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Autore: FiloRosso    24/02/2022    0 recensioni
Se non siete amanti dei racconti post apocalittici, dei mangia-carne e non amate le imprese stoiche di alcuni sopravvissuti...be' allora questa storia non fa per voi.
-Tutti abbiamo una storia.
La fine del mondo è iniziata, per ciascuno di noi, all'improvviso. Ma non ha spazzato i ricordi del passato.
Ci siamo lasciati alle spalle morti, cari, persone a cui volevamo bene. Qualcuno si è anche sacrificato per darci la possibilità di sopravvivere. Non è giusto dimenticarli così.-
Genere: Erotico, Horror, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Sovrannaturale
Capitoli:
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Corri e sopravvivi.

 

L’apocalisse la immagino come un blocco, un gorgo, un nodo

dove il tempo non riesce più a passare.

Fiumi, onde e nuvole si fermano,

il sangue scorre al contrario,

il domani si capovolge nel passato.

Al di là del mondo ci guarda l’eternità,

ma non riesce a salvarci.

 

                                                             3.

                                                  

«Ci siete?», Ervin sollevò Luis per una spalla e con un’occhiata ordinò a Joseph di afferrarlo per le gambe. Intanto Kael si metteva attorno alla nuca l’altro braccio dell’uomo ferito. 

«Noi siamo pronti», rispose Joseph, poi guardò alle sue spalle in direzione di Alisha, «E voi?».

La donna annuì.

Avevamo recuperato alcuni piedi di legno dalle sedie e un paio di forbici appuntite.

Seppur fosse poco, ci sentivamo armate fino ai denti.

«Ok, andate», proferì l’uomo. Velocemente, Alisha ed io scavalcammo il parapetto e con cautela poggiammo i piedi nello spazio libero della scala antincendio.

«Quando siete pronti, potete far passare Luis.»

Il tempo stringeva. Collins incominciava a mugugnare, si stava svegliando.

«Ervin, sei certo di volerlo lasciare qui?» Alisha fissò suo marito dritto in faccia, mentre quest’ultimo sollevava con tutte le forze la schiena di Luis sul parapetto aiutato da suo figlio.

«Ci penseremo una volta che Luis arriverà a terra», rispose e si voltò verso Carmen «Come vanno le cose lì?».

La ragazza fissava sgomenta la porta, come se da un momento all’altro potesse succedere l’irrimediabile.

«Stiamo facendo troppo chiasso, ci hanno sentiti.», strinse maggiormente la presa sul pezzo di legno che aveva fra le dita.

«Merda.» Ervin tornò a rivolgersi a sua moglie «Diamoci una mossa.»

Mentre lui e suo figlio facevano scorrere, a qualche centimetro di distanza dal cemento, il busto di Luis, Alisha ed io allungammo le mani sotto le sue spalle.

«Ok, Karina. Al mio tre.» Trassi un lungo respiro. «Uno. Due. Tre!» Con tutte le forze tirai l’uomo verso di me.

Kael saltò sul parapetto e poi oltre, sullo spazio libero della scala«Fate piano.». 

Attese che Joseph lasciasse i piedi dell’avvocato e afferrò una gamba. Un attimo dopo anche suo padre era sul parapetto e stringeva la gamba opposta.

Con estrema accortezza, molto lentamente, scavallarono il parapetto.

Fu il turno di Carmen e Joseph.

«Un momento, fermi.» Ordinò Ervin all’uomo sollevando un palmo a mezz’aria.

La scala scricchiolava leggermente ed ogni volta che qualcuno di noi si muoveva, anche di pochi millimetri, finivamo per tremare insieme ad essa.

Joseph si immobilizzò sul posto guardando in basso, oltre le piccole fessure nel ferro della grata sotto i nostri piedi,

«Sono decisamente più di due metri da questo piano. Se cadiamo…», deglutì.

«Non cadremo. Adesso taci e datti una mossa», ringhiò da dietro le sue spalle Carmen.

«Joseph afferra i piedi di Luis».

Jo aggrottò la fronte «In cinque per sollevare un uomo solo?»

«Fa come ti ho detto!»

Kael e suo padre lasciarono andare la presa sulle cosce di Luis per dedicarsi alle spalle al posto nostro.

«Carmen, Karina, Alisha, voglio che restiate davanti a noi. Siamo disarmati e con Luis per le mani non possiamo fare molto.»

Annuimmo all’unisono.

Potevamo farcela, o almeno così continuava a ripetersi ognuno di noi.

«Andiamo», proferì Alisha precedendo me e Carmen.

La seguimmo velocemente.

La scala era ripida e guardare di sotto metteva i brividi.

Dal terzo piano l’asfalto sotto di noi sembrava ancora più lontano di come lo ricordassi.

«Ci siete ragazze?»

Alisha ci camminava davanti. Le braccia larghe, una mano stretta attorno al piede di legno della sedia, l’altra sul corrimano di ferro.

«Si, qui dietro è tutto apposto.»

Guardai oltre la mia fronte: Kael e il resto del gruppo erano ad una rampa di distanza sopra le nostre teste.

Se la stavano cavando bene tutto sommato.

«A che piano siamo?», tentai di sporgermi dalla ringhiera ma una vertigine mi fece ritirare in fretta.

«Siamo quasi arrivate manca poco.», ci informò Alisha.

Dopo un’altra manciata di passi, finalmente incominciavo a vedere il marciapiede sotto di noi sempre più vicino.

Strinsi le dita sottili attorno all’impugnatura di un paio di forbici che tenevo allacciate alla vita da dentro la molla della gonna.

Ad un tratto, qualcuno degli uomini perse l’equilibrio.

La scala oscillò vertiginosamente per un istante. 

«Va tutto bene! Sono inciampato», ci informò Jo sporgendosi dalla ringhiera, abbozzando un sorriso imbarazzato.

Carmen fece una smorfia.

«Che buono a nulla…», distolse lo sguardo e seguitò alle spalle di Alisha.

