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Autore: shaaaWn_    02/03/2022    3 recensioni
"Il riemergere dei sentimenti che provava per Sherlock Holmes era un lusso che non poteva permettersi in alcun modo."
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Rosamund Mary Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota autoreLEGGETE: Salve! Ci terrei inanzitutto a ringraziare per aver aperto questa oneshot, te ne sono grato! Poi, vorrei precisare che si tratta di una oneshot veramente lunga (9000 parole circa) che ho allegramente suddiviso in cinque capitoli con tanto di titolo. Inoltre, aggiungo che vengono menzionti ogni tanto temi delicati quali morte e attachi di panico, e il personaggio di John attraversa un lungo periodo di crisi piuttosto intenso, perciò se sono temi non di tuo gusto consiglio di non leggere! Grazie per l'attenzione.
p.s. dedicata al mio moot di twitter (Sara) che era impaziente di leggere



 
1.
Brusco risveglio
 
 
Vuoto.

Così si sentiva.

Senza più organi, ossa o sangue.
Svuotato dall'interno, privato di ogni misera sensazione.

Improvvisamente, un enorme peso gravò sul suo petto, rendendo il respiro ansante, irregolare.
Le sue budella si contorsero, ingarbugliandosi tra loro come i cavi impertinenti della televisione.

Si alternava tra il non percepire neanche il suo respiro, al provare un miscuglio di emozioni e sensazioni contemporaneamente.
Il sangue sgorgava incessante, le sue dita tremanti sfiorarono appena la ferita, incredule, tingendo i polpastrelli di cremisi.
I respiri ansanti di sua moglie gli si infrangevano sul volto, ricordandogli come il tempo scorreva inesorabile, la morte prossima a piombare su di lei.

Era immobilizzato.
Incapace di muovere un solo muscolo, il nodo alla gola gli impediva anche solo di emettere un misero sussurro, era in grado solamente di osservare la vita che lasciava lentamente il corpo di Mary.
Non sapeva come agire.
I suoi occhi trasudavano disperazione, dentro di sé continuava a ripetersi con angoscia di muoversi, di darsi da fare pur di non darla vinta alla morte che da dietro l'angolo osservava la scena straziante.
Quel miracolo non avvenne.

Fugace, silenzioso, il Tristo mietitore si portò via ciò che aveva di più caro.
Quasi riuscì a vedere l'ombra che incombé su Mary, strappandole un ultimo respiro.
Attimi prima che accadde, gli rivolse un tenero sorriso, volto ad infondere sicurezza, forza, fiducia.
Ma la sua vita era appena andata in frantumi e non sarebbe stato capace di rimetterne insieme i cocci.

Non senza di lei.

Tremante, usufruendo di una forza che non credeva di avere, le sfiorò delicatamente il viso, come se rischiasse di recare più danni di quanto già non ci fossero.
Era ancora caldo, le ultime tracce di vita e sofferenza dipinte su di esso; ne macchiò leggermente la superficie, il mondo che gli crollava addosso.
L'atroce dolore che senza ritegno era nato dentro lui, tramutò ben presto in un'ira ardente, furibonda, che lo fece esplodere in un verso gutturale, un urlo straziante, ricolmo di sofferenza che per poco non gli lacerò i polmoni.
Miliardi pensieri e domande senza risposta gli invasero la testa, il corpo senza vita di Mary stretto tra le sue braccia.

Poi tacque.
E così la sua mente.
Persa nel vuoto.

Un urlo acuto, susseguito da un piagnisteo decisamente molesto, interruppe lo spiacevole sogno di John, che aprì gli occhi di scatto, svegliandosi di soprassalto.
Poteva di certo essere ritenuta una fortuna.
Gli ci volle un minuto prima di rimettere in ordine i pensieri come meglio possibile, cercando di regolarizzare il respiro ansante.
Frammenti dell'incubo continuarono a vagare nella sua mente, e sebbene provenissero da un'esperienza vera e propria, cercò di scacciarli scuotendo il capo con veemenza, gesto che accentuò ulteriormente il mal di testa che si era creato.

Dal baby monitor continuavano a provenire gli strepiti incessanti di Rosie che necessitava assolutamente attenzioni da parte del padre.
La fronte era madida di sudore, così come la sua maglia, e il dolore lancinante alla testa per poco non gli fece perdere l'equilibrio.
Il pavimento gelato a contatto con i piedi gli diede una scarica elettrica, che in qualche modo lo aiutò a recarsi il più rapidamente possibile presso la stanza di sua figlia.
Avvicinatosi al lettino, afferrò con delicatezza la bimba, stringendola al petto e cullandola dolcemente, iniziando a canticchiare la prima melodia che gli passò per la mente.
Per un folle attimo, vide nuovamente il corpo di Mary stretto tra le sue braccia, una chiazza scarlatta sulla maglia.
Scosse la testa inorridito, cercando di scacciare nuovamente le immagini raccapriccianti, le urla e il dolore.
Non aveva le forze per affrontare il tutto, non in quel momento.

Passati ormai dieci minuti, la piccola Rosie non voleva saperne di calmarsi, e visto che John non era propenso a rimettersi a dormire, non che ci sarebbe riuscito in ogni caso, si recò al piano di sotto, scendendo le scale quanto meno rumorosamente possibile.
Accortezza più che inutile, essendo la bambina più rumorosa di venti volanti della polizia messe assieme.

"Shh tesoro calmati, c'è il papà qua con te" carezzò dolcemente la piccola testolina, ricoperta da ricci biondi.

Eppure non ci fu verso.
Esasperato e stravolto, si avvicinò alle grandi finestre del salone, notando che l'alba era ormai prossima; ciò stava a significare che erano quasi le sei.
Fosse stata una giornata lavorativa, ne sarebbe stato contento visto gli orari assurdi che spesso gli capitavano in ambulatorio.
Naturalmente però era domenica, un giorno di riposo, e la piccola Rosie aveva scelto l'orario peggiore per interrompere il suo sonno, sebbene fosse stato parecchio irrequieto.
In altre circostanze si sarebbe tranquillamente riaddormentato, il tepore delle lenzuola ad avvolgerlo, ma non c'era nulla di più energetico delle urla e gli strepiti di sua figlia.
Suo malgrado, aveva imparato ad accettarli.

"Guarda tesoro, c'è ancora la luna" speranzoso, indicò il piccolo spicchio bianco in alto nel cielo, ma alla bimba non poteva importare di meno, continuava a piangere senza sosta.

Sbuffò esasperato.

"Perché non smetti?" chiese sull'orlo di una crisi isterica, come se la bambina fosse capace di capire la situazione e rispondere in maniera sensata.

'Sono una bambina di un anno e mezzo e mi comporto come tale'
Fu questa la risposta che si diede John mentalmente.
La mancanza di sonno cominciava a farsi sentire più che mai.

La cosa più snervante era che non aveva alcun bisogno di essere cambiata e la fame non era contemplata poiché aveva sdegnosamente rifiutato un omogenizzato di frutta poco prima.
Stordito com'era, non capiva proprio di cos'altro si potesse trattare.
Riprese a canticchiare, cullando la bimba con un po' di vigore in più, pregando affinché si placasse.
Iniziò anche a roteare di qua e di là per la stanza, emulando un qualche ballo.
Solo dopo qualche secondo si accorse che il motivetto che andava ripetendo da ormai mezz'ora non era altro che il valzer che Sherlock aveva composto per lui e Mary, in occasione del loro matrimonio.

Il suo passo si arrestò di colpo.
Gli nacque un groppo in gola, accompagnato da un'onda di tristezza gelida che lo investì in pieno petto, penetrando fin sotto la pelle, raggiungendo le ossa.
Gli causò un brivido di freddo lungo la spina dorsale per nulla piacevole.

Un anno.

All'incirca un anno era passato.

Sembrava un secolo e allo stesso tempo un misero secondo.
Gli occhi divennero lucidi e un sorriso agrodolce si dipinse sul suo volto stanco, gli occhi esausti che osservavano amabilmente la bimba che teneva stretta a sé, finalmente tra le braccia di Morfeo.
La luce fioca proveniente dalle finestre, illuminava delicatamente il suo volto paffuto e rilassato, la boccuccia semi aperta e il capo poggiato sul suo petto.
Incredibile quanto simile fosse alla madre.

