopo quattro anni, il mio ufficio aveva bisogno di una svecchiata.»

La bocca di Chuuya era aperta e senza parole da suggerire, se non qualche verso quasi muto dato dalla confusione. Dazai ne approfittò, allungandosi per tentare di conquistare il caffè, ma il partner si tirò indietro. 

«Ci sono mille altre stanze dove puoi lavorare!» abbaiò e pensò seriamente di morderlo.

«Non sei per niente ospitale! Ti ho anche portato delle camelie per vivacizzare l’ambiente!» lagnò l’ex detective col muso, indicando il vaso scuro contenente un cespuglio di fiori rossi. 

Questo contribuì solo a confondere maggiormente Chuuya e gettarlo di nuovo nella posizione in cui non aveva controllo di quello che succedeva quando era implicato Dazai. 

«Sarà comunque questione di qualche giorno, una settimana al massimo» continuò lo Sgombro, riprendendo a scribacchiare su uno dei suoi fogli. «Ho cercato nella tua agenda e ho trovato il nome di questa designer… Yukiko? No, Yumiko-chan! Quando ho fatto il tuo nome mi ha raccontato un sacco di cose interessanti!» 

Dazai stava ridendo con leggerezza, fissando con la sua aria furbetta Chuuya, le cui guance pizzicarono di un rosa più intenso, impossibile da non notare.

«Ad ogni modo, penso che farà un gran bel lavoro! Mi ha fatto avere le bozze del progetto in meno di due ore e mi ha chiesto di salutarti! Dice che il suo cellulare è sempre acceso.»

Chuuya detestava battere in ritirata, ma non aveva più quindici anni e l’innocenza di qualcuno cresciuto a piccoli furti e scaramucce. Aveva imparato, proprio con Dazai, che c’erano momenti in cui dichiarare la resa e girare i tacchi per preservare il fegato. 

Abbandonò l’idea di riconquistare la propria scrivania e si diresse verso i divani dall’altra parte dell’ufficio, buttandosi a sedere con l’esasperazione che avrebbe dovuto provare alle sei di pomeriggio e non alle nove di mattina. Lanciò i documenti sul tavolino di fronte a sé e cercò di bersi il caffè e ignorare quel succhia-pazienza del suo partner. Lo avrebbe buttato fuori di peso dopo l’ultimo sorso. 

«Yumiko-chan è davvero molto carina e ha un seno enooooorme! Anche se è rifatto! Non pensavo ti potesse piacere.»

Chuuya quasi si strozzò per non averlo sentito arrivargli alle spalle. Dazai e il suo maledetto passo felino. 

«Scordati che ti dia corda in questa discussione» ringhiò, abbandonando il caffè sul tavolino per non accartocciare il bicchiere e macchiarsi il completo. Si accese una sigaretta e recuperò i documenti, nel tentativo di distrarsi. 

Dazai le antifone le capiva perfettamente e le ignorava con l’intensità di un gatto che miagola per avere attenzioni. Fece il giro del divano e si lasciò cadere di fianco al partner, stravaccandosi con le gambe lunghe e la schiena a metà della spalliera. Il sorrisetto stampato sulle sue labbra diceva Non mi scappi.

«Sai, ieri mentre parlavamo mi chiedevo come potessero risultare al tatto delle tette rifatte» riprese allegro, gesticolando a mezz’aria. «Insomma…» e imitò una palpata al nulla. «Cosa si sente? Sembrano vere o hai la sensazione di qualcosa che fa… squish?»

Metà della sigaretta finì fumata in un unico tiro. Chuuya si impose di non scattare ma fingere, fingere che meno corda gli avesse dato, prima l’avrebbe piantata. 

«Invitala a cena e poi a letto» borbottò, cambiando foglio per dare l’idea almeno a se stesso di star combinando qualcosa. 

Dazai sbatté le palpebre un paio di volte e si portò un indice al mento, tamburellandoci sopra. 

«Posso davvero? Non farai scenate di gelosia?»

«Fottiti chi ti pare» sbuffò Chuuya, allungandosi per riafferrare il caffè, ma non trovandolo. Dazai stava ingurgitando già l’ultimo sorso. 

«Ma porca puttana!»

«Non ti dispiace se invito anche il suo assistente? Quel… mmh… Heiji?» 

«Eichi» lo corresse Chuuya sovrappensiero, per realizzare l’istante successivo la trappola. Stavolta nulla lo salvò da diventare dello stesso colore della camicia che aveva quel giorno. 

Dazai si passò la lingua sulle labbra, gustandosi la vittoria insieme al sapore di caffè.

«Quando dico che sono il tuo partner scopro un sacco di altarini interessanti! Sarà perché la gente fraintende?» ridacchiò, abbandonando il bicchiere del caffè e mettendosi di nuovo comodo con le braccia dietro la testa. «Non sapevo che ti dedicassi alle cose a tre! Chi stava sopra? O vi siete dati il cambio? O… oh! Oppure Yumiko-chan aveva uno strap-on?» 

Chuuya non aveva più quindici anni e non era più incazzato col mondo. Le sue prospettive si erano ampliate come le sue esperienze, ma se lo scenario che si prefigurava era di passare una settimana con Dazai e sentire scoperchiati tutti i propri trascorsi sessuali degli ultimi quattro anni, allora qualcuno sarebbe davvero uscito dalla finestra. Con quell’andazzo, probabilmente sarebbe stato lui stesso. 



