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Autore: Quella Della Pasta    17/03/2022    0 recensioni
Giada.
Seduta sul divano.
Che riflette sul perché capitino tutte a lei.
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Partecipa al COW-T col prompt poliamore e quattro personaggi.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
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prompt del COW-T (quarta settimana) (quella vera): Missione 4 (poliamore a 4) - A ama B, che però ama C e D, che amano B a loro volta. A è l’unica che ci rimette.





 

Giada sospira. Seduta a gambe larghe sul divano, sta guardando le buste della spesa da una buona mezz’ora. Non voleranno magicamente dal tavolo al frigorifero, anche se da piccola giocava ad essere maga Magò, solo per il gusto di vedere Alberto correre via, credendo che lei potesse trasformarlo in un ranocchio per davvero. Stupido era, e stupido è rimasto.

In realtà, non ha molta voglia di fare niente. Solo godersi quel pomeriggio silenzioso d’estate, col sole che le pizzica le braccia scoperte, filtrando dalla portafinestra cui ha dimenticato per pura pigrizia – di nuovo, ma in realtà è una costante, nella sua vita, e per quanto Viola glielo ricordasse spesso, Giada dubita che ascolterà mai i tardi consigli della sua insegnante per darsi una mossa a diventare una brava donna efficiente – di appendere di nuovo le tende.

Ah, e anche quel dannato rubinetto che gocciola.

Gocciola, gocciola, gocciola. Plic, plic, ploc. Una sola goccia fa un rumore differente. E poi ricomincia.

Tre gocce, non di più. Non una di più. Mai, una di più.

E Giada sospetta che non abbia ancora tentato di aggiustare quel maledetto lavello – che ci vuole, un’energica stretta a suon di chiave inglese e via – semplicemente perché prova empatia, per lui. Perché si rivede in quello sgocciolìo, che la capisce più di una canzone di Mina o di Dalla. Ma se lo raccontasse a qualcuno, la manderebbero dritta all’ospedale dei matti…

Quello sgocciolare è impietoso. Il ritmo è fisso, incatenato. Come quando Giada studiava pianoforte e Viola non le permetteva di aggiungere note ulteriori, se tutti i tempi erano già stati riempiti.

Non c’è spazio per una quarta goccia. Non ci sarà mai.

Ed era tutto iniziato per colpa della pioggia, ricorda. Di un acquazzone che – oh, se ne scatenava, di gocce!

Andava al liceo, ricorda. Ultimo anno. Ultimo giorno di scuola. Che lei avrebbe saltato, ovviamente, ma non c’era bisogno che i suoi genitori lo sapessero. Giada aveva rincorso invano l’autobus che avrebbe dovuto portarla al centro commerciale, dove le sue amiche la stavano aspettando per un gelato e un ancora più sano giro di vetrine. A quanto sembrava, anche l’autista del bus doveva avere una dannata fretta di mettersi al riparo. E lei s’era buscata una doccia coi controfiocchi, e niente ultimo salasso in compagnia.

Si era riparata sotto la tettoia del bar, incazzata nera. Il danno era ormai fatto, e nemmeno poteva tornare a casa ad asciugarsi.

Alberto era lì – ovviamente, aveva pensato lei, Alberto lo trovavi ovunque si perdesse del tempo, che fosse al bar, in sala biliardo o a quello stupido karaoke che mettevano su al centro giovanile. La sua scusa è sempre stata che non ce lo volevano mai, nei posti dove andava a fare qualcosa di utile. O a provarci, almeno. Giada non gli ha mai creduto, non una sola volta: né al liceo, né quando ha trovato quel lavoro in supermercato, e neanche adesso, che Alberto non vive più lì, nel suo stesso quartiere. A un palazzo di distanza, quand’erano piccoli, tanto che andavano l’uno a rompere le scatole all’altra in ciabatte, perfino in calzini se c’era una mamma a rincorrerli.

Fatto stava, che Alberto era lì. Sotto tutta quella pioggia, ma lui era asciutto. La cosa aveva irritato Giada anche di più.

«Ti serve un aiuto?»

Era salita da lui perché a casa sua c’erano ancora i suoi, si era detta, varcando la soglia del monolocale che Alberto affittava assieme ad altri due ragazzi. Per sua fortuna, quella mattina non erano lì. C’era soltanto il martellare ossessivo della pioggia a metterle fretta, mentre inciampava nei vestiti zuppi, con l’occhio fisso alla porta chiusa del bagno. Sai mai se a quell’imbecille veniva in mente di aprirla, anche solo per farle uno dei suoi stupidi scherzi.

Poi Alberto aveva messo su il caffè, e Giada era rimasta lì. Con tanti dannati sottintesi a fare da terzo incomodo fra loro, sul divano, in mezzo alla stanza. Tamburellavano sul vetro assieme alla pioggia, come a dire: fammi entrare, fammi entrare. Fammi rovinare la tua vita, ché sai che finisce sempre così.