"John..?"

La voce profonda di Sherlock giunse improvvisamente alle sue spalle, spaventandolo a morte.
Sobbalzò in maniera non indifferente e ovviamente quel gesto svegliò Rosie, la quale nell'arco di un secondo, scoppiò in un pianto disperato.

"Santi numi Sherlock! Mi hai fatto prendere un colpo, non puoi soprendere le persone alle spalle in questo modo!"

Rimproverò l'amico sussurrando, azione assai inutile visto che ormai sua figlia era sveglia e decisamente fragorosa.
Farla riaddormentare per l'ennesima volta sarebbe stato un'impresa seccante e piuttosto ardua.
Sherlock assunse un'espressione di rammarico e John sospirò frustrato, cercando di sopprimere il suo evidente nervosismo e la chiara mancanza di sonno che andava via via peggiorando il suo stato mentale.

"Che ci fai in piedi a quest'ora?" domandò successivamente, il tono alto a causa degli strepiti di Rosie che invano tentava di calmare.

"Le urla di tua figlia sono piuttosto difficili da ignorare."

Sebbene Sherlock gli rivolse un piccolo sorriso, ebbe ugualmente il forte impulso di tirargli una sberla ma non lo fece; prese un bel respiro e si limitò a lanciargli uno sguardo torvo che venne colto immediatamente.
Ci fu uno scambio di sguardi silenzioso, per così dire visto il piagnisteo continuo emesso da Rosie, entrambi fin troppo assonnati per formulare una semplice frase di senso compiuto.
Alla fine fu il detective ad aprire bocca per primo.

"Vuoi che le suoni qualcosa?" propose titubante "solitamente funziona" sebbene con un evidente scintillio nelle iridi chiare.

"Sherlock, sono le sei del mattino" gli fece presente John, aggrottando le sopracciglia, con Rosie che continuava ad intonare melodie per nulla gradevoli.

Era pur vero che il violino di Sherlock rappresentava il metodo più veloce ed efficiente per calmarla, sembrava quasi una incantesimo, eppure era decisamente troppo presto.
Melodioso o no, non potevano permettersi di fare più chiasso del necessario.

"E quindi?"

Osservò Sherlock avviarsi presso il leggio, noncurante della situazione.
Il violino sedeva comodamente sulla poltrona e John si chiese se fosse effettivamente serio oppure faceva solo finta di non capire.
Nonostante si conoscessero da anni, trovava ancora difficile cogliere la differenza.

"Sveglierai la signora Hudson."

Indifferente, il detective sistemò con eleganza lo strumento sulla clavicola, iniziando ad accordarlo con finezza.
Le dita affusolate impiegarono un paio di minuti, alternandosi tra il pizzicare le corde e il girare le chiavi da accordatura.
Quando ebbe finito, si voltò nella sua direzione, un mezzo sorriso dipinto sul volto.

"La signora Hudson è già in piedi, la domenica è sempre indaffarata, si sveglia alle sei in punto, si reca prima in al bagno, poi in cucina e successivamente ritorna in camera a cambiarsi, dopodiché inizia a spolverare ogni stanza della casa in maniera quasi maniacale, ultimamente è parecchio annoiata, e una volta finito lascia l'appartamento per recarsi al supermercato e successivamente in chiesa, quando ormai sono le dieci passate, si gode una passeggiata nei pressi di Saint James Park, dove incontra puntualmente un'amica di lunga data, rimanendo lì a chiacchierare fino ad ora di pranzo".

John si accigliò, visibilmente confuso, il cervello che lavorava alla velocità della luce cercando di elaborare le informazioni ricevute.
Finì con il rivolgergli uno sguardo scettico.

"Te lo sei appena inventato" esordì, fissandolo dritto negli occhi.

Sul viso di Sherlock nacque un sorriso beffardo, prima che lui iniziasse ad intonare quello che parve trattarsi di un armonioso brano di Bach.
Pregò affinché la povera signora Hudson non si svegliasse, iniziando a lamentarsi come se non ci fosse un domani.
Come il più potente degli incantesimi, la dolce melodia riprodotta dal violino fece addormentare la piccola Rosie in men che non si dica, un'espressione serena sul viso.

John ebbe modo di godersi quel loro piccolo concerto privato per un altro po', avendo finalmente la possibilità di rilassarsi.
Divertito, osservò Sherlock destreggiarsi in ciò che a lui era sempre parso impossibile ma dannatamente fascinoso.
Le candide note che provenivano dal violino, volteggiarono attorno alle sue orecchie per un tempo indefinito, fin quando succube della stanchezza, abbassò le palpebre pesanti, scivolando in un quieto sonno.
Quando aprì nuovamente gli occhi, strizzandoli per via della luce del sole già alto nel cielo, per quanto indolenzito fosse, si sentì comunque riposato e notando la coperta che era stata riposta accuratamente sulle sue gambe, non poté far a meno di increspare le labbra con gioia.

***

 
2.
Sorprese inaspettate
 
 
Vivere con Sherlock Holmes poteva essere ritenuta un'esperienza particolare. Ripensandoci, forse non era il termine più adatto.
 
Diciamo che è paragonabile ad una scatola a molla; giri la manovella consapevole che qualcosa accadrà, eppure non appena si verifica vieni colto alla sprovvista e non sai come comportarti.
E questo John lo aveva imparato a sue spese, specie durante i primi mesi di convivenza risalenti a qualche anno orsono.
Dalle teste mozzate nel frigo, ai bulbi oculari in barattoli e tazzine, dalle sostanze indubbiamente tossiche, alla musica alle tre del mattino, dalle richieste assurde alla suprema intelligenza che Sherlock andava esibendo con arroganza, la sua pazienza era stata messa a dura prova.
A causa poi di tutto il caos che era andato creandosi, ossia la presunta morte del suo migliore amico e il matrimonio con Mary basato in principio su un enorme bugia, vivere al 221B di Baker Street era diventato un ricordo lontano, solamente un immagine illanguidita.

Eppure, il tempo si era in qualche modo riavvolto su se stesso, trascinandolo nuovamente in quel vecchio appartamento con i fori di pistola nel muro e un coinquilino a cui piaceva suonare e parlare a vanvera.
Sebbene sua figlia fosse un elemento subentrato recentemente.
Insomma, nonostante i piccoli cambiamenti, nonostante gli anni e le esperienze passate, aveva avuto modo di riadattarsi a quella vita, alla signora Hudson che allegramente preparava il tè, a Lestrade che disperato si presentava alla porta, ai clienti folli che raccontavano storie assurde e a Sherlock, che con la sua intelligenza e i suoi esperimenti, faceva impazzire tutti quanti.

Si era riadeguato.
O così aveva creduto.

La convivenza con Sherlock sapeva ancora essere imprevedibile, malgrado le esperienze vissute fino ad allora.

Saranno state le sette passate, quando mise finalmente piede nell'appartamento, reduce da una lunga e tediosa giornata all'ambulatorio.
La schiena doleva più del solito e le palpebre si divertivano ad abbassarsi e rialzarsi più lentamente di quanto avrebbero dovuto.
Se solo il suo stomaco non avesse gorgogliato così rumorosamente, si sarebbe volentieri recato direttamente nella sua stanza, buttandosi sul letto senza neanche togliersi scarpe e vestiti.
Eppure il suo corpo reclamava del cibo, del tutto prevedibile visto che aveva mangiato una semplice barretta proteica nell'arco dell'intero pomeriggio, ma il solo pensiero di dover mettersi ai fornelli con la stanchezza che gravava sulle sue spalle, gli procurò un enorme sconforto.

Pregando affinché ci fosse qualcosa di commestibile nel frigo, e non teste mozzate o pollici insanguinati, fece il suo strascicato ingresso nella cucina.
La scena che si palesò davanti ai suoi occhi lo portò a battere più volte le palpebre, con le sopracciglia corrugate accompagnate da un'espressione assai confusa.

