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Autore: Alebluerose91    05/09/2009    1 recensioni
‹‹Torna presto da me›› gli dissi. ‹‹Promesso›› continuò a sorridermi, con più tristezza, stavolta. Sospirai e gli afferrai la mano. Lui mi rivolse un’occhiata confusa ma gli feci cenno di non parlare. Gli posai il palmo sul mio ventre, carezzandogli le dita. ‹‹Torna presto da me e… da lui››.
Genere: Romantico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A svegliarmi fu il rumore insistente della pioggia che batteva sopra il tetto.

Non ricordo bene perché, ma in quegli istanti di semicoscienza provai una terribile sensazione di angoscia opprimermi il petto e rendere schiavo il mio cuore.

Quella mattina, mentre la pioggia picchiava forte il vetro e lottavo contro la sveglia sopra il comodino, sentivo il mio cuore pesante.

Sapevo che non mi sarei mai voluta svegliare. Ma in quei momenti non riuscivo a ricordarmi perché.

Piano, con lentezza studiata, aprii le palpebre, aspettando che i raggi del sole mi costringessero a richiuderle immediatamente. Con mio stupore non avvenne e fu questo a decidere il mio brusco risveglio.

Era il primo giorno di pioggia dell’autunno appena iniziato.

Stupita e, in qualche modo infastidita, lasciai che la luce ovattata e perlacea mi colpisse gli occhi ancora pesti e insonnoliti.

Odiavo la pioggia, il freddo e il cielo bianco coperto dalle nuvole.

Mugolai qualcosa di incomprensibile, mentre mi gettavo il piumone sopra la testa. Non ero ancora pronta ad affrontare la giornata, e stavo ancora cercando di capire a cosa accidenti fosse dovuto il mio malessere, quella sensazione di oppressione al petto, così forte da non farmi respirare…

Cosa stavo dimenticando, dannazione?

Sbuffai. Io e la mia memoria da vecchia decrepita… E dire che avevo appena diciannove anni!

Lanciai di lato il piumone e mi sedetti di scatto dal letto. Il profumo del caffé mi giunse alle narici e lo inalai il più possibile. Mia madre era sicuramente in salotto a preparare la colazione: quasi automaticamente sorrisi. Era uno dei rituali quotidiani che mi ero portata dietro fino dall’infanzia.

Non ne avrei potuto mai fare a meno; l’odore del caffé la mattina, pungente e amaro, mi riportava alla realtà dopo una lunga notte di sonni turbolenti.

Già, la realtà…

Mi afferrai la testa fra le mani, con l’ennesimo sbuffo infastidito, facendo affondare le dita tra i miei lunghi capelli rossi.

Fu in quel momento che il mio sguardo cadde sullo schermo del cellulare.

Lo afferrai convulsamente e lo portai davanti agli occhi.

Erano le otto e mezza del mattino.

Di quella mattina di inizio Ottobre…

E in quel momento tutti i tasselli della mia memoria andarono al loro posto, ricostruendo quell’ultimo anno, e soprattutto portando a galla il nome più importante della mia vita: Edoardo.

Il dolore che mi scatenò dentro quel semplice nome fu una pugnalata al petto, una stretta alle viscere e un colpo di pistola al cervello.

Ecco perché non volevo svegliarmi. Ecco perché provavo quell’angoscia.

Mi voltai verso l’altra parte del letto, con le lacrime agli occhi.

Ed ecco perché il mio letto era così assurdamente freddo e vuoto, quella mattina, senza il calore del suo corpo a riscaldarlo, come al solito. Senza le sue braccia pronte a stringermi ad una mia piccola richiesta.

No, no Caterina.

Gliel’hai promesso, mi ricordai, niente lacrime.

E allora perché, piccola e dispettosa, quella lacrima cristallina e salata aveva deciso di disubbidirmi, rigandomi la guancia destra? Portava con sé tutto il mio dolore, tutto quello che cercavo di nascondere a me stessa.

Mi portai la mano al ventre, un gesto istintivo.

Edoardo sarebbe partito quella mattina.

