Giochi di Ruolo > Vampiri: la masquerade
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Autore: Vincentpoe    20/02/2022    1 recensioni
Il dott. Edward Kleizler ha sempre cercato una spiegazione sul perchè esistesse la follia; perchè la gente facesse cose malvage per il solo gusto di farle, e abbracciasse il caos. Le sue ricerche lo hanno spinto ai limiti della moralità, e hanno fatto incrociare la sua strada con i detentori del caos: i Malkavian
Genere: Horror, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Otherverse | Avvertimenti: Violenza
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I ricordi iniziano a farsi più confusi ma mano che il tempo passa. Sono passati quindici anni da quella notte dove tutto cambiò, e da lì in poi non sono invecchiato di un giorno

Ricordo ormai così poco della mia infanzia, e quel che ricordo non è affatto piacevole. La magione dove vivevo era immensa e fredda, piena di posti dove nascondersi da mio padre. Quanto lo odiavo...

Sono l'ultimo della casata dei Kleizler, che vanta una lunga discendenza di neurologi, psichiatri e psicologi, la mente umana era ciò che ci affascinava di più, in particolar modo la sua follia. Il matrimonio tra mio padre e mia madre non fu felice: quest'ultima discendeva da un'antica famiglia nobile di Mosca finita in disgrazia dopo la caduta dell' URSS, e ami nonno facevano molto comodo i soldi di mio padre, uno sporco tedesco. La mia povera madre soffriva di una grave forma di schizofrenia, e le rare volte che andavo a trovarla nell'ospedale psichiatrico di mio padre a stento mi riconosceva, altre volte credeva che fossi ancora piccolo e tentava di attaccarmi al suo seno. Come era bella. Con una madre malata, un padre freddo e assente pilastro della neurologia, e una casa piena di libri, era abbastanza chiaro quale sarebbe stato il mio percorso: a sei anni sapevo elencare tutti le sezioni del cervello, e a otto conoscevo a menadito tutti i neurotrasmettitori che permettono ad un uomo cose come il respirare, il camminare, l'amare... o l'uccidere.

Proprio in uno di quei giorni, nella biblioteca trovai un libro strano, era più pesante degli altri, e non ci volle molto a scoprire che in realtà celava un meccanismo per uno scompartimento segreto; all'interno , vi erano delle fiale di un liquido giallastro che non sapevo catalogare, e un diario; spinto dalla curiosità lo apriì e riconobbi la scrittura di mio padre... e presto la curiosità si trasformò in furia.

Avevo nove anni quando scoprì che mio nonno venne scoperto da mio padre nel trafficare armi per conto della mafia. In cambio del suo silenzio, mio padre chiese di avere come cavia mia madre, per sperimentare i sui farmaci in modi economici ma antietici. Mia madre... non era mai stata malata. Era stata venduta come una cavia da laboratorio da quei maiali con cui condivido il sangue. Una furia incontenibile partì dal mio cuore e mi riempì la mente; bramavo vendetta. Mio nonno era morto da tempo, ma mio padre era ancora in questo mondo, che si ingozzava con i soldi delle sue ricerche, frutto delle barbarie su mia madre; gli avrei dato ciò che si meritava.

Nel grosso giardino di casa avevamo un cane da guardia, un mastino di una razza che non saprei ben specificare, sapevo solo che una volta mio padre lo aveva etichettato con il nome di “Tzmisce”, era privo di pelo, con le zanne lunghe e lo sguardo cattivo; un killer perfetto, ma totalmente fedele a suo padrone. Per due mesi mi dedicai ad estrarre il virus della rabbia da alcune volpi che avevo catturato, finchè non mi si presentò l'occasione perfetta: Una notte mio padre tornò da un galà in città, alticcio e con un escort di alto bordo con cui avrebbe passato la notte; avevo infettato il mastino con la rabbia, e ora attendeva nella sua gabbia, affamato, con la bava schiumante e gli occhi iniettati di sangue; quando mio padre si trovò nel giardino aprì la gabbia, e la bestia schizzò fuori andando incontro a mio padre, che alticcio com'era non pote fare nulla per difendersi. La morte sarebbe stata una benedizione per lui, ma volevo che soffrisse, per cui liberai il mastino solo quando si trovava nelle fasi finali dell'infezione, e infatti il cane morì pochi secondi dopo aver straziato il volto e le mani di quel bastardo.