"Sono consapevole che questa poltiglia non ti piace, personalmente gli spinaci non piacciono neanche a me, ma tuo padre ha detto che ti servono per crescere, il che non è del tutto errato, sebbene gli spinaci servano più a rinforzare le ossa in quanto ricchi di sali minerali, calcio, magnesio e- oh andiamo!"

Ci fu un attimo di silenzio, e poi la risata della piccola Rosie proruppe nella stanza.

"Pensi che sprecare il cibo così sia divertente? Specie sputandolo sulla mia faccia? Perché non puoi mangiare come un essere umano normale?"

John continuò ad osservare quella scena completamente esterrefatto, fin quando non riuscì più a trattenere le risate e fu allora che Sherlock si accorse della sua presenza.

"Oh John, sei tornato."

Gli rivolse uno sguardo felice, intento a ripulirsi il viso, visibilmente schifato, con un fazzoletto di carta.

"Buoni gli spinaci?" ridacchiò il militare, prendendo posto a tavola.

"Ciao tesoro" disse sorridente a Rosie, stampandole un bacio sul capo.

"Non sei spiritoso."

Ricevette uno sguardo truce e rise nuovamente, vista l'ilarità della situazione era impossibile trattenersi.
Doveva però anche a mettere che l'aveva trovata parecchio adorabile.
Sebbene all'apparenza non sembrasse, Sherlock era piuttosto abile con i bambini, o almeno con Rosie se la cavava a meraviglia, e aveva un'evidente passione per lei che non avrebbe mai ammesso ad alta voce.
Gli riempiva il cuore di gioia vedere quei due che andavano così d'accordo.

"Tieni."

Mentre rimuginava, perso nei suoi pensieri, il detective posò un piatto davanti a lui: carne e spinaci.
John fissò la pietanza con le sopracciglia corrugate, poi spostò lo sguardo sull'uomo che aveva di fronte, con ulteriore confusione negli occhi.

"Hai preparato la cena?" chiese allibito.

"Avevi detto che saresti tornato tardi, perciò ho chiesto aiuto alla signora Hudson per cucinare, non essendo il mio campo" replicò piatto, guardandolo negli occhi.

John non sapeva come reagire.
Non era cosa da tutti i giorni.
"Ma non preparai mai la cena" mormorò.

"C'è sempre una prima volta per tutto, John" irritato, il detective sbuffò, portando le mani giunte sotto il mento.

Lo stava scrutando, in attesa di una sua reazione.

"E dove hai preso questa roba?" indicò preoccupato e confuso il cibo depositato nel suo piatto.

"Al supermercato, ho-"

"Hai fatto la spesa?" esclamò fin troppo sorpreso, gli occhi sgranati.

Che diamine gli era successo?

"Si, John" controbatté marcando la prima parola "ho fatto la spesa."

Sherlock lo guardò offeso, una leggera tensione che aleggiava nella stanza.
Il militare fissò nuovamente il contenuto del piatto: un bella bistecca succosa giaceva immobile, il suo sugo a farle da cornice, affiancata da un piccolo cumulo di spinaci aggrovigliati tra di loro.
Aveva un aspetto invitante, vista anche la fame immensa che aveva preso possesso del suo stomaco.
Qualcosa non gli tornava.

"Non starai cercando di drogarmi di nuovo, spero? Come quella volta con il caffè" disse di punto in bianco, infrangendo quel silenzio fastidioso.

"Ti ho già chiesto scusa un milione di volte" il tono di voce era stizzito "e se non ti fidi, puoi anche non mangiarlo" concluse poi indispettito, accavallando le gambe nervosamente e stringendosi nella vestaglia blu.

John trattenne una risata a stento, prima di prendere le posate e tagliare un pezzetto di carne, che finì immediatamente nella sua bocca.
Sarà stata la fame, o forse il bel gesto che c'era dietro, ma quella fetta di carne fu una delle migliori che ebbe mai mangiato.
In silenzio, Sherlock lo osservò di sottecchi mentre ripuliva il piatto, un sorrisetto sul viso che tentò invano di nascondere.
Per un attimo si sentì in soggezione, ma dopotutto il detective voleva semplicemente accertarsi che gradisse il piatto da lui più o meno preparato.
Naturalmente, una volta che ebbe finito, lo ringraziò con sincerità.
Ottenendo un piccolo sorriso in risposta.

"Direi che a qualcun altro però gli spinaci non sono piaciuti, vero?"

John si voltò verso sua figlia ridacchiando e allungandosi nella sua direzione in modo da toglierla dal seggiolone azzurro che avevano sistemato nella piccola cucina tempo prima.
La bimba in risposta rise di gusto, facendo poi qualche verso con la bocca, simile ad una pernacchia.

"Erano così terribili?" chiese scherzoso punzecchiando il pancina Rosie, che fece una linguaccia.

"Dice che sei un pessimo cuoco."

Raggiunse Sherlock vicino al lavabo e notò con ulteriore stupore che stava sciacquando quelle poche stoviglie che avevano utilizzato.
Stavolta preferì non dire nulla, apprezzò silenziosamente quel gesto.

"Non ha tutti i torti in effetti," con le labbra increspate, il detective si voltò nella loro direzione, poggiandosi al bancone.

Tutti e due ridacchiarono all'unisono, continuando a parlottare e scherzare tra di loro, facendo smorfie e versi strani in modo da fare divertire la piccola Rosie che rideva senza sosta, agitando le braccine qua e là.
John si sentiva leggero, rilassato, una sensazione ormai quasi del tutto estranea, eppure quella sera tutti i suoi problemi si dissolsero nell'aria come polvere.
Era come se un abbraccio confortante lo stesse avvolgendo stretto, scaldando il suo cuore.
E quando Sherlock baciò Rosie sul capo per augurarle buona notte, sfiorando con i ricci castani il suo mento, sentì le gambe tremare come foglie.

***
 
 
 

 
3.
Incubi, pioggia e
sconcertanti rivelazioni
 
 
Ormai dormire sonni tranquilli era un'espressione lontana anni luce.
Gli eventi traumatici della sua vita non facevano altro che perseguitarlo nel caro mondo dei sogni, impedendogli di riposare come si deve.
Quella notte il suo cervello aveva scelto come scenario la guerra in Afghanistan.

Urla, sangue, morte, disperazione.
Caldo, terrore, dolore, stanchezza.

Immagini veloci, sconnesse, il caos che regnava sovrano in ognuno di esse, facendolo agitare nel sonno.
Aveva le orecchie tappate, annaspava in cerca d'aria, il fucile che pesante andava imbracciando, la vista che pian piano si offuscava sempre di più.
La testa vorticava, non riusciva più a distinguere i contorni delle cose che aveva attorno, vedeva solamente sagome sfocate, fin quando vi fu un urlo agghiacciante che pose fine a tutto quella baraonda.
Non era più in Afghanistan

Si trovava a Londra, proprio davanti all'ospedale di Saint Barth.
Conosceva già quella storia.
Sherlock sul cornicione, la chiamata confusa e dolorante, l'addio che pronunciò prima di chiudere e infine la caduta che parve andare a rallentatore.
Urlò terrorizzato, iniziando a correre, le lacrime che minacciavano di uscire.
Voleva svegliarsi, sapeva fosse tutto nella sua testa, erano passati anni ormai doveva andare avanti.
Un tuono roboante proruppe in quella notte piovosa, e madido di sudore, sbarrò gli occhi, annaspando.

A quanto pare le sue preghiere erano state ascoltate da qualcuno.

Si tirò a sedere, scostando le coperte soffocanti dal corpo fradicio e tremolante, mentre cercava di regolarizzare il respiro.
Lanciò distrattamente un'occhiata all'orologio che segnava le tre passate e naturalmente non aveva altro desiderio che rimettersi a dormire, d'altronde aveva anche fatto gli straordinari in ambulatorio perciò era stanco morto.
Eppure non appena abbassava le palpebre per un qualche secondo di più, immagini confusionarie dell'incubo venivano a tormentarlo.
Emise un sospiro ricolmo di frustrazione, passando le mani ruvide sul viso umidiccio, reprimendo il forte impulso di cacciare un urlo.