E io non potevo più fermarlo. Avrei dovuto, però, parlargli.

Assolutamente.

‹‹Caterina›› la voce di mia madre, attutita dalla porta della mia stanza, mi giunse lontana lontana, quasi come un’eco sordo ed indistinto.

Non riuscivo a sentirla bene, come se io appartenessi ad un altro mondo.

Decisi di farmi forza, però, e di risponderle.

Mi schiarii la gola, ‹‹Dimmi, mamma›› soffiai. Non ero sicura che mi avesse sentito, ma udii la maniglia abbassarsi e la porta cigolare.

Mi investì l’odore del caffé, di nuovo, ma stavolta con maggiore potenza, affiancato da altre fragranze: quella del latte bruciato e il straordinario profumo di mia madre.

Non sono in grado di descriverlo. Era il profumo che amavo di più al mondo, secondo solo a quello di Edoardo, era dolce e sapeva di crema al latte. Mi faceva tornare bambina, quando la osservavo ammirata indossare le calze a velo nere, chiedendomi se anche io, un giorno, sarei stata come lei.

Donna, innamorata e bella, in grado di indossare quelle calze nere e morbide.

La voce di mia madre, un po’ irritata, mi riportò di nuovo alla realtà, scacciando quei ricordi dolci e al contempo amari.

‹‹È tardissimo! Hai idea di che ore siano?›› Il rimprovero nel suo tono marcava ogni sillaba.

La guardai interrogativamente e scossi il capo. Non poteva alludere alla partenza di Edoardo: era a mezzogiorno.

Mia madre sbiancò.

‹‹Non… non hai ricevuto la chiamata?››

Okay, ora mi stavo spaventando sul serio.

‹‹Quale chiamata? Di che parli?›› il mio cuore aveva preso a battere frenetico, come impazzito. Se gli fosse successo qualcosa…

La mia mano tornò a posarsi meccanicamente sul ventre, mentre aspettavo la risposta da mia madre.

‹‹L’aereo di Edoardo è stato anticipato. Parte tra meno di un’ora››.

Sgranai gli occhi e controllai di nuovo l’ora: erano le nove meno un quarto.

Senza capire più nulla mi alzai di scatto dal letto, dirigendomi verso il cassettone dei vestiti. Ne spalancai le ante e afferrai il primo abito che mi capitò a tiro.

‹‹Mi faccio una doccia e vado in aeroporto›› la mia voce suonava spenta perfino a me stessa. Prima che mia madre potesse ribattere mi chiusi in bagno.

Mi spogliai e accesi il getto bollente della doccia. Con lo sguardo basso entrai dentro la piattaforma e richiusi la tenda.

Posai la fronte sul marmo del muro, cercando di calmarmi.

Avevo i minuti contati.

Lo sapevo io e lo sapevano anche le lacrime che uscivano fuori dai miei occhi, incapaci di lavare via tutto il mio dolore, come l’acqua calda che mi pioveva sul corpo, scivolandomi dolcemente addosso e portandosi via tutto il torpore del sonno.

Dopo un quarto d’ora stavo correndo le scale del comprensorio in cui abitavo.

Il portiere mi aprì il cancello e ringraziandolo velocemente uscii dall’appartamento in tutta fretta.

La mia auto distava qualche metro, e mi ci avvicinai già con le chiavi in mano.

Cercavo di pensare il meno possibile. L’unica cosa che contava per me era arrivare in tempo, prima che il suo aereo partisse.

Era arrivato il momento, dunque. Quanti mesi avevo trascorso con l’incubo di quella partenza…

Scossi il capo, cercando di non pensarci più. Entrai in auto, infilai le chiavi e le girai.

Il quadrante si accese e la macchina vibrò, ubbidiente. Immediatamente innestai la marcia e partii, sicura.

Aveva smesso di piovere, ma me ne accorsi appena.

Arrivai all’aeroporto alle dieci e un quarto.

‹‹Cazzo!›› imprecai, sbattendo la portiera della mia auto con violenza. Cominciai a correre velocemente, cercando di ignorare il dolore che mi sconquassava il petto, ma non era per la corsa.