Finì ricoverato nel suo stesso ospedale psichiatrico, con dei tubi a mantenerlo in vita, e in costante agonia; io ereditai tutta la fortuna di famiglia, e me ne andai in un college, che potesse saziare la mia fame di conoscenza. Non provai mai alcun rimorso per quello che avevo fatto, e forse fu proprio quel giorno che qualcosa di mostruoso dentro di me nacque, prima degli orribili eventi a cui sarei stato testimone e prima dell'Abbraccio che mi avrebbe trascinato in questo mondo di tenebre.

Mi diplomai a tempo record al liceo, e paradossalmente seguì le orme di famiglia, iscrivendomi alla facoltà di medicina, e prendendo una specializzazione in bioingegneria; forse per disprezzo della vita scialba e viziata di mio padre, o forse per ciò che era successo a mia madre, io non mi affezionai mai a nessuno; le ragazze mi venivano dietro, vuoi per la mia fama, o vuoi per i miei soldi, ma io non mi fidanzai mai, non provai mai l'abbraccio appassionato di un'amante, ne il camminare mano nella mano per le strade di Mosca; semplicemente non mi interessava, e non avevo tempo per questo. L'unica persona con cui mi trovavo bene era il mio compagno di studi, un americano di nome Isaac Clarke; egli aveva avuto un passato simile al mio: il padre era un ingegnere che se ne andò di casa anni fa, e la madre era una fervente credente, che sperperò tutti i soldi del college di Isaac per delle promozioni religiose. Il mio pvero amico visse in povertà, studiando e lavorando come tirocinante tecnico nella metropolitana di Mosca, giorno e notte; mi ricordo la felicità che provò quando si laureò insieme a me, come anche il suo dolore quando scoprì di avere l'Huttington, una malattia neurodegenerativa che distruggeva i centri nervosi. Ora eravamo entrambi ricercatori nell'università di Mosca, lui lavorava al progetto per una arto artificiale che potesse sostituire il suo corpo danneggiato, io invece...

...buffo, fosse davvero è tutto uno scherzo; è incredibile come io odiassi mio padre, eppure abbia seguito le sue orme e le sue ossessioni per la la follia; già la follia. Dentro ognuno di noi vive un mostro, e io volevo portarlo alla luce per capire cosa generasse l'oscurità dentro di noi, vedere con i miei occhi quel mostro e curarlo, e infatti lavoravo ad un siero, basato sulle ricerche di mio padre, che potesse portare in superficie la follia, in modo da venire curata direttamente con la psicoterapia. Ovviamente il campus non accolse molto bene la mia idea, considerandola antietica, e non mi diedero i fondi per iniziare la sperimentazione. Le mie giornate passavano grigie ad aiutare Isaac con i suoi progetti, e ad insegnare neurofisiologia ad una classe di ventenni troppo distratti dal tumulto delle loro giovani vite, e fu in quel periodo che la mia vita sembrò avere una parvenza di normalità: cominciavo ad uscire la sera, andavo al cinema con i miei colleghi, ci stava una dottoranda del campus che stava sempre con me, era molto carina e gentile, e iniziai a pensare che fosse una vita normale senza inseguire le proprie ossessioni non fosse poi tanto male, e intanto il siero a cui avevo dedicato parte della mia vita stava a prendere polvere nella cassaforte, e forse era meglio così . Poi una sera cambiò tutto, Venne un uomo, un agente governativo, con un lungo impermeabile nero, gli occhiali scuri, e un grosso distintivo dei servizi segreti; sotto l'impermeabile, si vedeva, portava una grossa pistola. Mi offrì uno scambio, avrei ricevuto fondi per il mio siero, se in cambio avessi costruito per loro un acceleratore di particelle, capace di emettere una luce della stessa frequenza dei raggi solari, e alla mia domanda su cosa servisse, liquidò dicendo che il governo avrebbe voluto utilizzarlo per le colture idroponiche in Siberia.