 

* * *



 

Nei seguenti tre giorni, Chuuya riprese possesso della propria scrivania e Dazai dovette preferire il divano, portando il suo caos con sé e rendendo il piccolo salottino un campo di guerra di appunti, documenti e qualche romanzo fregato a ignoti. 

Si punzecchiarono inevitabilmente, ma il rosso dovette ammettere che aleggiava più silenzio che discorsi futili. Pensava di trovare Dazai a dormire il più delle volte, ma le occhiate che gli lanciava si imbattevano nel Demone Prodigio chino sui propri fogli con un’espressione concentrata, resa però più matura dai lineamenti affilatisi negli anni. 

Alle nove del mattino lo trovava già lì e la sera doveva cacciarlo a pedate. Se nelle ore in cui Chuuya era chiamato a sistemare qualche faccenda Dazai usciva, non ne aveva idea, ma l’impressione non era quella. 

C’era qualcosa che non quadrava, ma ogni volta che il rosso era sul punto di aprire bocca e indagare, più di un pensiero lo pungolava per frenarlo. 

Primo, quella pace surreale era piacevole. Non esisteva un singolo ricordo di Chuuya dove lui e lo Sgombro erano riusciti a condividere lo stesso spazio per più di mezz’ora senza arrivare alle mani, neanche agli incontri ufficiali che richiedevano un aplomb per evitare lo scatenare di conflitti. Mori, Kouyou e Hirotsu serbavano ricordi piuttosto imbarazzanti di guerre sfiorate. 

Secondo, una vocina ricordava a Chuuya che per quattro anni Dazai aveva vissuto un’altra vita, di cui due anni in Agenzia con persone nuove e un partner che non era lui. Per quanto il Prof - ricordava si chiamasse Kunikida - gli avesse dato solo l’impressione di un palo in culo, non aveva idea se dietro la scrivania fosse riuscito a dare a Dazai abitudini diverse. Lo dubitava fortemente, ma non aveva prove per smentirsi. 

Per finire, un’ultima vocina rideva di tutto questo e gli ricordava che Dazai era Dazai, ogni cosa aveva un significato nascosto e che lui se ne sarebbe accorto troppo tardi. 

Chuuya era talmente incastrato dai propri pensieri - ed era colpa dello Sgombro come ogni volta - che essere mandato a pestare una gang minore per sconfinamento territoriale fu il tipo di incarico che gli ci voleva per sfogare la frustrazione. 



 

* * *



 

Qualcuno bussò alla porta a metà pomeriggio e Dazai, riconquistata la comoda poltrona alla scrivania di Chuuya, strascicò un blando Avanti, senza togliere gli occhi da ciò che stava leggendo. 

Ci fu un colpo di tosse inequivocabile, seguito da un «Dazai-san» tutto sommato rispettoso.

Akutagawa fissò il mentore finché il suo sguardo non fu ricambiato, per quanto brevemente, ma senza noia. 

«Se stai cercando Chuuya è fuori a picchiare qualcuno che si è approfittato dell’attuale debolezza della Port Mafia. Penso tornerà per cena, era parecchio di malumore» spiegò Dazai, stendendo un braccio per stirare la schiena e scricchiolare tutto. 

Akutagawa si avvicinò alla scrivania, impassibile e con le mani dietro la schiena in segno di rispetto. 

«Cercavo te» disse, diretto e calmo. Si poteva avvertire una placidità quasi estranea al suo essere, capace di sorprendere persino Dazai. 

L’ex detective lo scrutò per qualche secondo, ma non trovando accenni visibili della possibile conversazione, lo invitò a sedersi. Akutagawa rifiutò. 

«Allora, come posso aiutarti?» domandò affabile e incuriosito il Dirigente, intrecciando le dita. Una scena che non si sarebbe mai vista al tempo della loro vita precedente. Akutagawa conservava vividi ricordi di un sé inascoltato che si scontrava costantemente con un muro di noia. 

«Jinko mi ha chiesto di consegnarti questi» e nel dirlo, estrasse dal cappotto i fogli piegati in quattro con il report di Atsushi.

Da parte di Dazai ci fu stupore nel fissare per un attimo quell’insieme di carta non diversa dai centinaia di fogli sparsi intorno a lui, ma con insito un significato molto diverso. Li raccolse e si prese qualche momento per dispiegarli e studiarli, aggrottando le sopracciglia con attenzione. 

«Ranpo-san è riuscito a fare dei passi avanti» concluse tra sé, soddisfatto. 

Akutagawa era rimasto in silenzio. Percepiva l’ambiente intorno a sé diversamente. Nessuna irruenza, nessun bisogno di cercare attenzioni da quegli occhi che gli avevano dato una ragione per stare in piedi. Non si fece domande. Non aveva bisogno di distrazioni, non quando, per la prima volta da settimane, si sentiva padrone di sé. 

«Jinko spera che avere queste informazioni ti convinta a tornare in Agenzia» spiegò il Cane della Mafia, fissando apertamente il proprio Maestro. «Prima che sia troppo tardi.» 

Non abbassare lo sguardo permise ad Akutagawa di scorgere il cambio di emozioni sul viso di Dazai. 