A tanto così dal toccare terra, improvvisamente, una sgommata di pneumatici fece balzare indietro la madre di Kael. Un fragore di vetri rotti e ferro scricchiolante scoppiò attorno a noi. Un’auto si era schiantata esattamente contro l'ultima rampa della scala accartocciando un pezzo di ringhiera. In un battito di ciglia la scala si inclinò pericolosamente sbalzandoci tutti di lato.Una colonna di fumo, ora, oscurava quasi del tutto la nostra visuale. Non so come, ma mi ritrovai aggrappata con tutte le forze alla ringhiera: ero quasi sospesa nel vuoto.

Deglutii a fatica «State tutti bene?».

Non potevo muovermi, o non volevo. Temevo che spostando, anche solo la testa, quella dannata scala sarebbe piombata nel vuoto.

Ogni muscolo del mio corpo era contratto, duro.

«Si, credo», mormorò Carmen schiacciandosi contro uno dei gradini della scala, abbracciandolo come fosse un cuscino di piume.

«Alisha?».

La donna, che si era ritrovata miracolosamente a sedere su un gradino, continuava a fissare intensamente la voluta di fumo e il muso della vettura ad una spanna dai suoi piedi. 

«Alisha, stai bene?», chiesi ancora.

Esitò per un istante,«S-Si, sto bene.»

Mi convinsi a sollevare la testa. 

«Lì su?».

Ervin fece passare il viso attraverso la ringhiera «Siamo tutti interi.»

Si rivolse poi agli altri: «Avanti, cerchiamo di tornare in piedi». Il suo viso sparì dalla mia vista, un attimo dopo.

Potevo sentirli parlare due gradinate sopra di noi. Mi consolai per un istante.

Per fortuna nessuno era volato di sotto. 

«Da dove cazzo è spuntata quell’auto?»,ma adesso avevamo un altro grosso, - grossissimo -, problema.

Gli occhi di Carmen scavavano nella stessa direzione di quelli di Alisha.

Non ero sicura di voler sapere cosa stessero guardando.

Mi allontanai cautamente dalla ringhiera cercando di trovare stabilità nelle mie gambe.

Una volta arrivata ad una spanna dalla spalla di Alisha, si piazzò davanti ai miei occhi il peggio.

Dentro l’auto che aveva disastrosamente accartocciato l’ultima rampa di scale, c’era un occhi rossi. Un uomo sulla cinquantina, con il viso maciullato di morsi, che digrignava i denti graffiando l’aria.

Per fortuna, stretta al petto, aveva la cintura di sicurezza.

«Noi possiamo salire sul cofano, ma loro…», Carmen alzò lo sguardo oltre la sua testa. Era già un miracolo che Ervin e gli altri non fossero volati al di là della ringhiera quando la scala si era appesa da un lato; non sarebbero riusciti a trasportare Luis dall’altra parte, specie perché il parabrezza dell’auto era esploso e quella maledetta bestia riusciva a sporgersi fuori più del dovuto. Nonostante la cintura di sicurezza gli stesse praticamente seghettando la pelle in due non sentiva nulla. 

Lo scrutai rabbrividendo. Dal morso sulla sua guancia potevo vedere i suoi denti e pezzi di pelle dondolare attorno.

«Ci riusciremo, ok?», proferì Alisha con una certa sicurezza, ed una punta di nervosismo nella voce «Dobbiamo solo capire come.»

Mi chiesi se veramente ci saremmo riusciti.

                                                 ॥

«Avete trovato il modo? Ce l’avete fatta?», chiede Mel scrutando ogni piccola ed impercettibile smorfia sulle mie labbra.

«Si, alla fine, ma non come speravo.» 

«Che vuoi dire?»

I miei pensieri si inclinano sotto la durezza di quel ricordo.

«Che non credevo nessuno di noi capace di spingersi così tanto oltre.»

                                                   ▶

Quando Ervin e gli altri riuscirono a raggiungerci, la scala si appese maggiormente. Un sussulto del ferro ci fece rimbalzare verso il basso. Si sarebbero staccati anche gli ultimi perni, era questione di attimi.

«Merda», Kael guardò oltre le nostre schiene, in direzione dell’uomo dentro l’auto.

Era cosciente che salendo assieme a suo padre sul parabrezza, uno di loro, il più vicino al lato guidatore, sarebbe stato morso. L’unico modo per scavallare il cofano era passarci sopra uno alla volta.

«Ci faremo scivolare lungo il cofano», disse Ervin concentrando lo sguardo sul pezzo di ringhiera conficcato nella carrozzeria dell’auto.

Fra esso e il parabrezza esploso c’erano meno di trenta centimetri. Una persona alla volta sarebbe riuscita a passarvi in mezzo e a poggiare i piedi sull’asfalto, il problema sarebbe stato solo trascinare Luis senza provocargli altro dolore.

Quando l’urto aveva fatto piegare la scalinata, cadendo, Joseph gli era finito sulla caviglia ferita. Non ebbi il coraggio di constatare con i miei occhi come fosse ridotta ma da come ne stava parlando Ervin non doveva essere messa bene, anzi, la situazione era peggiorata. Luis aveva perso i sensi: ora era appeso fra le loro braccia come un sacco di patate con la testa penzoloni.

Mi accovacciai a sedere su un gradino, le mani a sorreggere la fronte.

«Karina, va tutto bene?» Sollevai lo sguardo verso Alisha, nonostante l’avessi davanti avevo l'impressione di non riuscire a vederla.

«Credo di sì.», mentii.

Mi sembrava di essere sprofondata all’inferno. Ero sprofondata all’inferno!

Stavo per tirare fuori una scusa e lasciarli proseguire senza di me. Avevo bisogno di calmarmi e magari di svegliarmi da quell’incubo, ma poi mi voltai verso Kael.

Lui aveva scelto di vivere. I suoi occhi, il suo cuore e la sua mente stavano lottando: non si sarebbe arreso, non così.

«Cosa state aspettando?», protestò Carmen.