La mia ossessione tornò: lavoravo giorno e notte al progetto, che si rivelò comunque stimolante, mi diedero infatti un'ala del campus tutta mia, con strumentazioni nuovissime, e un equipe di ingegneri preparatissimi; l'unica cosa strana era che il reparto era pieno di guardie armate. Ma non di teaser o di pistole, ma di fucili d'assalto, con il colpo in canna e la sicura disinserita; per la mia insana passione ricominciai a trascurare gli amici e i colleghi, dando spesso buca a quella dottoranda, o non potendo aiutare Isaac nei suoi progetti. In pochi mesi fini l'acceleratore ed ero pronto a vedere come funzionasse, ma avvenne il primo fatto strano; mi impedirono di assistere alla prima sperimentazione, malgrado fossi l'ingegnere a capo del progetto, liquidandomi dicendo che ci fossero in gioco affari di Stato. Lì mi sentì tradito, ma tanto conoscevo il campus come le mie tasche, e non mi fu difficile requisire un badge di uno dei tecnici e intrufolarmi nel laboratorio.

Ho ancora i brividi di quello che vidi quella notte. Le guardie armate portarono un uomo pallidissimo, avvolto in una spessa camicia di forza e con diverse catene di acciaio, che cercava di liberarsi, e ci vollero diversi uomini per tenerlo fermo gli agenti lo posizionarono sotto l'acceleratore e lo accesero. I raggi luminosi colpirono la pelle del malcapitato, che iniziò a contorcersi, in preda a dei dolori pazzeschi; le sue carni bruciavano,i bulbi oculari gli esplosero come delle uova al tegamino, e in pochi secondi dell'uomo non rimase che un mucchio di cenere, e un terribile fetore di bruciato nell'aria.

Ci volle un miracolo affinchè riuscissi a tornare nel mio studio senza farmi scoprire, appena entrato vomitai la cena sul pavimento, mi rannicchiai in un angolo, ero in iperventilazione, sentivo il cuore che mi batteva a mille. Avevo assistito ad un esecuzione in piena regola, con una macchina che io avevo costruito; quell'uomo poteva essere un assassino, uno stupratore, ma anche la persona più malvagia di questo mondo, neanche mio padre, si meriterebbe una fine tanto brutale. Della notte ricordò assai poco, ma capì perchè esisteva la follia, è quel guscio che permette di proteggere la nostra anima dagli orrori di questo mondo, facendoci diventare noi stessi degli orrori; questo spiega perchè feci quello che avrei fatto.

Mi risvegliai la mattina successiva, nel cortile del campus, con i vestiti malandati, con dei ricordi molto sbiaditi di cosa fosse successo quella notte; mi sentivo debole, come se avessi donato il sangue, e controllando la pressione e i battiti mi accorsi di come quelli fossero calati. Mi vestì contro voglia e uscì per andare a lezione, quando mi si parò davanti il caos; diversi poliziotti camminavano nei corridoi, facevano domande a studenti e professori, che erano visibilmente scossi. Mi venne incontro Isaac, zoppicando, la malattia era progredita negli ultimi mesi. Mi disse che c'era stato un omicidio nel campus, e mi tornò alla mente la macabra esecuzione al quale assistetti la scorsa notte. Vidi che la polizia che stava portando via un corpo coperto da un telo, e pensai che fosse strano, perchè gli agenti del governo avevano disintegrato il prigioniero; mi avvicinai e aprì il telo nella quale il corpo era avvolto, mi mancò l'aria nel vedere che il corpo apparteneva alla povera Bekka, la dottoranda con il quale avevo stretto un rapporto negli scorsi mesi; il suo volto era tumefatto dai lividi, e delle profonde escoriazioni violastre le circondavano il collo; era stata picchiata e strangolata a morte. Indietreggiai scioccato, e Isaac mi venne vicino cercando di rincuorarmi. Risposi quasi meccanicamente alle domande che mi fecero gli agenti, che giustificarono la cosa come frutto del mio shock; le lezioni per quel giorno erano state sospese, e mene torni nella mia stanza. Una serie di emozioni contrastanti che anche adesso, a distanza di anni faccio fatica a descrivere, mi investì: che cos'era successo la scorsa notte, chi poteva aver ucciso Bekka, che cos'era quella cosa che gli agenti portarono nel laboratorio. Mentre mi facevo queste domande nel bagno, dove avevo aperto il rubinetto dell'acqua per calmarmi, sentì qualcosa nella mia tasca. C'erano delle foto Polaroid, forse di Bekka, che era appassionata di fotografia, e spesso mi dava delle foto di noi quando uscivamo.