Voleva solo riposare, almeno una notte di pace, non era una richiesta così esagerata no?
Ebbe quasi la fortuna di riprendere sonno, ma ecco che il corpo senza vita di Sherlock gli si parò davanti, facendolo sobbalzare per lo spavento.
'E' tutto okay, sei qui nel tuo letto, tu stai bene, Sherlock sta bene, Rosie sta bene-'

Rosie.

Con il respiro ancora affaticato, girò la testa di scatto verso il baby monitor notando con orrore fosse spento.
Come aveva potuto disattivarlo?
Quel tuono di prima l'aveva sicuramente svegliata, non era una grande amante della pioggia, piuttosto ironico visto che abitava a Londra, ma non erano dettagli su cui soffermarsi in quel momento.
Si precipitò giù da letto, incespicando più volte nel lenzuolo che si era aggrappato con possessività alla sua caviglia, e dopo averci lottato con furore, corse verso la stanza di fianco.
Spalancò la porta colorata, scrutando con frenesia la stanza in penombra, illuminata solamente da una lampadina a forma di nuvola.

C'era quiete, fin troppa per i suoi gusti.
In due falcate, raggiunse il lettino di Rosie e per poco non urlò per lo spavento non appena lo vide vuoto.
Il panico lo assalì.
Affrettandosi per le scale rischiò più volte di ruzzolare giù, ma non ci diede più di tanto importanza.
La tempesta fuori imperversava, le finestre vibravano per il forte vento e si poteva udire un fastidioso sibilo.
Fatto anche l'ultimo scalino, entrò fulmineo nel salotto, guardandosi attorno frenetico come un disperato ma quando scorse la figura allampanata di Sherlock che teneva tra le braccia un fagottino rosa, riuscì a tirare un bel sospiro di sollievo.

"John? Che ci fai qui?"

Sebbene il detective avesse un'aria assonnata, la confusione era ben leggibile nei suoi occhi.
Senza contare l'impronta del cuscino impressa sul viso piuttosto ridicola.

"Mi sono spaventato a morte non vedendo Rosie nella culla" spiegò finalmente quieto, raggiungendo la postazione di fronte le grandi finestre.
La pioggia batteva incessante su di esse, lasciando delle piccole goccioline che colavano lungo il vetro.
In certi momenti, un lampo si faceva spazio nel cielo scuro, illuminando la stanza in penombra nella quale si trovavano.
Fuori regnava il caos, che loro osservavano protetti nel loro appartamento.

"Penso che la tempesta l'abbia svegliata, sono andato da lei appena ho sentito piangere."

Sherlock guardò Rosie come fosse la cosa più preziosa nell'intero universo e ne accarezzò con dolcezza la testolina, mentre beata sonnecchiava tra le sue braccia.
John increspò le labbra, godendosi quella scena fin quasi alle lacrime, sentendo anche un pelino fortunato.
Stava condividendo con lui un momento di "debolezza" umana, d'altronde nessuno poteva resiste al fascino di un tenero bambino.
Neanche il grande Sherlock Holmes.

Probabilmente non lo avrebbe mai riconosciuto, né tantomeno i loro conoscenti avrebbero approvato quell'affermazione, ma la convivenza con Rosie aveva ammorbidito lo sprezzante atteggiamento che spesso riservava agli altri esseri umani.
Specie con John.

Frequentemente si prodigava in piccoli ma ben apprezzati gesti, come preparare il caffè (senza sostanze stupefacenti all'interno) quando si svegliava per primo, badare a Rosie durante le logoranti giornate in ambulatorio, era più disponibile, più attento, servizievole e gentile.
In un’occasione o due aveva anche ripulito il tavolo degli esperimenti, per immensa gioia della signora Hudson; sebbene l'ordine fosse durato a malapena un giorno.
Inizialmente, John ne era rimasto deliziato e soprattutto esterrefatto, ma a conti fatti aveva capito che Sherlock conviveva con la paura di compiere un altro sciocco passo falso e di mandare tutto all'aria, perdendo sia lui che Rosie.

Sapere che veniva guidato dalle sue insicurezze, era una pensiero che lo intristiva e non poco, in quanto non riteneva necessari tutti quegli sforzi.
Effettivamente i trascorsi che avevano avuto potevano ritenersi valide motivazioni, tuttavia lasciare Baker Street, lasciare Sherlock, suonava come la più folle delle idee mai ideate prima di allora.
Avrebbe voluto comunicargli ciò che pensava, rassicurarlo che era una persona magnifica indipendente dai piccoli gesti che andava praticando, ma le parole ahimè non si azzardavano minimamente a venire a galla.
Leggermente cupo, venne colto da una realizzazione.

"Hai spento tu il mio baby monitor?"

La frase uscì più dura e accusatoria del previsto; in fondo non era arrabbiato, solo che non era stata la mossa più intelligente del mondo.
Sarebbe potuto succedere qualsiasi cosa e non se ne sarebbe accorto, certo così come in quel caso, Sherlock sarebbe intervenuto, ma non si sentiva comunque tranquillo al pensiero che qualcosa potesse accadere ad uno dei due, o peggio, ad entrambi.

"Oh sì, non volevo ti svegliassi" replicò sincero il detective, tenendo gli occhi fissi sulla bimba addormentata "vista la giornata pesante che hai affrontato in ambulatorio."
Fu allora che Sherlock alzò lo sguardo, scontrandosi con le sue iridi chiare.

Un tuffo al cuore.

La prima cosa che percepì John dopo aver udito quella frase, fu un tuffo al cuore.
Quei tuffi piacevoli, che ti scaldano il petto irradiando un senso di gioia e serenità, di quelli che ti mozzano il respiro senza accorgertene, vieni come catapultato in un mondo parallelo dove esisti solamente tu e quell'emozione che pian piano ti sopraffà.

Poi, giunse la consapevolezza.
La realizzazione.
Lo colpì talmente forte che quasi lo stordì, riportandolo bruscamente alla realtà, pari ad una secchiata d'acqua gelida durante una giornata afosa.

E infine, il terrore.
Si insediò in lui lentamente, una viscida serpe che ti attacca all'improvviso, partendo dal petto e irradiandosi in tutto il corpo, causandogli un brivido ghiacciato lungo la spina dorsale.
L'aria sembro farsi rarefatta, iniziò a respirare irregolarmente, gli occhi che faticavano a rimanere vigili.
La voce di Sherlock giunse ovattata alle sue orecchie, quasi come se la sua testa fosse sott'acqua, percependo a malapena ciò che gli veniva detto.

"Perdonami per averlo spento però-" il detective corrugò le sopracciglia, accorgendosi del disagio evidente "stai bene?"

Curioso e allarmato, lo scrutò con insistenza cercando di decifrare i sintomi che andavano palesandosi ma quella volta non gliela avrebbe data vinta, non era un libro che Sherlock poteva leggere a suo piacimento ogni qualvolta voleva.
Strizzò le palpebre e inspirò profondamente, prima di replicare con una risposta repentina e farfugliata.

"Sto benissimo."

Alla velocità della luce, fece marcia indietro nella sua stanza, senza neanche voltarsi, il cuore che batteva all'impazzata nel petto.
Si chiuse la porta alle spalle con un tonfo assordante; la temperatura corporea continuava ad aumentare, sembrava di essere in una sauna.
Scivolò con lo schiena fino a toccare il pavimento, il fastidio al petto andava facendosi più doloroso del previsto e la possibilità di respirare normalmente era ormai andata persa.
Passò le mani sudate sul viso bollente con frenesia, e poco dopo tra i capelli, tirandone con forza le estremità.

Magari aveva frainteso.

D'altronde era tardi, aveva ore di lavoro incessante alle spalle, parecchio sonno arretrato, insomma non si trovava in condizioni ottimali, quindi la sua mente poteva benissimo avergli giocato un brutto scherzo.
Ciò che aveva provato poco prima, e nelle settimane precedenti, non avevano alcun significato, erano mere e futili sensazioni, ordinarie e per nulla fuori dal comune.