Ervin, come un po’ tutti, la ignorò «Quando sei pronta, faremo un tentativo.» Per la prima volta, l’uomo che aveva mantenuto una certa compostezza fino a quel momento, mi aveva guardato comprensivo.

Annuii, sollevandomi dal gradino inclinato da un lato.

In quel momento, ebbi l’impressione che nessuno della famiglia Brayton avrebbe lasciato gli altri indietro, a meno che non fosse stato costretto. Dovevamo restare uniti, solo così ci saremmo salvati.

«Andrò prima io.», disse Alisha con determinazione.

La donna si tirò sui gomiti le maniche del suo cardigan blu e infilò il pezzo di legno della sedia nella tasca posteriore del jeans.

«Pronta?», domandò Carmen aiutandola a salire sul cofano dell’auto.

Annuì.

Quando la belva si accorse di lei, incominciò a graffiare la carrozzeria, sporgendosi dal sedile ripetutamente.

Alisha trattenne il respiro. Si accovacciò, aggrappandosi allo spazio di ringhiera conficcato nella carrozzeria, e scivolò oltre.

Sospirammo di gioia, non appena i suoi piedi planarono sull’asfalto.

«La prossima?»

Carmen ed io ci guardammo. 

«Vado io», disse spostando lo sguardo da me ad Ervin.

Con il pezzo di legno stretto fra le mani, salì sul cofano, si schiacciò contro la ringhiera e l’agirò prima con una gamba e poi con l’altra, poggiando i piedi negli spazi vuoti del ferro. Una volta sospesa a mezz’aria, con le braccia attorno al corrimano, si diede uno slancio e con un balzo raggiunse il marciapiede.

«Più semplice di come pensassi», mormorò scrollando le spalle.

«Non cantar vittoria», borbottò Joseph «Adesso viene la parte difficile.»

Mancava Luis e tutti noi.

Ervin si piegò sulle ginocchia adagiando Luis a terra. «Andate prima voi», disse rivolgendosi a me e suo figlio «Faremo scivolare Luis spingendolo dalle spalle e intanto voi, Alisha e Carmen, lo solleverete di peso prima dai piedi e poi per la schiena.»

Poteva funzione. Doveva funzionare.

Kael annuì.

«Avanti, proviamoci.» Non credetti alle mie orecchie quando pronunciai quella frase. Avevo ritrovato un confortevole senso di speranza e un pizzico di coraggio che non pensavo di avere. Non in quella circostanza. Forse, vedere Carmen e Alisha dall’altra parte della gabbia di ferro e fumo mi aveva dato un motivo per rialzarmi.

Mi avvicinai al fanale anteriore dell’auto. 

“Posso farcela. Posso farcela”.

Socchiusi le palpebre e con il cuore in gola afferrai la mano di Kael.

Mi aiutò a salire sul cofano che si abbassò leggermente sotto il mio peso.

Senza perdere di vista l’uomo furioso, imprigionato nell’auto, mi abbassai sulle ginocchia, afferrai la ringhiera e tenendomi a debita distanza, scivolai oltre i rottami fumanti.

Kael fece lo stesso e muovendosi agilmente non ebbe nemmeno bisogno di accovacciarsi a sedere.

«Pronti?», annuimmo. Adesso arrivava la parte più difficile.

Ervin protese le braccia in avanti spingendo la schiena di Luis sulla carrozzeria, direzionando le sue gambe verso la parte libera tra parabrezza e ringhiera.

Muovendoci in fretta, Alisha afferrò un polpaccio e Kael l’altro.

«Ok, ci siamo!»

Ero dietro di loro: non appena avessi visto le gambe di Luis raggiungere l’asfalto le avrei dovute sollevare. Dovevamo fare attenzione.

Ervin si sporse sempre più sul cofano dell’auto, continuando a muovere il corpo di Luis come un involucro inanimato.

Joseph, dietro di lui, fremeva dalla voglia di superare l’auto. Guardava la strada, oltre quella gabbia immaginaria creata dalla lamiera della vettura contro la gradinata, come se stesse aspettando il momento per correre lontano.

«Non potete fare più in fretta?», disse ad un certo punto sporgendosi oltre Ervin. Il padre di Kael si voltò e gli rifilò un’occhiata torva.

«Dacci una mano», ringhiò «invece di startene lì a braccia conserte.»

Jo sbuffò.

«E’ fatta. E’-»… Parlammo troppo presto. Il corpo di Luis pesava più di quanto nessuno di noi quattro si aspettasse.

Una volta che anche il busto fu fuori dal limite dell’auto perdemmo la presa.

Luis scivolò a terra ed io di ginocchia accanto a lui.

L’auto si sollevò di colpo. Un suono raccapricciante di pelle lacerata sovrastò tutto il resto.

Il braccio di Ervin venne afferrato dalle mani intrise di sangue del cinquantenne ormai non più umano.

La cintura gli era praticamente penetrata nella pelle e lui era con il mezzo busto fuori dal parabrezza. Per fortuna le gambe erano ancora bloccate contro il cruscotto.

«Ervin!»

Joseph afferrò le sue spalle cercando di trascinarlo verso sé, ma l’essere non aveva nessuna intenzione di lasciarlo andare, piuttosto gli avrebbe staccato il braccio per poi divorarlo come antipasto.

A quel punto, c’erano solo due cose da fare: lasciare Ervin lì o uccidere quell’uomo.

Il padre di Kael scelse la seconda.

«Karina, le forbici!», gridò.

Guardai l’impugnatura fare capolino dalla mia gonna, l’afferrai e gliele feci scorrere sul cofano dell’auto.

Ervin le raccolse e con un gesto rapido, colpì l’uomo alla gola.

Sbarrai gli occhi: non solo perché uno spruzzo di sangue mi schizzò addosso, ma perché quel mostro non era morto.

NON ERA MORTO.

Continuava a grugnire e a conficcare le unghie nella carne di Ervin.

Lo stesso era sgomento.

Se colpendoli anche in punti vitali non smettevano di “vivere”, come potevano essere tolti di mezzo?

Ci fu un momento di sconcerto generale.