Poi mi accorsi che erano ancora calde e appiccicose... di sangue. Nelle foto si vedeva Becca, nuda, legata al suo letto, con il corpo tumefatto di tagli e lividi, e nell'ultima si vedeva una figura, che aveva deciso di immortalarsi nell'inquadratura con l'ormai cadavere di Bekka; una figura dai tratti scimmieschi, con gli occhi gialli, e un sorriso folle... e con i vestiti che indossavo l'altra sera.

Mi caddero le foto a terra, e iniziai a non respirare, sentivo come un bisbiglio nelle mie orecchie, come se qualcuno cercasse di parlare ma si trovasse imbavagliato; alzai lo sguardo nello specchio e allora lo vidi, quello che fino ad oggi vedo ogni volta che guardo il mio riflesso.

“ciao Eddie” disse la figura curva, dai tratti animaleschi e gli occhi gialli che mi fissava dal riflesso. Emisi un urlo e caddi all'indietro, mentre mi toccavo spasmodicamente il volto. Lo tastai attentamente ma era il mio volto di sempre, non quella mostruosità nel riflesso,

“mostruosità a chi?”, mi rimbombò la voce nelle orecchie. “dovesti essere più gentile con me Edward, del resto, sono la tua migliore creazione”

-tu non sei reale! Tu non sei reale!- sbraitai

“non sono reale dici? Aspetta che te lo dimostrò”e con orrore vidi la mia mano mutare, assumere un aspetto scimmiesco e colpirmi con forza il viso.

“sono abbastanza reale ora, Eddie? SONO ABBASTANZA REALE?” sbraitò la voce nella mia testa, mentre riprendere il controllo della mia mano; in quel momento mi accorsi di provare un lieve fastidio al braccio. Sollevai una manica, e scoprì di avere un lieve gonfiore al braccio, al centro del quale vi era un piccolo segno rosso... la puntura di un ago... Oh no, non può essere, non posso averlo fatto davvero. Mi preciptai verso la cassaforte e la aprì, presi il portaprovette con all'interno le fiale della mia formula; ne contai dodici. Sarebbero dovute essere tredici.

Di un tratto ricordai con precisione tutto quello che accadde quella notte: l'esperimento, l'esecuzione, i raggi che bruciavano la pelle di quel povero uomo, il terrore che avevo provato, e il gesto folle di iniettarsi il mio farmaco per fare fronte alla paura, lasciare che la follia facesse un involucro sulla mia debole mente, e io dimenticassi tutto. Aveva funzionato, ma con conseguenze impreviste; non solo aveva generato una seconda personalità in me, ma quando essa prendeva il sopravvento, avveniva una mutazione psicofisica del mio corpo, che si adattava a quella mente più primitiva, assumendo tratti animaleschi. Quanto sarebbe durato? Ore, giorni, settimane? Sarebbe stato permanente? Mi sforzai di usare la razionalità; nessun farmaco ha un effetto limitato, prima o poi l'organismo lo espelle, dovevo soltanto attendere... ma per quanto.

Fu mentre ero trascinato da questo turbinio di pensieri che qualcuno bussò alla mia porta; la prima volta non dovevo averla sentita, poiché me ne accorsi soltanto quando una voce familiare mi chiamò e bussò con più insistenza. Nascosi le foto nella cassaforte, e coprì con la camicia il segno della puntura, andai ad aprire, e mi ritrovai davanti l'agente governativo. Parlava con una voce quasi melliflua, spiegandomi che i suoi superiori erano molto soddisfatti del mio lavoro, e che quella sera stessa mi avrebbero voluto a capo per una nuova sperimentazione, questa volta su un candidato umano, per testarne le proprietà cliniche in ambito radioterapico.