Fu una percezione diversa, strana. Aveva conosciuto tutti gli spigoli che quel volto poteva assumere, dal sadismo al rimprovero, da un’ira gelida al sentimento più simile alla vendetta con disinteresse. La nostalgia - che Ryuunosuke conosceva più come una parola scritta che come un sentimento reale - si dipinse come un acquarello delicato nella linea degli occhi del Dirigente. 

«Sembri fin troppo collaborativo nel portarmi queste informazioni, quando so che hai eletto Atsushi-kun a tua nemesi» celiò Dazai, mentre quella sfumatura blu svaniva con la leggerezza di un sogno. 

Akutagawa sapeva cosa doveva dire e lo fece senza sentire alcun dubbio ansargli sulla nuca. 

«Jinko non ha ancora realizzato che può stare in piedi sulle proprie gambe senza che tu sia vicino a lui» mormorò con fermezza, quasi lapidario, ma non cattivo. 

Non si era mai negato nel dire quel che pensava, anche se aveva significato beccarsi dei proiettili addosso. In quel momento, sentì di essere nel giusto, ma la vera differenza fu nel non avvertire alcuna inferiorità morderlo da dentro. 

Se Dazai si sentì colpito da quella affermazione, dissimulò bene nel sistemarsi contro lo schienale della poltrona. 

«Mi distraggo un attimo e succedono queste cose alle mie spalle?» domandò con un accenno di risata, sincero nell’essere divertito. «Da quand’è che hai tutta questa stima per Atsushi-kun? Pensavo lo volessi uccidere.»

Akutagawa ascoltò un’eco nella propria testa urlare proprio quell’intenzione e aggrottò la fronte nel sentirla interrompersi come una radio a cui veniva cambiata sintonizzazione. 

«Intendo superarlo. Lui è forte.» 

«Sì, lo è molto» confermò Dazai, con un sorriso morbido sulle labbra. 

«Ma è anche estremamente insicuro» continuò Ryuunosuke senza tentennamenti. 

Il più grande sospirò, rivolgendo lo sguardo al soffitto per raccogliere i pensieri e riordinarli. 

«Insicuro, eh?» ripeté, saggiando la consistenza di cosa significasse. «Direi che Atsushi-kun ha una sensibilità che io e te ci sognamo.»

Lo sguardo di Dazai continuò a vagare, come se lui stesso non fosse seduto ma stesse girovagando nel proprio palazzo mentale cercando di ricordarsi dove avesse messo gli appunti sulla Tigre Mannara. 

«Credo sia una questione di indole. Forse qualcosa derivato dai soprusi che ha ricevuto per anni all’orfanotrofio. Non che io e te siamo esenti da un’infanzia di traumi e orrori» mormorò una constatazione dietro l’altra, vagliandole sul momento con una mano sotto il mento. Poi ridacchiò tra sé, avendo afferrato un pensiero evidentemente buffo. 

«Potrebbero anche essere i sensi più sviluppati della Tigre a renderlo così. Non l’ho mai colto in flagrante, ma sono sicuro che faccia le fusa quando è molto contento.»

Akutagawa rimase in silenzio, senza raccogliere, ma aspettando che Dazai tornasse sui binari. 

«Atsushi-kun sente il mondo circostante in maniera diversa. Ciò che tu identifichi come insicurezza è solo una strada più tortuosa rispetto a quella che io e te abbiamo scelto.»

L’ex detective fissò lo sguardo in quello di Akutagawa, senza volerlo mettere in soggezione, ma restituendogli una verità condivisa. 

«Noi premiamo il grilletto. Atsushi-kun cerca un modo per non farlo.»

Le sue parole non ebbero un significato particolare, se non quello di un dato di fatto. 

Akutagawa assottigliò lo sguardo. Aveva capito cosa intendesse Dazai, ma non riuscì a pensare che non fosse stupido. Significava esitare. Perdere tempo quando, nelle situazioni in cui si trovavano spesso coinvolti, questo avrebbe portato il nemico in vantaggio, o ferite troppo profonde da cui guarire. 

«Si ostina a voler salvare tutti» fu la conclusione a cui il Cane della Mafia arrivò, ripercorrendo un film di ricordi in cui ogni reazione di Jinko si era posta con quell’intento. E lui non capiva. Guardò di nuovo in faccia Dazai. 

«Jinko è convinto che questa storia finirà bene.»

Oda-san una volta lo ha fatto. Ha salvato Dazai-san. Lo ha cambiato.

«E se così fosse?» lo stuzzicò Dazai. «Dopo che salvi la vita a una persona è difficile ignorare tutte le altre. Farne a meno. È una sensazione che ti si radica dentro, inebriante, totalizzante, a tratti egoistica. Ti fa sentire meglio. Ti fa sentire migliore. E che ne vale la pena. Perché biasimare Atsushi-kun per questo?»

Nonostante il soggetto fosse la Tigre Mannara, Dazai non aveva più lo sguardo fisso in quello dell’ex allievo e gli diede l’impressione che stesse dando voce a qualcosa di più intimo e personale. Akutagawa lo ascoltò, ma accettarlo, sovrapporre definitivamente quel Dazai al Demone Prodigio, assiso su un trono nella sua memoria, era un passo che richiedeva del tempo. 

«È irrealistico» ribatté il più giovane, sentendosi ragionevole. 