Eravamo impietriti.

«Riprovaci Ervin!», gridò Joseph.

Il padre di Kael era palesemente confuso. Esitò un momento, allungando una mano verso l’impugnatura della forbice, ma non appena quella bestia se ne accorse provò ad addentarla.

Un enorme nodo mi chiuse la gola. Avevamo perso un’arma e se Ervin non avesse trovato un modo per sottrarsi alla presa di quel mostro, le cose sarebbero potute degenerare.

«Fate qualcosa!», gridò Alisha disperata.

Fu allora che, mosso da un impulso, Kael mise un piede sulla ruota dell’auto e con uno slancio salì sul cofano.

«Kael che vuoi fare?». Lo avevo visto lanciarsi da una finestra senza batter ciglio, era capace di tutto.

Kael fissò la creatura tirare il braccio di suo padre verso sé con ferocia. La pelle dell’uomo incominciava a ferirsi. Stava sanguinando. 

Allungò una mano verso la forbice ma la bestia tentò di morderlo, così optò per riprovarci un paio di volte, finché, le sue dita non toccarono i due anelli di metallo.

Tirò la forbice fuori dalla carotide dell’uomo e senza pensarci troppo lo colpì dritto dentro un’orbita.

Non so se lo avesse già fatto prima o se lo avesse visto fare da qualcuno, magari era stato solo un caso, fatto sta che l’uomo smise di grugnire.

In un attimo, la sua testa sprofondò accanto al braccio di Ervin.

 

                                                      ॥

«Credimi, ero impietrita. Kael aveva ucciso un uomo…»

Mel storce un labbro «Be’ non era più umano.»

«Già, ma all’epoca nessuno di noi sapeva cosa avessero quelle persone. Per quello che mi riguardava, potevano ancora essere curate.»

                                                               ▶

 

«L’hai ucciso…», un grido mi rimase incastrato nella gola mentre indietreggiavo alla vista del sangue e di quell’orbita lacerata.

«Non c’era altra soluzione», disse una voce nel gruppo, ignorai di chi fosse. Ero terrorizzata. L’idea che qualcuno fra noi fosse capace di un gesto simile mi prosciugò.

«Era una persona. Una essere umano…»

Di colpo, non volevo più avere niente a che fare con quelle persone. 

«Karina», Kael si sollevò dal parabrezza e mi rivolse lo sguardo più desolato che avessi mai visto.

Sollevai una mano a mezz’aria, volevo dire qualcosa, ma niente di ciò che stavo pensando era pronunciabile.

Indietreggiai di un altro passo. Più mi allontanavo da loro, più, per qualche motivo, iniziavo a sentirmi sicura.

«Karina, non farlo.» Alisha allungò una mano in direzione della mia agguantandola. Guardai le sue dita avvolte alle mie come se ci fosse qualcosa di terrificante sopra e risalii, con lo sguardo impietrito il braccio fino a scontrarmi con il suo viso.

«Non andartene, è pericoloso.», mi scongiurò.

Il mio sguardo vacillò da lei, al cadavere accanto ad Ervin a quello di Crane sul tettuccio di un’auto a pochi metri da noi.

Avverti un groppo in gola.

Tremai.

«Prima Crane, ora quell’uomo…Hai permesso a tuo figlio di ammazzare una persona! E’ la stessa identica cosa che avrebbe fatto Collins!»

Per un istante qualcosa oscurò l’espressione della donna che sottrasse velocemente gli occhi ai miei.

«Lo avrebbe morso», mormorò, «E’ mio marito, capisci?».

Adesso aveva gli occhi lucidi.

Strappai la mano dalla sua presa e indicai la testa dell’uomo con la forbice incastrata dentro la sua orbita, «Magari anche lui aveva una moglie!».

La cosa che al momento mi spaventava più di tutto era la possibilità che qualcuno di loro avesse potuto serbare la stessa fine per me o per chiunque altro del gruppo.

«Che cazzo le hai portate a fare quelle forbici, allora?!», All’improvviso, Carmen mi afferrò per le spalle costringendomi a guardarla. «Quell’animale avrebbe morso uno dei nostri, chiaro? Non abbiamo trascinato il nostro culo fino a qui per lasciarci dietro i nostri cadaveri.» Il suo sguardo, ora terribilmente cupo, si spostò sul cadavere: «E poi era già morto.»

                                                      

 

«Quindi quello è stato il vostro primo morto

Mi stringo l’attaccatura del naso con un paio di dita di entrambe le mani e sospiro: «Si. Il primo che ho visto uccidere da uno di noi.»

Mel si sposta la lunga coda nera dietro la schiena «Se non fosse stato Kael ad ammazzarlo, avresti avuto la stessa reazione?»

«Forse, non lo so. Sinceramente non so perché reagii in quel modo. Avevo portato un paio di forbici per difendermi…Credevo di essere pronta a ferire qualcuno.»

«Pensare di uccidere qualcuno è un conto, farlo è un’altra cosa…», commenta.

«Probabilmente è così.»

Resta un momento in silenzio fissando l’espressione del mio viso dal riquadro della telecamera «Raccontami cosa è successo dopo.»

Schiudo le labbra guardando un punto qualsiasi sulla riva del fiume accanto a me.«Abbiamo raggiunto la strada.»

 

                                                    ▶

 

Non era così che mi immaginavo il mondo fuori da quell’ufficio. Credevo che tutto ciò che ci era successo non aveva varcato l’uscita di quello studio, invece, il centro della città era uno scenario di guerra.

«Più in fretta!».

C’erano persone che correvano in tutte le direzioni. Qualcuno aveva appena fatto scoppiare una guerra civile, ed ora, non c’erano solo gli uomini con le pupille allargate ad aggredire i civili ma anche i civili stessi.

Bande, delinquenti ma anche donne e uomini di tutte le età stavano saccheggiando i negozi sparsi lungo la via e mettendo a soqquadro l’intera città.

Attorno a noi lo scenario era apocalittico.

«State giù!».