“oh che bello,un nuovo omicidio, sarà affascinante”

Rimasi impassibile e accettai con molta fretta l'invito, congedandomi subito dopo. Se non andrò alla sperimentazione questa sera, ciò potrebbe risultare sospetto, devo levarmi di dosso questo problema dell'acceleratore, così da poter avere i fondi per iniziare la sperimentazione, e trovare al più presto un antidoto

“oh vuoi curarmi, Edward? La voce emise una fragorosa risata. “pensi di potermi mettere in un cassetto e dimenticare tutto? Povero illuso, io sono sempre stato qui, e sarò sempre qui, perchè io sono il vero te. Non si scappa dalla follia buahahahahah”

Quella notte, portarono un'altra cavia, un signore sulla cinquantina dai lunghi capelli grigi, la pelle pallida e gli occhi iniettati di sangue. Che strano,mi pareva di averlo già visto da qualche parte. Feci finta di mostrarmi sorpreso dalla camicia di forza e dalle catene, e gli agenti replicarono dicendo che il paziente soffriva di un grave tumore cerebrale che lo aveva reso rabbioso; non replicai, e inizia a preparare la macchina, davo ordini con fredda matematica, cercando di ignorare la voce.

“secondo te quanto soffrono una volta che la luce si accende? Avrai letto da bambino quei libri dell'occulto che teneva la nostra folle mammina, sui mostri che vengono di notte a succhiarti il sangue vero?sei sempre stato così pragmatico e razionale, ma dimmi, cosa ci trovi di razionale in tutto questo?”

La ignoravo, come cercavo di ignorare il paziente, che incuriosito non mi staccava i suoi occhi rossastri di dosso; ormai ero quasi pronto a sparare con l'acceleratore...

e poi si scatenò l'inferno. La luce andò via e rimanemmo al buio, inziai a sentire voci concitate, urla spari; quando le luci di emergenza si accesero li vidi: delle persone erano entrate nel laboratorio, e avevano iniziato a massacrare i soldati e gli operatori; si muovevano velocissimi, ghermivano i loro avversari con una forza sovrumana e gli spaccavano le ossa con la stessa facilità con cui si sarebbe potuto accartocciare un foglio di carta. Alcuni di quelli liberarono il prigioniero dalle sue catene, che saltò sulla gola dell'agente governativo, straziandogliela con un morso. Mi fissò e sorrise. Sentì una strana sensazione, come se la paura che stessi avendo si fosse trasformata nel panico più folle; lanciai un urlo terrorizzato, mentre anche la voce nella mia testa alternava le urla alle risate.

“questo si che è proprio divertente”

Ormai avevano quasi massacrato tutti nella stanza,afferrai una pistola delle guardie e schizzai fuori nel corridoio, cercando di mettere più ostacoli possibili tra me i miei inseguitori, arrivai nel mio ufficio, ,chiusi la porta a chiave e la sbarrai con la libreria. Sentivo quegli esseri correre e urlare per tutto il laboratorio, cercando un'entrata per il mio ufficio, uno di essi si abbatte contro la porta, e sentì gli infissi inclinarsi, attaccò una seconda volta e la libreria tremò. Ero come un topo in trappola,in attesa di essere mangiato dal gatto famelico, almeno che...

“cominci a capire Eddie, serve un mostro per abbattere un altro mostro. Lasciali a me, li scaccerò via, risolverò tutti i tuoi problemi, devi soltanto lasciarmi uscire, solo un'ultima dose”.

Afferrai una delle fiale e me la iniettai nella gamba. Fu una sensazione strana, come se il sangue mi stesse schiumando nel cervello, la mia mente si allontanò dal mio corpo, che divenne una figura ingobbita, dai lunghi e disordinati capelli neri,il volto deforme e i denti simili a quelli di un primate. Non ero più io a governare le mie azioni, ero solo uno spettatore, ora ci stava quell'altro al posto di guida.

“ E comunque, puoi chiamarmi Mr Creeplsey” replico il mio alter ego. Egli afferrò tre bisturi con la mano sinistra, e puntò la pistola contro la porta, quando essa si spalancò, e i miei inseguitori irruppero, Creepsley sparò un colpo, che andò a centrare dritto in fronte uno dei miei carnefici, a un altro scaraventò con forza la sedia della mia scrivania, ma questi con un colpo di mano la mando a sfracellarsi contro il muro, e balzò su Creepsley, ghermendolo con le mani, ma questi con rapidità piantò i tre bisturi nell'occhio dell'aggressore, che lo lasciò andare. Sembrava che gli venisse quasi naturale combattere, come se fosse puro istinto di sopravvivenza, senza paura o emozioni a frenarlo, ma questa sua attitudine non ci avrebbe salvati poichè i nostri aggressori erano in maggior numero e molto più forti, e stavano per saltarci addosso, riducendoci a pezzi.