Giada avrebbe voluto che si facesse avanti lui. Non che dovesse pensarci lei, e con una scusa patetica, per di più. «Grazie dell’aiuto…»

Ci aveva già pensato, in passato, a baciarlo. Alle medie. Quando tutte avevano già il fidanzatino, che avrebbero mollato ben prima della fine dell’anno, una di loro era finita incinta prima dell’esame finale, e lei si sentiva terribilmente inadeguata. Ancora la bambina che ripete maestra invece di professoressa, che ti aspetteresti vederla spuntare dall’angolo col grembiulino e con le trecce. Sa che è sciocco, eppure all’epoca le pareva così tanto importante. E poi, lei e Alberto si conoscevano dall’asilo. Chiedergli se voleva mettersi insieme a lei, be’, le pareva quasi naturale. Ma era l’anno in cui Alberto aveva imparato a fumare, e Giada storceva il naso già per il fumo, figurarsi quanto amari dovevano essere i suoi baci. Così ci aveva rinunciato.

Il punto è che Alberto aveva dei gran begli occhioni. Li ha ancora adesso, anche se Giada preferisce non immaginarseli. Occhi da cerbiatto in un volto terribilmente sbagliato. Pensa a quelli, si era detta, per indorarsi la pillola delle giustificazioni, ché ammettere di avere ancora una cotta per il proprio migliore amico è così da manuale che risulta imbarazzante per chiunque.

È salita da lui un’altra volta, in seguito. Dopo che avevano schivato per giorni il tarlo del ma allora stiamo insieme o no?, ché per due bacetti sul divano non si sposa nessuno, suvvia. E quello stupido ancora non s’azzardava a chiederle niente, nemmeno quello.

Quello, è stato il giorno in cui ha conosciuto Moira. Di nome e di fatto, aveva pensato Giada, vedendo quant’era pallida, gli occhi incavati, praticamente anoressica. Uno degli amici di Alberto aveva cambiato casa, e al posto suo era arrivata lei.

«Appena sbarcata dalla Transilvania», aveva commentato Giada a mezza voce all’orecchio di Alberto, mentre lui metteva su un altro caffè.

Ricorda pure la stretta allo stomaco quando le era arrivata la sua occhiataccia. «Ha solo bisogno di aiuto. Di un posto dove stare.»

«Perché tu adesso fai la carità, eh?»

«Madonna, Giada, quanto rompi. Faccio qualcosa, non è quello che volevate tutti?» Alberto aveva preso lo zucchero, portato le tazze in tavola, e la questione era finita lì. Almeno per lui.

Non che Giada non ci abbia provato, eh, a diventare amica della sua Moira.

Moira di qua e di là, Moira ha bisogno di questo e di quello. Un’approfittatrice in piena regola. E Alberto non aveva solo gli occhioni da cerbiatto, aveva anche il cuore esattamente così stupido. Giada usciva con loro, o loro uscivano con lei, ma quando Alberto le si rivolgeva, si sentiva sparire come doveva essere successo alle ossa di Moira. Adesso non è più così scheletrica, e non indossa più tutto quel nero – Alberto sì, l’ha sempre indossato, e gli è sempre stato di merda – ma, be’, non può pretendere di salutare Giada col più luminoso dei sorrisi.

Adesso la vita ti arride, eh, Moira? Quando come una goccia aveva iniziato a cadere, e cadere, e scavare, e scavare, nel sasso compatto e un po’ monotono che Giada aveva avuto sotto i piedi per tutta la vita. Anche se non è stata lei a mandarlo in frantumi, pure che Giada ci avrebbe scommesso. Alberto le parlava ancora, in fin dei conti.

No, doveva arrivare Andrea, a romperle le palle, le giornate e l’equilibrio precario della sua vita in generale.

Giada ci ha messo tre giorni per capire da dove diamine fosse uscito; sulle prime, era convintissima che fosse scappato da un circo. Parlava troppo, rideva a sproposito, era irritante a livelli che Alberto e la sua stupidità non avevano mai raggiunto. E perdeva anche più tempo di lui, cosa non da meno. Non lavorava, non studiava, era forse ricco di famiglia? Mah. Non si era mai sbottonato sull’argomento. E adesso fa il ragioniere. Come si riduce certa gente, cogli anni…

Ma tutta la sua invidia non avrebbe scalfito di un minimo il modo in cui Alberto aveva iniziato a guardarlo, Giada lo sapeva. L’ha sempre saputo. Andrea è stato per lui un raggio di sole nella pioggia, e per lei la terza goccia che ha mandato in rovina il sasso, il suo appiglio, e al momento anche il suo lavandino. Giada è capacissima di convincersi che è stato Andrea a convincerlo telepaticamente a farle perdere il sonno ogni notte, ma non vuole finire per davvero all’ospedale dei matti, e quindi bada bene a trattenersi.