«Era irrealistica anche una collaborazione tra te e Atsushi-kun fino a qualche mese fa. Ora mi porti informazioni da parte sua. Le cose cambiano, eh?»

Akutagawa lo guardò malissimo, difendendo con la sola presenza corrucciata la propria posizione. Dazai replicò tirando su le spalle.

«Per rendere questa speranza di Atsushi-kun reale dovremmo muoverci molto bene. Per il bene di tutti.» 

Quello del Cane della Mafia non fu un silenzio assenso, scelse volontariamente di non ribattere. Non ne trovò l’utilità, non avendo idea di chi comprendesse quel tutti. La Port Mafia? Era inevitabile che qualcuno si facesse male, era nella loro natura. Se si trattava dell’Agenzia, loro erano i loro nemici naturali, quindi non sarebbero dovuti rientrare nell’insieme. I cittadini di Yokohama avevano l’importanza delle comparse sullo sfondo, al cambio scena tutti se ne sarebbero dimenticati. 

Akutagawa non capiva, eppure non percepì la famigliare frustrazione di quei momenti. La sensazione che aveva provato dopo l’ultima conversazione avuta con Jinko ancora persisteva, come uno strato sottile impermeabile che lo stava distaccando dal proprio cieco rancore, creandogli una bolla in cui riflettere. 

Dazai fissò incuriosito il proprio ex allievo, lasciando che i secondi di silenzio si trasformassero in minuti. 

«Sei particolarmente docile oggi» constatò dopo un po’, colpito da quell’atteggiamento. «Ho notato come hai continuato a evitarmi da quando sono tornato, ma oggi sembri una persona completamente diversa. Non vuoi chiedermi di misurarmi con te? Non vuoi provare a uccidermi?» continuò con più foga e teatralità, allungandosi sulla scrivania osservandolo come avrebbe fatto con una qualche creatura del circo. La messinscena invasiva si placò così com’era iniziata, per lasciare spazio a un ghignetto che invece la sapeva lunga.

«Azzarderei a dire che ormai è solo da Atsushi-kun che vuoi ricevere attenzioni, vero?»

Akutagawa aggrottò la fronte e sentì un vago calore alla base del collo. 

«Non voglio le attenzioni di Jinko» disse come fosse un’ovvietà, ma non servì a cancellare la soddisfazione dalla faccia di Dazai. Tossì appena e gli servì per schiarirsi la gola e anche la mente. Le sue nuove consapevolezze premevano dietro le labbra sottili.   

«Le nostre strade di sono separate, Dazai-san.»

«Oh.» 

Risultò anche troppo facile da dire, ma Akutagawa non ebbe ripensamenti. Dazai sembrò sinceramente colpito, ma recuperò l’istante successivo il proprio savoir-faire, poggiandosi una mano sul petto. 

«Hai spiccato il volo dal nido mentre non c’ero?»

Ancora una volta, con un accenno in più di frustrazione in un broncio tuttavia nuovo, più elastico, Akutagawa fissò Dazai senza capire a cosa si riferisse. 

Il Dirigente appoggiò il mento sulle dita intrecciate con un risolino a labbra chiuse. 

«Arrivati a questo punto, non mi stupirei se anche i muri sapessero i dettagli della mia storia con Odasaku. E tu, in fondo, c’eri, anche se all’epoca non vedevi oltre le tue convinzioni. Mi hai perdonato per averti abbandonato?»

«No» fu una risposta precipitosa ma ferma. Akutagawa prese un respiro a labbra schiuse, cercando la sicurezza per parlare. 

«Sei il mio Maestro. Mi hai dato una ragione per vivere, ma mi hai voltato le spalle lasciandomi con l’idea di essere debole, di non essere all’altezza. Odio ancora ogni singolo momento di quei giorni.» 

Aveva i pugni serrati in piena vista, ma non si sentì vulnerabile, non più. Una certa durezza venava il suo tono e cercò di rilassarsi, di lasciarla scorrere per diventare un terreno sicuro su cui appoggiare quei piccoli germogli a cui voleva dare voce. 

«Ho capito che non posso riavere quello che c’era un tempo. Che… non voglio riaverlo. Non voglio più sentirmi inferiore o paragonato a qualcuno. Voglio… qualcos’altro.» 

Dazai restò senza parole. Realizzare il distacco fu come voltarsi e notare solo la schiena della persona che pensava di avere al seguito, non vederne più gli occhi, rivolti in un’altra direzione. 

Akutagawa non attese una risposta. Aveva bisogno di prendere una boccata d’aria che siglasse come vero quanto avesse appena affermato. 

Si inchinò in maniera rispettosa, ma sbrigativa. Non indugiò sul viso dell’ex detective - non si accorse delle incrinature nel suo sguardo - e si avviò verso la porta. 

Con la mano sulla maniglia, un ultimo pensiero emerse per essere ascoltato. 

«Dazai-san» pronunciò, con un sapore nuovo. Libero. Si umettò le labbra, ma non si voltò indietro, parlando forte, ma fissando l’uscio. 

«Non so perché Mori-san ti abbia riaccolto… ma credo sappia anche lui che non sei davvero tornato alla Port Mafia.»

Aprì la porta e se ne andò. 