Distratta dal caos al centro della strada, improvvisamente, mi ritrovai premuta contro il cemento del marciapiede dalla mano di Kael. Una molotov volò ad una spanna dalla mia testa facendo scoppiare la vetrina di alimentari accanto a noi. Ad un tratto, non sentii più nulla all’infuori di un fischio ovattato e assordante al tempo stesso.

Una pioggia di vetri ci zampillò addosso trascinandosi dietro una folata di terrore che si piazzò esattamente al centro del mio petto.

«Karina.» 

«Karina!»

Era la fine del mondo?

Guardai oltre le panchine verdi, oltre la fila di alberi sul marciapiede: sangue, violenza, morte.

All’improvviso, due braccia mi cinsero il costato sollevandomi di peso.

Il mio sguardo schizzò sul profilo di Kael. Una scheggia gli aveva graffiato lo zigomo.

Mi domandai come fossi messa io. In quel momento era tutto così surreale che cominciai a temere che fossi già morta. -o lo speravo.

I miei piedi vennero costretti dalla prepotenza del ragazzo a rimettersi in moto.

Quando decise che fossi pronta, mi lasciò scivolare le mani lungo la schiena per poi afferrarmi un polso.

Il cuore rincominciò a pompare all’interno della cassa toracica dolorosamente.

Mi voltai alle spalle.

Era stato impossibile impedire alla caviglia di Luis di non spezzarsi ancora. Adesso quasi gli pendeva come fosse un arto in più sul suo corpo.

«Guardate!» Sentii l’eco lontano della voce di Carmen e quando la cercai con gli occhi, stava guardando qualcosa al di là del marciapiede. Sul suo viso era affiorato un sorriso speranzoso. «I militari! Loro ci aiuteranno!». 

Maschere antigas? 

Carmen corse verso il mezzo blindato fermo lungo la strada.

«Carmen!»

Vidi una donna indiana avere la stessa idea della nostra compagna e correre verso la milizia dall’altro lato della strada: con le mani sollevate si buttò sulle ginocchia in lacrime, chiedendo pietà nella sua lingua. Un colpo. Un altro. Un altro ancora.

Il sangue si raggruppò nelle mie vene.

I miei occhi corsero nella direzione di Carmen. Era vicina, troppo vicina.

Sollevò le mani oltre la sua testa, il piede della sedia le scivolò dalle dita «Sono sana! Non sparate.». Gli uomini con le maschere la scrutarono privi di coscienza. Sollevarono i fucili e glieli puntarono contro.

«Il mio amico è ferito, abbiamo bisogno di aiuto», continuò la ragazza accennando un altro passo.

«Resta ferma dove sei!», ordinò uno di loro.

«Ci serve aiuto!». Se solo Carmen avesse dato ascolto a quel militare e non avesse deciso di camminare verso di lui…

 Una raffica breve di spari ci fece correre le mani sulla testa.

Tutto ciò che mi era attorno vorticò pericolosamente.

Carmen cadde sulle ginocchia.

«L’hanno uccisa…Loro…» 

«Non fermatevi!», gridò forse Ervin alle nostre spalle.

Qualcuno mi trascinò via lungo il marciapiede. C’era un mucchio di gente dietro di noi. Gente terrorizzata, gente in balia della follia.

Evitai il corpo di un uomo riverso a terra, al centro della lingua d’asfalto, per puro caso. Ero distratta. Distratta dalle giacche verdi militari che stavano trivellando di colpi non solo gli uomini e le donne trasformati ma anche persone che all’apparenza erano normali.

Fu drammatico scoprire che non ci avrebbero aiutato nemmeno le persone che avevano garantito la nostra protezione.

«Quel Suv!».

Gli occhi di Alisha miravano ad una vettura accostata davanti ad un lampione con le portiere spalancate.

Veloci ci fiondammo su di essa.

Ervin ebbe la prontezza di abbassare i sedili posteriori spingendo Luis all’interno dell’auto aiutato da suo figlio.

Joseph fece velocemente il giro dell’auto e si sistemò alla guida.

Chiunque avesse abbandonato quella vettura, o era morto, oppure aveva deciso di correre a piedi, perché il quadro era ancora acceso e la chiave inserita nel cruscotto.

Il tlac degli sportelli mi fece perdere un battito per poi recuperarne tre.

Con una sterzata prepotente, Joseph si inserì sulla strada. Pigiò sull’acceleratore a tavoletta, lasciandosi alle spalle esplosioni, grida e colpi di carabina.

 

Rannicchiata dietro con gli altri guardai oltre il vetro posteriore della vettura.

Di quel passo, della città e dei civili non ne sarebbe rimasto molto.

«Quei militari…», mormorò Ervin guardando nella mia stessa direzione, «Sembra quasi che stiano facendo pulizia».

«Già», sospirò Alisha poggiando le dita contro il vetro.

Rabbrividii all’idea.

Se per fare pulizia Ervin intendeva sterminarci tutti indistintamente, significava che nessuno di noi era più al sicuro. Nemmeno se ci fossimo barricati in qualche casa.

Raccolsi le ginocchia con le braccia e ci affondai la fronte sopra.

L’irrefrenabile desiderio di piangere mi sopraffece. Le spalle mi tremolarono un paio di volte mentre cercavo di frenarmi.

Che ne sarebbe stato di noi?

Di me?

La certezza dell’incertezza mi colpì come una mano fredda dietro la schiena.

«Tutto bene? Ti fanno ancora male le orecchie?», Alisha, seduta a qualche spanna da me, distese leggermente una gamba sul rivestimento posteriore dell’auto.

Quando sollevai il viso temetti di essere una maschera di eyeliner colato, ne avevo una striscia sparsa sulle ginocchia.

«Le…orecchie?...», domandai confusa.

«Quando abbiamo raggiunto l’auto, ti ho vista coprirle con le mani per un momento.»

Non me ne ero nemmeno accorta.

«Adesso ci sento un po’ meglio», dissi.

Mi sorrise amorevole «Quella molotov ti è esplosa praticamente accanto.»