-fermi- urlò tutto ad un tratto quello che era prigioniero; sembrava essere il capo del gruppo, visto che tutti obbedirono immediatamente, smettendo di attaccarmi. Mi accorsi che tutti gli aggressori mi ringhiarono, esponendo dei lunghi canini da predatore. Creepsley prese a ringhiare a sua volta. Il capo si avvicinò, e Creepsley gli mandò un sorriso di scherno.

-vuoi essere il primo a crepare, vecchio?- ringhiò

il vecchio non si scompose, e anzi mi guardò con curiosità – Lei è unico dr Kleizler, pochi mortali possiedono un potere simile, e quasi nessuno osa mai sfidare noi Cainiti, e nessuno vive mai per raccontarlo. Ma noi siamo Malkavian, siamo attirati dalla follia, e tu, creatura, sei pura follia. Ti offro un patto; unisciti a noi, abbraccia la notte e vivi come un membro dl nostro clan, e noi non ti uccideremo-

Il sorriso di Creepsley si allargò ancora di più, e dalla nostra gola partì una risata isterica

-Accetto- replicò Creeplsey.

-No cosa fai?. Dissi

Lo guardo di Creepsley mi perforò, guardandomi attraverso il riflesso di mille vetri rotti.-ancora non hai capito Edward? Io sono il male in persona, il predatore fra gli uomini, ma loro... loro sono i predatori dei predatori; i padroni della notte, e io non voglio avere predatori. IO NON SONO DEBOLE! e te o dimostrerò-.

Creepsley aprì le braccia, come in segno di invito, e il vecchio ci si avventò addosso; il mondo cominciò a farsi offuscato, e l'ultima cosa che sentì fu la risata rauca di Creepsley trasformarsi in un grido di agonia, mentre il volto del vecchio incombeva su di noi, facendoci bere il suo sangue, e fu allora che ricordai dove avessi visto il vecchio, in uno dei libri di medicina di mio padre. Il suo nome fuoriuscì nella mia memoria, e fu l'unico pensiero logico prima che il buio ci inghiottisse: Dr Sakkarj Listratof, morto nel 1952.

sono passati quasi quindici anni da quel giorno. I giornali liquidarono quello che successe quella notte come un incendio scatenato da un qualche esperimento finito male, e io venni dato per morto. Morto in effetti lo sono; ora sono un vampiro, una creatura della notte che vive nutrendosi del sangue di altre persone, non posso uscire la mattina, poichè i raggi del sole brucerebbero le mie carni, rendendomi un mucchio di cenere in poco tempo. Per proteggermi dal sole, ho riadattato proprio quei laboratori dove sarei dovuto morire, riattivando i macchinari medici, e costruendo dei sistemi di difesa nel caso qualcuno venisse a cercarmi; si, perchè pur essendo un predatore, qualcuno mi sta dando la... CI sta dando la caccia; qualcuno è interessato a lui, a ciò che può fare, a ciò che è. Alcune volte mi sveglio e scopro di aver perso un paio di giorni, a volte ho del sangue addosso, o sparso nel laboratorio, altre volte mi sveglio in altre parti di Mosca, nelle giornate peggiori mi risveglio con accanto dei cadaveri ancora caldi, svuotati del loro sangue, e' quell'altro che i lasci delle sorprese, perchè io fra i due sono ancora quello vagamente umano. Lo rivedo quasi sempre nei miei incubi, quella creatura scimmiesca e primitiva che mi schernisce, perchè mi controllo, evito di uccidere quando non è necessario, mi nutro di sacche di sangue rubate dagli ospedali. Per ora sono io ad avere il controllo, ma per quanto ancora? Io sono solo l'ombra di una vecchia vita da sciocco mortale, e lui è il prossimo gradino dell'evoluzione .

Questo è lo scopo della follia, sopravvivere

   
 
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