 

* * *



 

Chuuya rientrò più tardi di quanto avesse previsto. Lavare via il sangue era sempre una seccatura e aveva dovuto calcare la mano per rimettere in riga gli arroganti bambocci che pensavano di banchettare dei problemi della Port Mafia. 

Tirare qualche sano pugno al minimo della gravità lo aveva aiutato a livellare la pressione dei pensieri. Una doccia calda aveva sciolto più del sangue e della stanchezza. Si sentiva rinvigorito e pronto a tornare su quell’ottovolante che era diventata la sua vita nell’ultimo periodo. 

La luce spenta che trovò nel proprio ufficio lo lasciò pensieroso il tempo di osservare l’orologio e constatare che fossero le nove. Anche se negli ultimi tre giorni aveva dovuto scollare Dazai dal divano per farlo uscire, per un attimo pensò che la fame avesse vinto e se ne fosse andato di propria sponte. 

Sulla scrivania c’era il marasma di appunti e documenti che di solito erano nella zona del salottino, ma Chuuya non si stupì più di tanto. Ciò che attirò la sua attenzione fu il cellulare dello Sgombro abbandonato in un angolo, sotto un foglio. 

«Che cazzo» imprecò al nulla, sentendo la prima vena di irritazione mascherare la preoccupazione. Ributtò il cellulare sui fogli e marciò senza pensarci verso la porta. 

Dazai poteva essersene andato a dormire e aver dimenticato il cellulare, se dimenticare non fosse stato un termine estraneo all’ex detective. 

In tempi record Chuuya fu all’appartamento di comodo dello Sgombro, lì nel palazzo principale della Port Mafia, e si attaccò al citofono. Il risultato fu sentirsi uno scemo nel continuare a pigiare a vuoto e ad avere ipotesi nel cervello che scoppiavano come l’acqua in ebollizione. 

Tornando sui propri passi, interrogò le guardie di turno finché una non si ricordò di aver visto Dazai prendere l’ascensore che portava al tetto. Chuuya premette incazzato la stessa destinazione, ma appena le porte si chiusero gli fu inevitabile addizionare Dazai più tetto e trarre conclusioni affrettate. 

Col cuore che non la smetteva di rimbalzargli nel petto, il rosso quasi sfondò il pulsante dell’ultimo piano con frustrazione, sapendo benissimo che non avrebbe accelerato la corsa. Tentò di calmarsi, pensando che non fosse il momento delle cazzate. Con Odasaku in giro vivo e vegeto, Dazai non aveva più certe intenzioni.  

 

La notte di Yokohama lo accolse con un alito fresco, scompigliandogli i capelli. Le luci della città erano un tappeto di colori fino al mare, ma per quanto Chuuya amasse guardarle, il suo sguardo frugò lo spazio circostante del tetto. Con una lunga occhiata, camminando e girando su se stesso, cercò una figura nera in piedi sul cornicione. Non trovò nulla. 

Quando abbassò lo sguardo ebbe risposta ai suoi timori. 

Dazai era lì, per terra, a pochi passi da lui. 

Il cuore di Chuuya decelerò di colpo e si prese un attimo per passarsi una mano sulla faccia. 

Cosa, esattamente, non andava nella sua testa? Se lo chiese mentre si avvicinava senza togliere gli occhi di dosso allo Sgombro. 

Si era fatto prendere dal panico senza alcuna ragione. I tentativi di suicidio di Dazai non avevano mai previsto tetti di palazzi. Si sarebbe dovuto trattare dell’ultimo tentativo, il definitivo. Un biglietto di sola andata. Da quell’altezza non voleva immaginare cosa avrebbero raschiato dal marciapiede. 

Nonostante Chuuya non stesse facendo nulla per celare la propria presenza, l’ex detective non diede segni di averlo sentito. Arrivato vicino, la Lumaca gli diede un colpetto con la punta della scarpa. 

«Ohi» aggiunse, avvertendo improvvisamente tutta la stanchezza della giornata sulle spalle. 

Dazai mugugnò, svegliandosi. Sbatté le palpebre più di una volta mettendo a fuoco la testa rossa sopra di sé. 

«Ehi» ricambiò, stirando un sorrisetto e allungandosi per bene come il gatto che era. «Wow, mi sono addormentato. Che ore sono?» 

«Le nove passate. Da quant’è che sei qua sopra?»

Dazai ci pensò un attimo. «Cinque ore.»

Chuuya corrugò la fronte, mani sui fianchi. 

«Si può sapere che diavolo sei venuto a fare qui?» 

Lo Sgombro agitò la mano in un gesto vago. 

«Contemplavo l’infinito» e lo disse saltando in piedi e abbassando gli occhi su Yokohama. «Da qui è molto bello.»

C’era una nota disarmonica da qualche parte che mantenne l’attenzione del rosso fissa sul partner. 

«È successo qualcosa?»

«Eh?» la sorpresa di Dazai si abbozzò in un sorriso sagace. «Ti preoccupi?» 

Chuuya non scordò mai come fosse bastata una domanda tanto stupida a dare inizio a tutto. 

«Sì.»

E una risposta altrettanto sciocca.

Anche se fu una replica semplice e ammissiva, Chuuya non la ritrattò. Sapeva che fosse un terreno minato. Aveva appena ammesso qualcosa per cui il suo fegato ne avrebbe risentito nei giorni successivi probabilmente, ma decise di rimanere su quella strada. 