Non avevo avuto la percezione di quanto fosse vicina l’esplosione a me. Mi ero ritrovata a terra e le orecchie fischiavano quasi a voler esplodere.

«Già», dissi abbozzando un sorriso smorto, «penso di si.»

Alisha mi raccolse una ciocca di capelli portandola dietro il lobo del mio orecchio.

Sentii, un attimo dopo, le sue dita correre sulla mia guancia.

«Questi tagli passeranno», sussurrò. In un’altra circostanza sapere di avere il viso maciullato dai vetri mi avrebbe fatta saltare per aria dallo spavento. Allora, invece, non mi smosse nulla.

Non erano i vetri a preoccuparmi, né le ferite superficiali.

«Come sta Luis?», domandai ad Ervin.

Arricciò le labbra «Quella caviglia…Andrebbe operata.»

«Forse dovremmo fare una sosta all’ospedale.»

«Si, e magari farci visitare tutti», proferì Kael sollevandosi un lembo della maglietta sfiorando la ferita sul ventre.

L’ospedale non distava molto dal centro. Incanalata la superstrada sarebbe bastato imboccare il primo svincolo per ritrovarsi nei pressi del suo parcheggio.

avevamo già imboccato la statale, quando, ad un tratto, Kael guardò qualcosa nello specchietto retrovisore agganciato al suo sportello per poi dare una gomitata a Joseph indicandogli lo specchietto agganciato accanto alla sua fronte.

Gli occhi chiari di Joseph si scontrarono con il riflesso del vetro: c’era qualcuno dietro di noi ed era troppo vicino.

«Che diavolo succede?», mormorò un attimo prima di pigiare l’acceleratore.

Artigliammo parti a caso della vettura. 

«Jo, che ti prende?!»

C’era un taxi che procedeva a zig zag nel traffico. Non ci sarebbe stato nulla di strano se non fosse che, alla guida, c’era un tipo che si stava trasformando.

«Merda, ci verrà addosso di questo passo!».

Il taxi stava guadagnando strada e in un attimo si spostò contromano sull’altra carreggiata, avvicinandosi sempre di più.

Ci aveva quasi raggiunto ormai e per Joseph stava diventando difficile mantenere il controllo dell’auto a quella velocità.

Vidi l’uomo alla guida del taxi portarsi una mano alla testa e stringersi con violenza alcune ciocche di capelli. Sbattere le palpebre. Scuotere il capo. Soffriva?

Kael afferrò per un lato il sedile e si sporse con metà busto indietro. Lo sguardo alla vettura impazzita dietro di noi.

Di colpo lo vidi serrare le palpebre.

Il paraurti della nostra vettura venne tamponato facendoci finire con i palmi delle mani a terra.

Ervin finì contro Luis e Alisha si riprese per un pelo, aggrappata al poggiamano sulle nostre teste.

Joseph imboccò una strada secondaria che portava verso Manassas. Il taxi ci si affilò dietro accostandoci.

La testa dell’uomo alla guida del taxi fece uno scatto di lato, poi di nuovo. Una serie di dolorosi tick prima che le sue palpebre si spalancassero e restasse immobile per qualche istante.  “7…6…5…4…3…2…1.”

Il sangue mi defluì dal viso.

Di colpo, incominciò a  sbracciare verso il nulla. Furioso. Impazzito. Come se fosse appena «tornato in vita.»

Joseph sterzò all’improvviso verso l’uscita con il cartello Manassas scritto a caratteri cubitali.

Il taxi, questa volta, restò alle nostre spalle sulla sua corsia, sparendo dalla nostra vista velocemente.

Ce l’avevamo fatta. Eravamo riusciti a- «Oddio!» - strizzai gli occhi di colpo, stretta nella morsa del terrore.

Un’auto che marciava in senso contrario invase all’improvviso la nostra corsia schiantandosi contro di noi.

L’impatto fu assordante.

Il metallo si accartocciò e si squarciò con un lampo bianco che mi scaraventò di lato e poi mi ributtò indietro. L’auto vorticò su se stessa un paio di volte fermandosi solo quando raggiunse il guardrail dal lato opposto della corsia, facendo esplodere entrambi gli airbag.

Quando smisi di vedere gli alberi oltre i finestrini vorticarmi intorno, temetti che mi sarebbe venuto un infarto.

La centralina del Suv era impazzita, l’allarme strillava come un ossesso. C’era fumo e puzza di benzina dentro tutto l’abitacolo.

 

“Non svenire. Non svenire. Non...”.

 

All’improvviso, piombò il buio davanti ai miei occhi.

 

Tossii un paio di volte risollevandomi dalla moquette del portabagagli.

«Stai bene?», Ervin mi tese una mano. Dovevo aver perso i sensi. 

«Si, tu?»

Come ero arrivata a sbattere la schiena contro il portellone anteriore se ero seduta accanto allo sportello?

Alisha aveva gli occhi chiusi: un vistoso rivolo di sangue le scendeva da un sopracciglio. Luis era sveglio. Si lamentava ma nonostante ciò era ancora vivo.

«Cosa è successo?», Ervin si guardò intorno, l’aria ancora confusa.

Sentii mugugnare dai sedili anteriori.

Quando spostai lo sguardo verso di essi, Joseph era sparito. Il suo airbag era esploso ma lui non era più seduto al posto di guida, mentre Kael era compresso dall’airbag esploso dal suo lato del cruscotto.

Gattonai fino a raggiungerlo.

«Kael, Kael!», spostai l’airbag che si stava sgonfiando e tossii per la polvere biancastra che si stava sollevando.

«Stai bene?»

Lui appoggiò la schiena al sedile, battendo le palpebre più volte mentre annuiva. Aveva una guancia infarinata ma a parte una goccia di sangue dal naso pareva essere a posto.

Lo sportello dal lato di Joseph era aperto e potevo vedere l’altra vettura ferma per obliquo al centro della strada.

Il cofano era un ammasso di metallo contorto e accartocciato. Nel parabrezza c’era un buco grande quando un corpo.