Giusto?

Strinse con forza i pugni, percependo le unghie conficcarsi nei palmi fino a dolere, per poi rilasciare la presa, portando le dita alla loro massima estensione.
Il panico continuava ad avvilupparlo in un abbraccio talmente soffocante da fargli male, e per quanto ci provasse non riusciva proprio a placarsi.
Non voleva succedesse.

Eppure non aveva cercato in nessun modo di evitare che si verificasse, aveva lasciato campo libero, senza preoccuparsi delle possibili conseguenze.
E infatti, gli era stato fatale.
Strizzò gli occhi con forza, le lacrime che minacciavano di fuoriuscire pronte a macchiargli il viso; rivide le sue iridi chiare, il mezzo sorriso che gli aveva rivolto, la bocca che pronunciava quella tenera frase che continuava a ronzargli in testa.
Il riemergere dei sentimenti che provava per Sherlock Holmes era un lusso che non poteva permettersi in alcun modo.

***
 
 
 

 
4.
Di atroci conseguenze
 e parole non dette

 
 
Passarono diverse settimane.

Non sapeva dire con precisione quante, le aveva tutte vissute distrattamente, da non rendersi conto del tempo che scorreva inesorabile.
Era sbocciata una sorta di tensione tra i due coinquilini, o quantomeno John la percepiva ogni qual volta che si incontravano nell'appartamento.
Quindi praticamente sempre.
Era fastidiosa, quasi soffocante, come il colletto stretto di una camicia, o un ascensore angusto fin troppo piccolo.
Difficile a dirsi, era ciò che Sherlock provava e avvertiva in quegli incontri casuali.
Decifrare le sue emozioni era sempre stato e sempre rimarrà il caso irrisolvibile numero uno di John Watson.
Che ironia vero?

Del resto, non aveva comunque le forze per smuovere quella situazione, preferiva abbandonarsi alla corrente piuttosto che nuotarci contro.
L'aver riaperto il cassetto polveroso contenete le emozioni che aveva sperato fossero ormai acqua passata, lo aveva emotivamente e psicologicamente prosciugato.
Sembrava un corpo senza vita che si trascinava da casa all'ambulatorio, oppure al supermercato, un sacco di carne con sembianze umane che di umano aveva ben poco.
Ogni giorno ormai si dannava per aver scoperchiato quel vaso di Pandora, domandosi poi anche se fosse una reazione lecita o meno.

La verità è che non sapeva darsi una risposta, aveva solo miriadi di domande confusionarie che ronzavano nella sua testa, ventiquattro ore su ventiquattro.
E non sapeva neanche come questo suo atteggiamento venisse visto dagli altri, d'altronde aveva momentaneamente chiuso i rapporti con altre persone in maniera quasi normale, quindi l'unica che effettivamente poteva mostrare interesse era Sherlock.
Eppure, dopo l'episodio di quella notte, nonostante aveva letto preoccupazione genuina nei suoi occhi, il detective non si era minimamente sprecato a salire in camera sua per chiedere come stesse.
Né tantomeno si era premurato il giorno dopo, né quello dopo ancora.

Si poteva dunque dire che John aveva sviluppato una sorta di rabbia repressa mista a delusione nei confronti di Sherlock; nonostante fosse sicuro al cento per cento, che se per assurdo avesse provato anche solo a porgli una domanda riguardo le sue condizioni, non gli avrebbe minimamente dato corda.
Era fatto così, non voleva aiuto da nessuno ma allo stesso tempo bramava conforto con ogni fibra del suo corpo.

Naturalmente non aveva alcun diritto di avercela con lui, John sapeva essere piuttosto enigmatico quindi non c'era da stupirsi che Sherlock non avesse colto i segnali nell'immediato.
Diciamo che la situazione poteva essere definita complicata e che avrebbe di gran lunga preferito essere ingoiato dalla terra seduta stante piuttosto che affrontare se stesso.
Affrontare ciò che sperava fosse ormai un ricordo lontano, ma in tutto quel tempo non si era accorto di quanto quei sentimenti fossero stati un elemento costante negli ultimi mesi, anzi anni.

No.
Aveva sicuramente frainteso.
Era tutto nella sua testa, frutto della sua fervida e sciocca immaginazione.
Sentendosi solo la sua mente si era andata ad aggrappare al primo individuo disponibile pur di riempire il vuoto che Mary aveva lasciato ma non avrebbe funzionato.
Sherlock era il suo migliore amico, teneva a lui più di ogni altra cosa al mondo, e tutto finiva là.
Così iniziò a ripetere a se stesso quella filastrocca, nella speranza che ciò che andava blaterando diventasse la realtà effettiva.
Non era mai stato bravo a mentire, anzi l'aveva sempre trovata un'azione ripugnante, priva di fondamento e soprattutto irrispettoso nei confronti del prossimo, tuttavia quando si trattava di mentire a se stesso lo faceva con una tale naturalezza e semplicità.

Costruiva una gabbia attorno a sé senza esserne minimamente consapevole, credendo di star facendo la cosa giusta per sé stesso.

Preveniva il danno, anziché curarlo.
Sebbene alla fine non ci fosse nulla da prevenire, visto che nessun danno si sarebbe creato se avesse affrontato la questione poiché non c'era niente di irrisolto, ogni cosa era al suo posto.

Strofinò per l'ennesima volta le mani ricolme d'acqua ghiacciata sul viso, segnato dalla stanchezza e dall'età.
Tamponò per bene con l'asciugamano, prima di guardarsi allo specchio riposto sopra il lavabo: occhiaie piuttosto evidenti, un colorito opaco, la pelle che presentava una superficie parecchio secca.
Sospirò irritato ed esausto, allontanandosi rapidamente da quella lastra di vetro riflettente che aveva iniziato ad odiare.
Aprì la porta con forza e se Sherlock non avesse avuto dei riflessi pronti, probabilmente gli avrebbe spaccato il naso.

"Dovresti prestare più attenzione quando apri la porta, John" gli fece presente, il tono leggermente eloquente.

Impiegò tutte le sue forze pur di non replicare con una rispostaccia e riuscì miracolosamente a trattenersi.

"Sì, scusami" bofonchiò con sguardo basso, superandolo per raggiungere la cucina; aveva bisogno disperatamente di caffeina o sarebbe collassato da un momento all'altro.

Frugò frenetico nel pensile, senza trovare la tazza che solitamente usava e quando percepì una rabbia viscerale nascere dentro di sé, il detective fece capolinea nella stanza, sistemandosi con nonchalance la camicia.

"La tua tazza è sul tavolo, è ancora calda" e poi sparì nella sua camera da letto.

John si voltò, trovando l'oggetto dei suoi desideri lì dove gli era stato indicato; una leggera scia di fumo andava levandosi lentamente verso l'alto.
Gli scappò un mezzo sorriso, che spense immediatamente, non appena percepì un formicolio all'altezza dello sterno.
Stanchezza, non c'era altra spiegazione.

Sorseggiò irritato la bevanda stringendo la tazza con fin troppa forza, e si scottò appena le labbra, gesto che lo portò ad una muta imprecazione.
Forse il caffè non era l'ideale.
Poggiò entrambe le mani sul bancone, sorreggendosi, la schiena ricurva, la testa pesante, caotica.
Doveva schiarirsi la mente, distrarsi, isolarsi dal mondo che lo circondava.

Optò dunque per una doccia, l’acqua fredda gli avrebbe dato una svegliata ma d'altro canto l’acqua calda avrebbe sciolto il fascio di nervi tesi che era diventato.
Non era neanche più in grado di decidere che doccia fare senza porsi inutili dubbi e riflessioni.
Ulteriormente seccato, con passi veloci si recò nuovamente verso il bagno e un attimo prima che potesse aprire la porta, Sherlock, in tutto il suo splendore, riemerse dalla sua camera.
Sembrava brillare di luce propria.

John lo fissò rapito per qualche secondo, rischiando che la sua bocca si dischiudesse leggermente.
In realtà, non è che avesse effettivamente qualcosa di inconsueto, indossava il suo classico completo nero con tanto di camicia viola, i capelli avevano la solita forma sconclusionata e gli occhi glaciali sembravano luccicare.
Purtroppo per lui, era di una bellezza innata.