Mori dimostra di avere un cuore quando si tratta della sua creatura più riuscita. Vale anche per te.

Quella doveva essere la maledizione del Demone Prodigio. Potevi odiarlo, ma sembrava che nessuno di loro fosse in grado di voltargli davvero le spalle. 

Dazai si lasciò scappare un sospiro che lo sgonfiò di tutto l’entusiasmo. Inclinò la testa, fissando Chuuya con un broncio. 

«Vi siete messi d’accordo per farmi provare forti emozioni oggi?» lagnò. «Dove sono finiti gli uomini sanguinari della mafia che risolvono tutto a pugni?»

«Ma che diavolo stai dicendo? Cos’è successo?!» 

«Niente, niente» cincischiò Dazai, facendo qualche passo verso il bordo del palazzo. 

Chuuya lo seguì solo con lo sguardo, in attesa di una spiegazione, ma misurando ognuna di quelle brevi falcate con attenzione. 

«Oggi pomeriggio è passato Akutagawa. Abbiamo avuto uno scambio di opinioni» raccontò l’ex detective. Si fermò oltre la linea di sicurezza, ma restò semplicemente lì, mani in tasca. 

Chuuya lo raggiunse, spinto più dal bisogno di guardarlo in faccia per sincerarsi di quelle parole, che da altri timori su tentativi suicidi. 

«Akutagawa è in grado di esprimere delle opinioni? Con te?»

Dazai rise di gola. 

«Per un sacco di tempo ho avuto lo stesso dubbio, ma a quanto pare ne è capace. Sembra che il mio intento di spingere Akutagawa a collaborare con Atsushi-kun stia evolvendo meglio del previsto.»

Il commento di Chuuya fu un verso esasperato. 

«Perchè ti metti a manipolare dei ragazzini?»

«Cosa pensi che abbia fatto Mori-san con noi?»

Quello della Lumaca fu un silenzio frustrato ma che non contestava la realtà. Il suo sguardo aveva le tracce di un risentimento che nel tempo si era andato mitigando. Sette anni prima era stato incastrato, ma sarebbe stata una bugia negare che, se avesse avuto modo di scegliere, avrebbe rifatto gli stessi passi da capo senza esitazioni - più con l’idea di mettere nel sacco lo Sgombro in qualche maniera. Ma sarebbe stata un’altra storia.  

«Sapeva che combinati saremo stati inarrestabili» replicò, frugandosi in tasca e recuperando una sigaretta.  

«Mi rubi le battute?» lo pizzicò Dazai, ma il suo tono fu sporcato di malinconia. «Il Duo Nero…»

«Hai pensato di fare la stessa cosa con Akutagawa e la Tigre Mannara?» indagò Chuuya, anche se ne era già certo. L’improbabilità era una delle carte di Dazai, quindi più una situazione era surreale più lo zampino era il suo. Il bagliore dell’accendino brillò illuminandogli il viso e la prima boccata di fumo fu inebriante. 

«Dal primo momento in cui ho incontrato Atsushi» confessò l’ex detective, con la fermezza e la serietà con cui si confessano i segreti quando è il momento giusto. L’odore del tabacco smorzò di riflesso anche i suoi nervi, facendolo continuare. 

«Sapevo che la rivalità avrebbe spronato entrambi e che insieme sarebbero stati… inarrestabili» e scoccò un’occhiata eloquente a Chuuya. «Anche se non ho ancora capito chi dei due sia la mente e il chi il braccio.»

«Potrebbero rivelarsi migliori di noi» replicò pacato Chuuya, osservando la città che si estendeva ad appena due passi da lui. Sarebbe stato un caleidoscopico salto nel baratro, ma non ebbe alcuna tentazione ad affascinarlo. Allungò il braccio e diede un colpo al filtro della sigaretta nel vuoto. La cenere non cadde mai, ma fu portata via dal lieve vento onnipresente a quell’altezza. 

«Wow Chuuya, questa sembra proprio la frase che direbbe un papà!»

Dazai finse di emozionarsi, congiungendo le mani con ammirazione. 

«È l’orologio biologico a chiamarti o senti l’ora di andare in pensione?»

«Ma piantala, deficiente» sbottò il partner, tirandogli una gomitata nel fianco. 

Lo Sgombro incassò lamentadosi sonoramente e massaggiandosi la parte lesa. 

«Sei il solito bruto… ma penso che Atsushi-kun potrebbe piacerti» aggiunse con una parvenza di dolcezza. 

Non si aspettò un ghigno in risposta, insieme a un’occhiata che la diceva lunga. Chuuya gli soffiò del fumo in faccia. 

«Oh, ma lui mi piace molto. Abbiamo fatto una scommessa qualche tempo fa.»

«Cosa!? Ma vi siete visti a malapena una volta!»

«Questo lo dici tu. Mica devi sempre sapere tutto.»

«Invece sì! Stiamo parlando di un mio protetto! Che gli hai fatto!?»  

«Tenerti all’oscuro di qualcosa è troppo appagante. Non te lo direi neanche se ti mettessi in ginocchio.»

«Solo per sentirti più alto! Speraci! Te lo farò sputare, o andrò direttamente a parlare con Atsushi!» 