Macchie di una sostanza rosso scuro coprivano la seghettatura del vetro rotto e chiazzavano il cofano.

Mi insinuai fra i due sedili anteriori e portai le gambe sul sedile al posto di guida. Girai la chiave e finalmente l’allarme smise di gridare.

Attorno a noi non c’era nessuno. Sapevo che quella strada non era molto frequentata, ma non pensavo che a quell’ora del pomeriggio fosse addirittura deserta.

Scesi dall’auto. Le gambe tremanti, il cuore in gola. 

Sull’asfalto c’era una lunga striscia di sangue che girava attorno al suv.

Esitando, mossi passi tremanti lungo di essa.

«Jo?».

L’auto che ci aveva urtato era vuota. Non c’erano corpi, non c’era nulla oltre il sangue.

Sentii un sospiro gutturale, «Jo, sei tu?.», e quando feci il giro dell’auto, dovetti correre con le mani alla bocca per trattenere un grido.

Il cuore perse un battito. Lo stomaco si strinse di colpo.

Gli occhi si appannarono in fretta.

Un braccio le cui ossa erano venute allo scoperto si allungava sull’addome di Joseph. Una testa maciullata di graffi e ricoperta di sangue ispezionava a morsi il suo ventre.

Frammenti di vetro erano conficcati nelle sue guance. Rivoli di sangue gli scorrevano sulla pelle pallida.

Come un animale con la sua preda, la donna che aveva aggredito Jo se lo era trascinato dietro il paraurti della nostra auto ed ora stava banchettando con il suo corpo, avidamente.

La testa mi diceva “scappa”, il corpo “non muoverti”. Non si era accorta di me. Troppo concentrata a divorare l’avvocato, ignorò l’ombra del mio corpo alle sue spalle, almeno finchè, muovendomi, la suola delle mie scarpe non sfregò l’asfalto.

La donna inumana sollevò di colpo il capo. 

Corsi verso la portiera dell’auto piombandoci dentro e chiudendomela dietro.

La sua testa maciullata comparve davanti al mio finestrino. Io scattai indietro, inghiottendo un grido. Un attimo dopo fui travolta dalla nausea. La faccia…Mio Dio la faccia di quella donna era ridotta un macello. Il labbro inferiore era attaccato a malapena e la testa era inclinata in una maniera innaturale. Un occhio le penzolava fuori dall’orbita. 

La poveraccia sarebbe dovuta essere morta, invece camminava ancora.

«Da dove è sbucata fuori?», Ervin si sporse dal vano posteriore.

«Credo fosse la donna alla guida dell’auto che ci ha tamponato», risposi.

L’indemoniata grattò il vetro ripetutamente.

«Joseph?». Mi voltai nella direzione di Kael e scossi il capo.

Una nube plumbea gli coprì il viso.

Carmen, Joseph, chi sarebbe stato il prossimo?

Probabilmente noi.

Poggiai i piedi sulla moquette tornando dritta a sedere. Allungai una mano verso la chiave agganciata al cruscotto e la girai un paio di volte.

L’auto rombò e si spense: una, due, tre volte.

«Cazzo», afflosciai le spalle.

Non accennava a ripartire…

 

Bloccati ormai da ore dentro la vettura, notai che il cielo stava imbrunendo.

«Non è passato nessuno finora.», sospirò esausto Ervin schiacciando le spalle contro la carrozzeria. 

«Saranno andati tutti verso Auckland», commentò suo figlio annoiato, picchiettando l’indice sul vetro in direzione della bocca frastagliata di lembi di pelle della donna affamata di carne umana.

Voltai lo sguardo nella sua direzione, schiacciando la guancia contro il poggiatesta del sedile. 

«Lasciala in pace.», mormorai vedendo che insisteva nel aizzare la belva.

Lui mi scrutò impassibile.

Affondò la schiena nel sedile e sollevò il mento socchiudendo le palpebre.

«Non voglio morire qui dentro.»

Mi sarebbe piaciuto potergli dire che non sarebbe successo, che avremmo trovato un modo per scappare, ma non ne avevo la certezza. C’era un’alta probabilità che quella donna sarebbe riuscita ad entrare nella vettura, in qualche modo, e a quel punto per noi non ci sarebbe stato scampo.

Ma non potevamo gettare la spugna così.

Rivolsi le iridi all’auto ferma al centro della strada per obliquo.

I fari, seppur ridotti in frantumi erano accesi.

«Forse quell’auto può camminare», sussurrai.

Kael sollevò una palpebra e mi scrutò sottecchi «Come pensi di arrivarci?».

La donna dalla testa maciullata, girava attorno alla nostra vettura, come un caimano pronto a consumare il suo pasto.

Era un bel dilemma.

«Mi verrebbe da dire: “distraendola”, ma non è facile riuscirci.» Appoggiai le dita sulla portiera, guardando ovunque al di là del finestrino.

Il fatto che Jo non si fosse trasformato, mi faceva pensare che la donna non si era limitata a divorare il suo addome.

Ma era un bene avere una sola di quelle bestie fra i piedi.

Spostai lo sguardo verso Luis e gli altri. Erano distrutti e avevano inconsciamente chiuso gli occhi.

«Dormono.», constatò Kael, aggiungendo un attimo dopo «Anche se io e te riuscissimo a far partire quell’auto, loro…».

Scossi il capo scacciando il pensiero di loro tre divorati da quella donna.

«Sono contraria a lasciar morire le persone», dissi, «Ero contraria anche ad uccidere quell’uomo intrappolato nella sua auto, ma…Ho visto cosa fanno queste bestie se riescono a catturarti.»

Se chiudevo gli occhi potevo vedere il ventre di Joseph aperto, dilaniato.

«Perciò, si. Voglio ucciderla.»

Gli occhi scuri di Kael incrociarono i miei.

In quel momento non ebbi paura di potergli sembrare un mostro o una pazza. 

«Perché se non la uccidiamo», proseguii con la voce che mi tremava leggermente, «lei ucciderà noi, ed io voglio che nessun altro muoia.»