Era crudele, malvagio, godeva nel torturarmi.

Sembrava che tutto il mio corpo avvertisse la vicinanza di Edoardo, come se fossero passati anni anziché pochi giorni dall’ultima volta che l’avevo visto. Il mio cuore rimbalzava frenetico, e sentivo un bisogno incredibile di vedere il suo volto…

Aveva deciso che il giorno prima della sua partenza non ci saremmo dovuti vedere. Mi conosceva, ed era convinto che sarei stata triste tutto il tempo.

Beh, pensai, arrivando al ceck-in, non aveva tutti i torti.

Mi fermai, ansante, cercando di scorgere qualcuno con la divisa militare.

Un moto di pessimismo mi attraversò: se erano già al gate era impossibile raggiungerlo… e io non ero certo tipa che si metteva contro le autorità; di certo per i poliziotti non contava che per me fosse più importante di ogni altra cosa vederlo, perdermi nei suoi occhi, sentire il calore delle sue braccia stringermi forte…

No, non importava a nessuno che avessi una notizia molto importante da dargli.

Stavo già per andarmene via, quando all’improvviso dal ceck-in apparvero degli uomini.

Erano molto alti e piazzati, ma non fu questo a sorprendermi. Avevano tutti la divisa militare.

Il mio cuore perse un battito.

‹‹Edoardo›› sussurrai, con un impeto di emozione.

Mi spingevo tra le persone, non curandomi di essere sgarbata. Non mi importava. Non vedevo nient’altro.

Continuai a cercarlo, disperata, facendomi largo tra quelli omoni troppo cresciuti.

‹‹Edoardo!›› urlai, infine, pregando dentro di me che non avesse già varcato il gate.

E poi… poi lo vidi.

Era lì, accanto al metal detector, si era voltato sentendosi chiamare. Cercò con lo sguardo chi potesse essere stato, anche se credo che in cuor suo lo sapesse già.

Infine, annegai nel suo sguardo color smeraldo, rapita.

La gioia che provai in quell’istante era mista ad una tristezza sconfinata, quasi come i suoi occhi stupendi.

Si voltò, spezzando quel magico incantesimo, e fece segno ai suoi compagni di procedere prima di lui, dopodichè si mise a correre verso di me.

Non riuscii a parlare quando fu davanti a me.

‹‹Caterina, sei qui›› mormorò, carezzandomi la guancia. Sospirai chiudendo gli occhi, a quel tocco. Deliziosi brividi di piacere mi attraversarono il corpo come piccole scariche elettriche.

Senza rispondergli lo abbracciai stretto a me, affondando il volto sul suo petto. Neppure lui disse nulla, stringendomi a sé come solo lui sapeva fare. In quell’istante sentii di aver trovato il mio spazio nel mondo. Ero con lui, ed ero finalmente viva.

Mi sentivo come se tutto il mio corpo avesse preso a vibrare, come se solo in quel momento avessi appreso appieno cosa significasse respirare e avessi colto il vero colore delle cose. Come se sapessi cos’era davvero la vita.

Non era la tipica scena strappalacrime di un film, con tutti quei “ti amo” detti a vuoto.

Non serviva dirlo. Erano solo due parole che non potevano quantificare quello che stavo provando.

Edoardo si staccò dolcemente da me e lo guardai di nuovo dentro i suoi occhi.

Adoravo quando mi guardava così, sentivo le viscere stringersi in una morsa feroce e percepivo la sensazione di essere amata. I suoi occhi erano uno smeraldo lucido e sincero. Non potevano mentirmi, non avrebbero potuto.

Mi sorrise.

E mi bastò.

‹‹Torna presto da me›› gli dissi.

‹‹Promesso›› continuò a sorridermi, con più tristezza, stavolta.

Sospirai e gli afferrai la mano. Lui mi rivolse un’occhiata confusa ma gli feci cenno di non parlare. Gli posai il palmo sul mio ventre, carezzandogli le dita.

‹‹Torna presto da me e… da lui››.

  
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