Dazai sembrava tornato il ragazzino della mafia che tormentava il suo cane rabbioso bipede, ma Chuuya aveva quell’asso nella manica e non lo avrebbe mollato tanto facilmente. 

Bisticciarono per diversi minuti, ma fu la discussione più leggera che avessero mai avuto. Gli angoli delle bocche di entrambi ebbero guizzi continui verso l’alto e i loro toni furono imitazioni di quelli coloriti con cui si insultavano di solito. 

Quando la sigaretta di Chuuya emanò un ultimo bagliore rossastro, anche quelle chiacchiere insensate cessarono. 

«Rientriamo? Devo ancora cenare» propose Chuuya, visibilmente più rilassato. 

L’ex detective non rispose, perso a fissare il panorama con un’espressione che non restituiva alcuna emozione riconoscibile. Era pensieroso, ma senza una direzione chiara da esprimere. 

«C’è una cosa che vorrei provare.»

«Mh?»

Dazai mosse un passo verso il bordo del palazzo e Chuuya si tese di riflesso. Non tentò gesti avventati, ma non ci furono neanche più centimetri di cemento a dividere l’ex detective dal vuoto. 

Con lentezza, Dazai si volse, dando le spalle alla città e guardando Chuuya negli occhi. Sollevò entrambe le mani e gli porse i palmi. 

Era chiaro che il rosso avesse il cuore a battergli in gola. Ci mise manciate di secondi ad abbassare lo sguardo dal viso rilassato del partner alle sue dita lunghe, senza cogliere la richiesta. 

«Andrà bene» mormorò Dazai. «Qualsiasi scelta farai.»

Il vento, leggero, sembrò sospingere con una carezza le spalle di Dazai verso l’abisso di luci. Il silenzio si trasformò in tempo rallentato e i secondi divennero frazioni di brividi. 

Chuuya realizzò cosa stesse per succedere vedendo quelle dita allontanarsi da lui. Il suo corpo si mosse prima della mente. 

Lo afferrò

Per un lunghissimo, dilatato istante, il peso di Dazai parve vincere e fare dono alla gravità reale - quella di cui nessuno poteva essere il padrone in quel momento - di un doppio tributo. 

Chuuya non lo permise. Puntò i piedi e scaricò in terra tutta la propria forza per ricalibrare la bilancia di follia. Erano sette anni che si allenava sapendo che Dazai poteva renderlo un fuscello con un tocco. Sette anni che culminarono in quell’esatto secondo in cui le cose andarono come volle lui. Dazai gli aveva dato una scelta e lui l’aveva fatta.

 

 

Il mondo tornò ad avere dei suoni e il rosso avvertì l’ansito del proprio respiro. Stava sciogliendo il nervosismo in lente boccate d’aria. 

Escluso lo spavento iniziale, la tensione si trasformò in un’ulteriore presa salda, nella sicurezza che Dazai non sarebbe caduto. 

In un silenzio fatto di sussurri che echeggiavano nella propria testa, l’ex detective restò con la testa reclinata all’indietro a contemplare l’inversione di cielo e terra. 

«Non cambia quasi per niente» commentò in un mormorio di velluto, che trasmise alle orecchie della Lumaca il sorriso in cui erano piegate le sue labbra. 

«Potrei quasi viverci in un mondo sottosopra.»

Chuuya restò taciturno. Non era arrabbiato e ne fu così sorpreso da sentirsi defraudato di una certezza. 

Se lo Sgombro avesse compiuto un gesto del genere quattro, cinque, sei anni prima, il se stesso di allora lo avrebbe acchiappato e lanciato verso l’interno del tetto, urlando e bestemmiando, pestandolo a suon di calci per scaricare la botta di adrenalina. 

Non fece nulla del genere in quel momento. La presa era salda, l’equilibrio lo gestiva, era sicuro. Sicuro di tutto meno dell’incrinatura del confine tra sé e Dazai. 

C’era sempre stata una muraglia tra di loro, un fosso, una linea a dividerli e, per finire, il tempo che la Terra ci aveva messo a ruotare intorno al Sole per quattro volte aveva sancito un confine spazio-temporale definitivo. 

Quattro anni di silenzio, nel loro mondo, dove un giorno eri vivo e quello dopo no, erano una vita intera. Chuuya quella vita l’aveva passata a trascinare nell’ombra tutti i perché, a posizionare una verità volubile al centro del tavolo e andare avanti. Si era interrogato su Dazai fino a farsi venire la nausea e gli era stata restituita solo la notizia che lui si fosse creato un’altra vita. 

Chuuya aveva capito cosa fossero i legami quando questi si erano stretti intorno al suo collo come i cappi che tanto piacevano allo Sgombro. I suoi compagni delle Pecore gli avevano graffiato la pelle lasciandolo sanguinante; le Bandiere avevano piantato le proprie lapidi nel suo petto, vivendo come fantasmi nelle sue vene; Dazai, invece, aveva stretto la corda, ma mai abbastanza da ucciderlo. Il problema era quello. Aveva lasciato il gesto incompiuto. L’aveva lasciato in sospeso

Quella di essere tornato era un'illusione che si erano creati insieme. Il ritorno di Dazai era una pellicola che continuava un film finito con la sconfitta della Mimic e che non teneva conto dei quattro anni successivi. Chi era rimasto indietro aveva scritto una storia nella propria testa, dove le cose sarebbero dovute andare seguendo un certo copione. 