Di colpo, un braccio del ragazzo attorniò le mie spalle.

Mi ritrovai premuta contro il suo petto. Un calore indescrivibile mi travolse. Era la prima volta che provavo una sensazione del genere abbracciando qualcuno. Essere stretta da Mike o da mia madre probabilmente non era la stessa cosa.

Passò un istante e la sua mano scivolò sul mio polso. Il suo sguardo vacillò dalle mie labbra ai miei occhi «Solo se te la senti. Posso andare da solo, altrimenti.»

Scossi il capo. 

«Sono pronta.»

Kael tornò a muoversi sul sedile. Chiusi gli occhi, ispirando profondamente. Non era il momento di riflettere su me stessa o su quello che stessimo per fare. Non potevo rischiare di cambiare idea o di esitare nemmeno per un istante. C’erano tre vite nelle nostre mani.

Questa volta dovevo cavarmela da sola. Dovevo collaborare e se voleva dire mettere a repentaglio la mia vita, dovevo essere disposta a farlo.

Kael afferrò il paio di forbici, abbandonate ai piedi di Luis, dal vano posteriore dell’auto e incominciò a picchiettare sul vetro del finestrino accanto a sé.

La donna si avventò contro lo sportello graffiandolo convulsamente.

«Fa piano.», mi disse scrutando i miei movimenti con la coda dell’occhio.

Morire sul ciglio della strada assieme ad altre quattro persone aveva un non so che di romantico, ma non mi sembrava il miglior modo per andarsene.

Tirai la leva della maniglia leggermente, sperando di non far abbastanza rumore da sovrastare il ferro delle forbici sul vetro.

Una brezza fresca mi accarezzò il viso bollente quando misi prima un piede e poi l’altro sull’asfalto.

Kael aveva pensato brevemente a tutto: avrei raggiunto l’auto, l’avrei messa in moto e quando la donna si sarebbe accorta di me, l’avrei messa sotto.

Era tutto chiaro, dovevo solo far sì che quel piano funzionasse.

Quando la donna distolse gli occhi dal viso di Kael, lui colpì il vetro più forte.

Potevo sentire il ticchettio del ferro contro di esso anche se ero già abbastanza lontana.

Mi voltai per un solo istante. Il cuore perse un battito.

Kael non riusciva a mantenere concentrata la donna famelica che lo scrutava ringhiando e poi tornava a guardare la mia sagoma oltre il vetro del finestrino.

«Merda.»

A quel punto, accellerai fino a correre a perdifiato.

L’auto non mi sembrò più lontana come che in quel momento.

C’ero quasi.

C’ero…quasi.

Qualcosa si schiantò contro la mia schiena.

Caddi a terra ferendomi i palmi.

Quando mi voltai, la donna si risollevò in piedi, ostinata con un solo obiettivo in mente. Mi prese la caviglia quando scalciai di nuovo e tirò, trascinandomi verso sé. Il sangue le usciva dalla bocca a bolle e dall’orrendo buco che aveva in gola.

Io gridai colpendola selvaggiamente con il piede libero, con le mani.

«Karina!».

Una lacrima mi scivolò lungo il viso mentre cercavo di impedirle di addentarmi la caviglia.

Non volevo morire.

Ma proprio mentre stavo immaginando me morta al centro di quella strada…

Due braccia apparvero alte sulla sua testa e la forbice le si conficcò poco sopra la nuca.

Tossii un respiro. Un altro e poi piansi.

«Kael, Karina!», Ervin e Alisha erano scesi dall’auto prima ancora che io potessi accorgermi della loro presenza accanto al cadavere di Joseph.

La donna corse verso suo figlio stringendolo disperatamente a sé.

«Ci ha attaccati», si giustificò lui.

Omise che l’idea di scendere dalla vettura era stata nostra.

Ma suo padre non era stupido. Ci raggiunse scuro in volto.

L’espressione cinerea non prometteva nulla di buono.

«Volevi farti ammazzare!?», gridò afferrando suo figlio per la maglietta, «Rispondi!».

Kael spalancò le palpebre atterrito.

«Potevate morire!», urlò ancora, «E io non sono pronto a perdere un altro figlio.», prima di far capitolare la sua rabbia in un pugno di lacrime.

«Ervin», la voce calda di sua moglie gli sfiorò la nuca «lascialo andare.»

Le mani dell’uomo allentarono al presa sulla sua T-shirt.

Continuò a fissarlo per qualche istante. Disperato. Impaurito.

«E’ stata colpa mia.»

«Karina-», cercò di interrompermi il ragazzo.

Suo padre deviò lo sguardo su di me.

«Volevo raggiungere la berlina della donna per vedere se funziona ancora.», dissi.

L’uomo serrò la mascella per un secondo prima di sferrarmi un’occhiata velenosa «Non farti venire in mente altre idee stupide, ragazza.».

Abbassai lo sguardo alla testa penzoloni fra le mie ginocchia mordendomi un labbro.

Ervin ci superò e Alisha lo seguii.

Potevo sentirli parlare ma le parole erano incomprensibili, poco più che un sussurro lontano.

«Mi dispiace», mormorai. Kael allungò una mano verso me per aiutarmi a tornare in piedi.

Spostai il cadavere della donna da sopra le mie gambe e mi sollevai.

«Non hai nulla di cui dispiacerti, credimi. Non sono io che ho rischiato la vita per aiutarci», i suoi occhi vacillarono sulla sagoma di suo padre che ora era seduto al posto di guida della berlina bianca.

Una marcata smorfia di rabbia si disegnò sulla sua fronte.

«E’ stata una mia idea.», cercai di aggiungere.

Kael scosse il capo. «Non pensiamoci più.»

Dopo qualche tentativo, le nostre orecchie vennero raggiunte dal rombo dell’auto.

Il nostro sguardo volò su di essa.

«Parte!», Alisha si sporse dallo sportello. Sul viso un sorriso raggiante.

«Prendiamo Luis e andiamo via da questa strada maledetta.»

 

                                      

   
 
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