"Sto uscendo, Lestrade ha un nuovo caso per cui necessita il mio intervento."

Quella frase parve rimanere in sospeso, in quanto racchiudeva un invito rivolto a John per prendere parte all'indagine.
Sarà stata sì e no la trecentesima volta che quel messaggio subliminale faceva parte delle loro conversazioni.
Neanche quella volta venne smosso dalla sua decisione.
Lavorare con Sherlock non era più di sua competenza da quando tutta quella assurda storia era iniziata; la prima volta l'aveva liquidato con una scusa riguardante orari assurdi all'ambulatorio e beh si era protratta fino ad allora.
Un po' gli dispiaceva, l'adrenalina che provava nel risolvere crimini assieme al detective era una sensazione della quale non si sarebbe mai stancato, ma nell'ultimo periodo stare nella stessa stanza con lui era diventato soffocante.
Ed erano coinquilini.

I due si guardarono negli occhi a lungo, lo sguardo insistente che Sherlock gli rivolse trasudava desiderio e mancanza e John non poté far a meno di sentire il suo cuore fremere al solo pensiero.
Senza dire nulla, scostò lo sguardo ed entrò nel bagno.
Mentre apriva l'acqua per regolare la temperatura, udì la porta chiudersi e tirò un sospiro di sollievo, o forse frustrazione? Non era più sicuro di niente oramai.
Alla fine aveva optato per la doccia calda e in poco tempo la stanzetta si riempì di vapore, appannando lo specchio.
Fu allora che, nel ripulirlo dall'appannatura, scorse il candido volto di Mary che lo scrutava severamente.

"Dovresti parlagli."

Quelle parole riecheggiarono nella sua testa dolorosamente, il panico che pian piano prese possesso di lui.
Non poteva essere di nuovo là, le continue sedute dall'analista avevano ridotto e successivamente posto fine alle sue immaginarie conversazioni con il fantasma della sua ex moglie.
Ma ovviamente doveva tornare a tormentarlo giusto in quel periodo, perché non c'è mai fine al peggio.
Non fu comunque in grado di dire nulla, poté solamente fissare allibito la sua figura.

"E dovresti anche parlare con te stesso, ma sappiamo entrambi che ti è impossibile."

Scosse la testa ma non funzionò, era ancora lì, nel suo bagno, a fissarlo.
Cosa avrebbe dovuto rappresentare? La sua coscienza che gli diceva di darsi da fare anziché rimanere bloccato a fissare inerente la vita che inesorabilmente andava avanti?

"Parlagli John, parlate."

"No."

Fu l'unico suono che riuscì ad emettere, secco, deciso ma comunque flebile.
Si chiuse nella doccia con un'espressione imbronciata ed ignorò quell'episodio per tutta la giornata, come se si fosse trattato di un sogno febbricitante.
E sarebbe filato tutto liscio, se non fosse stato perseguitato anche nei giorni successivi.

Quantomeno, nelle prime settimane dopo la sua morte quella visione l'aveva ritenuta confortante, tanto da attaccarsi ad essa, ma in quel caso era tutt'altro.
Era come il rumore causato dal gesso sulla lavagna: atroce, snervante e che gli faceva venire voglia di urlare.
Certo sentiva la mancanza di sua moglie ogni giorno, la fede nuziale era ancora comodamente posta attorno al suo anulare sinistro, ma quel continuo tarlo nel cervello aveva reso l'intera situazione del tutto insopportabile.
Ormai era privo di forze, prima ancora che si verificasse quella magica apparizione, quindi non aveva più modo di affrontare il tutto.
Voleva solo riposare.

L'unica cosa che teneva incollati i suoi pezzi, era Rosie che nell'arco delle ultime settimane aveva iniziato a gattonare allegramente per tutto l'appartamento.
Ma non era abbastanza, non compensava il carico che doveva affrontare, tant'è che in più occasioni aveva dovuto affidarla alla signora Hudson o a Molly poiché non era nelle condizioni di prendersene cura e non aveva scelto Sherlock per paura si insospettisse, perciò si era inventato nuove scuse.
Perché ormai questo sapeva fare.

Mentire.

Bugie.

Bugie, bugie e altre bugie.
Si era ridotto a questo, era caduto più un basso di quanto pensasse, ignorava il suo migliore amico, ignorava sua figlia, ignorava il resto del mondo e ignorava se stesso.

Che squallore.
Accumulava e incassava colpi, non svuotava mai il barile che pian piano si stava riempiendo sempre di più.
Non lasciava trasparire nulla, era il ritratto della neutralità, dell'indifferenza ma era solo una facciata, una bel quadro appeso al muro per coprire un orribile crepa.
Ma non sarebbe resistito al lungo, la crepa si allargava di centimetro in centimetro, lentamente.
Fin quando un giorno, il chiodo non resse più, e il quadro cadde.

Rompendosi in mille pezzi.

***
 
 
 
 

 
5.
Tra caos, cocci e dubbi:
John e Sherlock
 

 
Era giusto ciò che provava? Era corretto nei confronti di Mary?

Forse c'era qualcosa di cui doveva parlare con Sherlock.
E Sherlock doveva parlare con lui.
C'era un non detto tra di loro.
Fin ad allora avevano trattenuto il fiato, incerti, in attesa che qualcuno parlasse.
Lo aveva capito ci fosse.
Ma non lo avrebbe mai ammesso.
Non avrebbe respirato, non per primo.
Anzi, avrebbe preferito soffocare.

Con ancora il pigiama indosso, giocherellava con la fede, girandola verso destra e poi verso sinistra, mentre brillava alla luce dei raggi solari che filtravano attraverso la tenda.
Mary lo fissava, erano passate quasi due settimane dalla sua miracolosa comparsa.
E lui era solamente peggiorato.

"Parla con Sherlock."

Sospirò, cercando di ignorarla quanto più possibile.
Si sentiva sporco.
Più di anno era passato e già andava chiedendosi se togliere la fede era lecito.
No, non lo era.
O forse sì?
Lo faceva per Sherlock? Assolutamente no.

Perché Mary voleva che parlasse con lui? Perché proprio lei? Perché proprio Sherlock? Perché discuterne? Discutere di cosa poi? Non lo sapeva.

Perché non aveva una risposta chiara per nessuna di queste domande? Non sapeva neanche questo.

Vide le dita tremare attorno alla fascetta dorata e di scatto strinse il pugno, arrestando il tremolio che parve spostarsi alla mano sinistra; anche essa venne immediatamente chiusa.
Era teso.
Confuso.
Disorientato.
Angosciato.
Nervoso.
Perso.

Perso nei suoi pensieri, nei dubbi, sguazzava allegramente nell'oceano e attorno a sé vedeva solo acqua, acqua e acqua, niente terre, niente navi.
Solo acqua, ovunque si girasse.
Perso nel vuoto, perso in se stesso.
Galleggiava senza sprofondare mai, nonostante bramasse con tutto se stesso che l'oscurità lo avvolgesse tra le sue gelide braccia.
Ormai si era dimenticato anche chi fosse, tanto valeva sparire e dimenticare tutto il resto.
Gli salì un groppo in gola, le mani che ancora tremavano, gli occhi si velarono di lacrime mentre affogava in quella marea di emozioni.
Esalò l'ultimo respiro, e qualcosa dentro di lui esplose.

"Parla."

La prima cosa che fece, fu scaraventare un vaso dall'altra parte del salone, che si infranse in mille pezzi.
Proprio come era successo a lui.
Si era alzato in piedi di colpo, e in quel momento si trovava in mezzo alla stanza, i pugni chiusi, il respiro affannato, gli occhi sbarrati.
Non si preoccupò del frastuono, né tantomeno della pioggia di cocci sparsa sul pavimento potenzialmente pericolosa; era chiuso nella sua bolla, tutto il resto non aveva importanza.
Preferì piuttosto dare un calcio vigoroso al tavolino, lo stesso dove prima si trovava il vaso, successivamente fu il turno della sedia e infine con un gesto plateale, rovesciò il contenuto della sua scrivania per terra.
Volarono penne, matite, lettere, assegni, bollette, libri, giornali, riviste, in una pioggia di carta, legno e acciaio.