Tuttavia, il Dazai che aveva varcato la soglia della Port Mafia a ventidue anni era un altro attore. Era bravo. Imitava i propri stessi passi, ma la sua ombra raccontava una commedia diversa. 

«Ehi, Chuuya… penso di avere un po’ fame!»

Dazai tirò su la testa con i capelli completamente scompigliati e la faccia di un ragazzino contento. 

Senza strattoni, la Lumaca lo tirò verso di sé, lontano dal bordo, come fosse stato un gesto abituale. Il sipario calò su quella follia e Chuuya dimenticò i propri pensieri. 

«Andiamo?» propose il rosso, fissando la porta d’accesso al tetto, ma senza metterla realmente a fuoco. Fu il primo a incamminarsi, mani in tasca, la chiara sensazione, da qualche parte sottopelle, che il giorno seguente si sarebbe svegliato diverso. 

Dietro di lui, Dazai lo seguì in silenzio, ma solo per alcuni passi. 

Chuuya sbuffò. 

«Cos’altro c’è, Sgombro?»

«C’è una cosa che non abbiamo mai fatto!» esordì l’ex detective, per poi prendersi il mento con una mano e riflettere meglio. «Cioè, tecnicamente sì, ma non fu il massimo.» 

Le spalle del rosso si abbassarono esasperate mentre buttava fuori uno sbuffo, tornando davanti al partner. 

«Cosa vuoi fare? Le capriole? Bungee jumping?»

Dazai si chinò su Chuuya e lo baciò. 

Un contatto leggero, breve, semplice. 

L’ex detective si rimise dritto e si umettò le labbra di fronte a un Chuuya che sembrava stesse sperimentando per la prima volta cosa significasse realmente la parola sconvolto

«Che cosa significa questo?» 

Il rosso non fu certo che la propria voce avesse davvero funzionato. Dazai lo superò andando verso la porta e gesticolando in movimenti che non avevano senso. 

«Un bacio è un bacio.» 

Si voltò con un sorrisetto che nelle intenzioni, probabilmente, sarebbe voluto essere canzonatorio, ma che fu inquinato da qualcosa di più tiepido. 

«Sono parole tue, te le ricordi? E aggiungerei che quella volta hai detto anche, cito testualmente: non regalo baci. Bacio chi mi interessa. Se ne ho voglia. Se ha valore.» 

Chuuya non era mai apparso così smarrito in vita sua. 

«Andiamo, Lumaca! È farina del tuo sacco! Mi hai dato qualcosa su cui riflettere all’epoca» confessò lo Sgombro ridacchiando. «Vorrei non aver lasciato il cellulare nel tuo ufficio perché hai una faccia che batte tutte le figuracce del tuo repertorio. Dai Chuuya, non volevo sconvolgerti. Ti offro la cena se chiudi almeno la bocca.»

Con due falcate, all’improvviso, e con un’urgenza fatta di pura irruenza, il rosso fu nello spazio vitale di Dazai, che alzò le braccia a difesa. 

«Lo sapevo, ti sei incazzato.»

Chuuya gli afferrò i polsi e li strattonò verso il basso. Costrinse tutti i suoi ventuno centimetri di troppo ad abbassarsi verso di lui e ricambiò il bacio. 

Ricambiò e approfondì come se qualcuno, tastando dentro di lui, avesse trovato l’interruttore giusto e avesse acceso una lampadina di cui aveva ignorato l’esistenza. Il nodo che Dazai gli aveva messo intorno al collo andandosene, Chuuya lo sciolse in quel bacio, tornando a toccare il presente. 

Gli lasciò andare i polsi e portò le mani sul suo viso. Si staccò dalle sue labbra, ma Col cazzo che ti lascio scappare di nuovo

«Ascensore. Appartamento. Il mio. Adesso

   



 

To be continued

 

Saranno le note più veloci del west. È tardissimo, ma dovevo postarlo, per me e per voi che negli ultimi giorni, con i vostri commenti e le chiacchiere, mi avete davvero dato un boost di autostima. 

Ebbene, eccolo, il capito della scena del tetto, per chi ha conosciuto prima questa storia. 

Ed ecco la Soukoku che prende le redini di questo e soprattutto del prossimo capitolo. Trattateli bene, soprattutto Chuuya, che sta per passare l’interno e la sua guida è Dazai, quindi meglio solo che male accompagnato. 

NOTA importantissima: a parte i tanti spoiler a Stormbringer dovuti a Verlaine, in questo capitolo ci sono riferimenti a Dazai, please. il prequel di questa storia! “Un bacio è un bacio ecc”. Consiglio la lettura per capire la base sentimentale di No Longer Flawless! 

Che altro aggiungere… Akutagawa ha spiccato il volo, la sua parabola è iniziata. Atterrerà in piedi? 

Un infinito GRAZIE a Europa91 per la traduzione dei dialoghi in francese! 

E di nuovo un GRAZIE a tutti voi che state seguendo e a chi commenta çWç Mi date davvero tanta forza e soddisfazione! 

Alla prossima!

Vi ricordo che sono su IG come @NoLongerFlawless.fanfic

 

Prossimo capitolo → When Our Worlds Collide (Parte 2) 

 
   
 
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