Aveva visto Moira sorridere per la prima volta con Alberto, ma l’aveva sentita ridere per la prima volta solo con Andrea. Giada non era una stupida, al tempo, erano passati gli anni delle medie; sapeva già che qualunque malìa avesse quell’Andrea attorno, non sarebbe bastata la sua migliore imitazione di maga Magò ad annullarla, a incrinarla anche un poco, pochissimo guarda, solo di un pezzettino cosicché anche lei potesse trovare il suo posticino in quella serie di ingranaggi. Anzi, ri-trovarlo. Era stata sbalzata via senza preavviso e senza lode, e di chi era la colpa?

Ma di Alberto, chiaramente. Che nemmeno le ha telefonato, per dirle che si trasferiva. Ci ha dovuto pensare Moira. Uh, che cara.

Non era più andata in vacanza con loro, la sua prima ed unica volta le era bastata. Moira non era mai stata al mare, la sua salute non gliel’aveva mai permesso, e che problema c’era? C’era la casa al mare dei genitori di Alberto, c’era la macchina di Andrea per portarcela. E poi Giada conosceva un sacco di posti carini sul lungomare, non è vero, Giada?

Aveva dovuto annuire a labbra strette e sorriso forzato per non cacciare la testa di Alberto sotto quel lavandino e annegarcelo. Forse è per questo, che gocciola, si rende conto all’improvviso. Una specie di vendetta divina per averlo anche solo pensato. O per aver sprecato l’occasione, pure. Non che faccia molta differenza, per lei. Sola era all’epoca, e sola è rimasta.

Quella sera, era salita in paese per pura disperazione. Non ce la faceva più, ad orbitare intorno a quei tre, le parlavano e ridevano con lei ma Giada non riusciva a sentirsi partecipe con un’intensità che aveva quasi del patologico. Si sentiva soffocare, paradossalmente, le serviva spazio, anche se non ne occupava nessuno. Si era fatta un giro, si era finta una turista solitaria, aveva perfino parlato inglese con un gruppetto di turisti a caccia di indicazioni, tanto per divertirsi. Ma non poteva affittare una stanza soltanto per quella notte, soltanto per evitarli, una notte sola di completa libertà, di aria non più viziata: era da pazzi, e dunque era dovuta rientrare.

Avrebbe tanto non voluto vederli a letto insieme. Pure se stavano dormendo, sicuramente stremati, e senza che Giada avesse acceso alcuna luce. Ché un conto è quando immagini solamente, puoi interrompere la tua fantasia quando vuoi. Un conto, è quando la realtà ti dà uno schiaffo in faccia. O fa cadere la goccia a far traboccare il metaforico vaso. Solo, in quel caso, il vaso era la sua corta speranza di avere ancora un significato, all’interno di quella canzone dal ritmo irregolare. Lei ci ha pure provato, a seguirla, a darsi un tempo per non restarne fuori, per non essere la nota stonata. Non poteva funzionare, evidentemente.

Così, è arrivata fin lì. Su quel divano, in quella casa riscaldata dal sole estivo, con un lavandino che gocciola e una spesa che non ha voglia di mettere a posto.

Giada butta un’occhiata, sempre più stanca, alla sua borsa. Il suo cellulare è lì. Il numero nuovo di Alberto, pure. «Per qualunque cosa…», ma lei aveva staccato l’attenzione subito dopo quelle tre parole. Lo sa, che vivono ancora insieme. Tutt’e tre. E che ai suoi genitori non stia bene, e che per questo Alberto non parla più con loro. Giada li vede sempre, dalla vetrina dello studio dove fa la parrucchiera: Andrea che rientra dal lavoro, e che quando la vede, agita la sua cartellina in segno di saluto; Moira, più spesso, ché si fida a farsi tagliare i capelli solo da lei, una volta corti e rossi, la volta dopo ancora ricci e blu. E Giada dovrebbe essere felice almeno di questo, no?, che qualunque demone stesse mangiando Moira, adesso è sparito e lei è tornata a vivere…

Vorrebbe farlo anche lei. Invece di trascinarsi. Vorrebbe tanto smetterla di considerarsi una goccia che non cadrà mai. Plic, plic, ploc.

Giada si slaccia i tacchi, si stende un po’ sul divano. E chiude gli occhi.

Dopo, si dice. Penserà a tutto dopo. A sistemare la spesa, ché tanto non ha preso surgelati; a farsi una doccia, anche, ché da quel caldo non c’è riparo nemmeno in casa; e ad aggiustare quel lavandino, ché forse è più importante.

 
   
 
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