E per quanto avesse dato sfogo al suo malessere interiore, non era abbastanza, non era soddisfatto.
E di certo non aveva ottenuto le sue risposte.
Ora il caos vigeva dentro di lui, e attorno a lui.

"John, che diamine..."

Voltò la testa con uno scatto secco.
La figura allampanata di Sherlock se ne stava inerte a fissarlo sull'uscio della porta, con aria visibilmente preoccupata.
Squadrò rapidamente la stanza, analizzando ogni minimo dettaglio, poi toccò a lui ad essere esaminato.

"Che ci fai qui?" gracchiò irritato, la gola annodata.

"Avevo dimenticato una cosa e quando sono rientrato la signora Hudson mi ha avvisato del frastuono, era piuttosto preoccupata."

Placido, Sherlock avanzò di qualche passo, facendosi spazio tra il cumulo di oggetti sparsi per terra.

"Tu stai bene? Cos'è successo?"

Che faccia tosta.
Conosceva perfettamente la risposta eppure veniva a chiederlo a lui.

"Vattene."

Pronunciò quella parola sprezzante, con decisione, puntando lo sguardo appannato negli occhi chiari del coinquilino.
Si sentiva messo a nudo.
E Sherlock andava ad osservare i dettagli della sua follia, facendosi largo senza permesso nella sua mente.
Lo metteva a disagio e non poco.
Anche se ormai non riusciva più a distinguere le forti emozioni che stava provando in quel momento.

Il detective non disse nulla, rimase silenzioso a fissarlo, un'espressione indecifrabile sul volto.
La rabbia ribolliva nelle vene, poteva percepirla, e quella lunga gara si sguardi muti tra lui e Sherlock lo stava spazientendo più del previsto.

"Ho detto vattene" ringhiò velenoso, alzando la voce, i pugni talmente stretti da avere le bocche biancastre.

Il cuore batteva rapidamente, rimbombava nella sua cassa toracica, nelle sue orecchie, nella sua gola, sentiva le vene pulsare, la testa dolere.
Era fuori di sé.
Neanche quella volta venne ascoltato.
Anzi, Sherlock si azzardò a fare un altro passo, la mano destra protesa in avanti in un timido invito a placarsi.
Gesto che non venne ben accolto.

John indietreggiò, trovandosi bloccato dalla scrivania; il respiro era ancora irregolare, non accennava minimamente a calmarsi e vedendo il suo amico avvicinarsi venne colto nuovamente dal panico.

"Lasciami in pace Sherlock" strepitò tremante, lo sguardo terrorizzato.

Parve funzionare, il suo passò si arrestò; forse aveva creduto avesse paura di lui.
Nessuno dei due sapeva in realtà quanto John desiderasse l'aiuto di Sherlock.

"Perché non fai mai come ti si dice?" chiese con rabbia, guardandolo dritto negli occhi "perché non puoi ascoltarmi per una buona volta?"

Cadde l'ennesimo silenzio.

I due rimasero a fissarsi per alcuni secondi che parvero infiniti, il tempo attorno a loro si era fermato, isolandoli dal resto del mondo circostante.
Le sue erano state domande retoriche, volte a lamentarsi, causate dal panico e dalla rabbia che si dibattevano dentro di lui, eppure Sherlock volle dare una risposta.
Lui aveva sempre la risposta ad ogni cosa.

"Perché ci tengo a te, John."

Il fiato gli si mozzò in gola per un breve attimo; quell'affermazione lo colpì più forte del previsto, stordendolo.
Fu un momento breve, pari ad uno schiocco di dita, poiché non appena lo vide riavvicinarsi, ebbe modo di sgusciare verso le poltrone e l'incantesimo che quella dolce confessione aveva lanciato, si infranse.

"Tieni a me?" si fece scappare una risata amara, "così come tenevi a Mary?"

Sherlock si bloccò di nuovo.
La piccola parte razionale del suo subconscio che ancora sopravviveva, si pentì di quelle parole aspre.
Ormai avevano superato quell'argomento, già da parecchio tempo, ma non ci badò più di tanto.

"John..." il detective fece per dire qualcosa ma venne interrotto bruscamente.

"Sono il grande Sherlock Holmes e vado in giro a fare promesse che non so mantenere! E sapete l'ultima? Tengo anche alle persone che mi circondano, incredibile vero? Niente più cuore di ghiaccio!"

Rideva e gesticolava, e delirava, vagando per la stanza come un folle.
Si sentiva quasi leggero, ma era una semplice copertura che il suo cervello aveva creato per non focalizzarsi sul suo effettivo straziante dolore.

"John ne abbiamo già parlato, lo sai-"

"Sai, l'anno scorso, avevo desiderato di aver preso io quel proiettile, ci crederesti mai? Io mi sarei sacrificato per te Sherlock..." mormorò con occhi lucidi, sempre con lo sguardo rivolto al suo coinquilino che quella volta, lo scrutò sorpreso, le sopracciglia inarcate.

Aveva ripreso a camminare verso di lui, non distava molto.

"Mi sono sentito tremendamente in colpa per aver lasciato che lei morisse, poi ho iniziato a rigettare tutto su di te come ben sai, arrivando a desiderare che avessi preso tu quel proiettile..." ammise sospirando tremante, le lacrime prossime alla caduta.

'Se lo avessi preso tu ora non sarei qui a struggermi per te, a sentirmi in colpa per il desiderio che provo, ma ad essere onesti se lo avessi preso tu non mi sarei mai perdonato.'
Naturalmente, non lo disse.

Resse ancora lo sguardo, combattendo con tutto se stesso contro l'impulso di abbassarlo.
Sherlock compì gli ultimi passi, giungendo a pochi centimetri da lui.

"John...comprendo il tuo dolore..."

La frase sarebbe dovuta continuare, ma John sogghignò e un sorriso amaro nacque sul suo volto.

"Come puoi capirlo, non sei mai stato in grado di amare qualcuno in vita tua."

Fu come se fosse esplosa una bomba vicino a loro, lasciandoli storditi e con un fischio nelle orecchie.
Il volto di John trasudava stanchezza, rabbia, dolore, mentre quello di Sherlock trasudava rammarico con una punta di stupore.
John Watson aveva ufficialmente toccato il fondo, il senso di colpa lo strinse in una morsa talmente soffocante, che percepì un dolore lancinante in qualsiasi parte del corpo.
Trattenne le lacrime con forza, ripetendo a se stesso che non si sarebbe messo a piangere, non voleva apparire più patetico di quanto già non fosse.
Avrebbe voluto rimangiarsi tutto, ingoiare a forza quelle sentenze sprezzanti che aveva vomitato addosso a Sherlock senza alcun diritto.
Non credeva ad una singola sillaba di ciò che aveva sputato e le scuse che avrebbe voluto pronunciare erano pronte, sulla punta della sua lingua, ma era troppo testardo per cacciarle fuori.
Continuo a guardare Sherlock negli occhi, avvolti da un silenzio assordante, che venne poi spezzato.

"Sappiamo entrambi che non è vero" sussurrò flebile quelle parole, che andarono ad infrangersi sul volto appena incredulo di John.

'Idiota.'
Fu il suo primo pensiero.
'Emerito, stupidissimo idiota.'
Era scattato qualcosa dentro di lui, un interruttore in grado di spegnere gradualmente quell'angoscia che si era divertita a giocare con le sua testa, riportandolo su la diritta via della razionalità e della calma.
Pian piano, prese coscienza di tutto ciò che aveva detto e fatto, e gli venne quasi da vomitare per quanto disgustato si sentisse.
Un leggero tremolio colpì le sue mani e poi le sue gambe, rischiando di fargli perdere l'equilibrio, tant'è che Sherlock gli offrì un muto sostegno, che venne gentilmente rifiutato, con altrettanto silenzio.
Aleggiava una strana tensione nella stanza, come se ci fosse un pubblico che fremeva, in attesa che uno dei due si sprecasse ad ammettere la verità.

Erano tutti stanchi di vederli giocare a rincorrersi, senza mai effettivamente prendersi e i primi ad esserlo erano proprio loro due.
Avevano aspettato, represso, negato, mentito per anni, nella speranza che quei sentimenti se ne andassero, vedendoli unicamente come una cosa passeggiera, non importante.
Ma non c'era stato verso, ed entrambi ormai avevano capito che era una causa persa, buttarsi e affrontare le conseguenze era l'unica opzione valida.

Era questo ciò che John voleva? Indubbiamente.
Voleva affrontare quel salto nel vuoto? Si.
Era giusto provare ciò che provava?

Lanciò un'occhiata alla sua sinistra, la figura di Mary che lo osservava con un tenero sorriso e lì capi che in fondo quel continuo tormento delle due settimane precedenti era stato a fin di bene.
In qualche modo, quel sorriso, valeva come una sua benedizione, che fece sparire in un soffio il peso che si era portato avanti fino ad allora.
Riportò lo sguardo su Sherlock, che in trepidante attesa lo scrutava e John si sarebbe buttato a capofitto in quel vuoto che lo attendeva, se solo un tonfo proveniente dal piano di sopra non lo avesse distratto.

Rosie.

Si era completamente dimenticato che sua figlia si era addormentata.
Lasciò rapidamente la stanza, salendo i gradini a due a due, seguito a ruota da Sherlock.
Con il cuore a mille, spalancò la porta colorata della cameretta e ciò che vide lo lasciò del tutto stupefatto.
La piccola Rosie, a quanto pare, si era calata giù dal suo lettino e ora se ne stava tutta contenta in piedi, sebbene con evidente difficoltà.

Fu allora che le lacrime sgorgarono incessanti, rigando il volto di John che fiero fissava incredulo sua figlia.
La raggiunse con cautela, sedendosi sul tappeto per stare alla sua altezza e le sorrise, scatenando una risata da parte della piccola, che altrettanto contenta agitò le braccia, finendo con il sedere per terra.
A quel punto fu John a ridere e con delicatezza aiutò la bimba a rialzarsi, scatenando un altro agitarsi di braccia, accompagnato da un misero tentativo di pronunciare la parola papà.

"Si Rosie il papà è qua ed è molto molto fiero di te" disse con un sorriso talmente ampio da fare dolere le guance, ancora bagnate per le lacrime.

Successivamente alzò lo sguardo verso Sherlock, che altrettanto commosso, se ne stava sull'uscio della porta ad osservare la scenetta piuttosto divertito.
John lo invitò a raggiungerli con un cenno di testa, cogliendolo appena di sorpresa, ma in men che non si dica, si sedette al suo fianco.

"Su Rosie fai vedere a Sherlock quanto sei brava."

Il detective offrì la sua mano come sostegno e la piccola si eresse nuovamente su due gambe, emettendo un qualche verso di contentezza.
John osservò la scena in silenzio, incapace di smettere di sorride e con il cuore ricolmo di gioia.
Spostò poi lo sguardo su Sherlock, scrutando il suo viso altrettanto illuminato; fu allora che vide la sua mano sinistra adagiata sulla gamba, e ripensò al momento verificatosi prima che venissero interrotti.

Fissò la fede al dito.
Rialzò di nuovo lo sguardo e poi lo riportò di nuovo sulla fascetta dorata.

Era il momento giusto? Ne sarebbe stato in grado? Sherlock si sarebbe stranito? Lui era veramente pronto?

Chiuse gli occhi, strizzando le palpebre, azzittendo qualunque dubbio provasse anche solo a sbocciare nella sua mente.
Per una volta, voleva dare retta al suo cuore.

Sfilò con delicatezza la fede, riponendola nella tasca dei pantaloni e mentre Rosie ricadeva nuovamente sul tappeto ridendo di gusto, prese un bel respiro e allungò tremante la mano verso quella di Sherlock.
Il primo contatto fece sobbalzare appena il detective, e John ebbe quasi l'impulso di ritrarsi, ma ormai aveva preso una decisione.
Sfiorò delicatamente il dorso, prima di fare combaciare i palmi, intrecciando successivamente le dita tra di loro, tutto sotto lo sguardo attento di Sherlock che con vigore, strinse la sua mano, in una muta conferma.
I due si guardarono.

John aveva il cuore in gola e fu sicuro di aver scorto un luccichio negli occhi chiari di Sherlock, che riaccesero in lui una sensazione che non credeva che avrebbe mai più riprovato.
Era desiderato, voluto, amato.
Venne sopraffatto, come se un'onda lo avesse appena colpito, e con accortezza, neanche stesse avendo a che a fare con una bambola di porcellana, ridusse la distanza tra loro, posando un leggero bacio sulla sua guancia leggermente ispida.
Il suo cuore batteva all’impazzata e prima che ebbe l'opportunità di ritrarsi, Sherlock afferrò la sua nuca, stampando un morbido bacio sulle sue labbra, cogliendolo del tutto di sorpresa.
E anche in quel momento, non si fece crucci inutili; senza esitare, ricambiò quel tenero, timido, impacciato bacio.

Sapeva di nicotina, quel bastardo aveva fumato di nascosto, e sapeva di attesa, una lunga struggente attesa.
Sapeva di parole non dette, di parole dette ma al momento sbagliato, di errori, di occasioni perdute, di disperazione, di bugie, di lacrime silenziose, di imprecazioni, di cuori spezzati.

Fu breve.
Ma ne valse comunque la pena.

Sherlock aveva gli occhi languidi, nonostante fosse ancora sotto shock, espressione che fece quasi ridere il povero John che tremante teneva ancora la mano sulla sua guancia.

"John sei sicur-"

John gli tappò immediatamente la bocca.

"Sherlock, per una buona volta nella tua vita, chiudi il becco" disse con un sorriso, scatenando una risatina da parte da entrambi, che non fece altro che farli avvicinare ulteriormente.

"Già forse dovrei proprio" replicò con dolcezza, lasciando un tenero bacio sul palmo della sua mano che era ancora avvinghiata alla sua guancia.

Il suo cuore fece una capriola.

"Quando Lestrade ti chiederà il motivo per cui gli hai dato buca, evita di menzionare il fatto che hai passato il pomeriggio a calmare e successivamente baciare il tuo coinquilino."

Scoppiarono a ridere nuovamente.

"Vedrò cosa inventarmi."

Sherlock gli rivolse un altro splendido sorriso, di quelli che riservava unicamente a lui e che lo facevano sentire l’uomo più fortunato del mondo, prima di assumere una faccia mortalmente seria.
Inutile dire che si spaventò a morte.

"John... dov'è Rosie?"

Girò di scatto la testa, trovando il tappeto vuoto.

"Abbiamo lasciato la porta aperta..." mormorò con occhi sgranati, prima di voltarsi nuovamente verso Sherlock che con aria altrettanto preoccupata, si alzò in tutta fretta, seguito da John.

I due corsero fuori dalla stanza, leggermente allarmati, non che ci fosse qualcosa di potenzialmente pericoloso in casa, ma i bambini sono conosciuti per cacciarsi nei guai nei modi più strani.
Fortunatamente trovarono la bimba illesa nella stanza di fianco ed entrambi con il fiatone, si sorrisero amorevolmente.

E in quel preciso istante, con sua figlia raggiante tra le braccia e Sherlock che teneramente stringeva entrambi, le labbra increspate all'insù, realizzò quanto fortunato fosse.
Poiché al suo fianco, lì nel 221B di Baker Street, vi erano le due persone che più amava nell'interno universo, e non avrebbe potuto desiderare di meglio.



Grazie mille per essere arrivato fin qui!
Spero sia stata di tuo gradimento, e se ne hai voglia lascia una recensione!
 E' una oneshot piuttosto mportante per me, ci ho dedicato anima e corpo nell'ultimo mese e mezzo, arrivando ad affezionarmici completamente, quindi spero vivamente che il mio sforzo sia stato apprezzato!! 

 
   
 
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