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Autore: flyerthanwind    22/03/2022    0 recensioni
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La vita di Sam è quanto di più normale esista: ha una gemella che la conosce meglio delle sue tasche, un fratello con cui condivide la passione per il calcio e una squadra a cui tiene più della sua media scolastica –ma questo non ditelo alla madre!
Eppure, dal giorno in cui un vecchio amico di suo padre si trasferisce in città, la situazione prende una strana piega. Innanzitutto, le motivazioni del trasferimento appaiono strane, suo padre è strano e i sentimenti sono strani. Questo perché il figlio del tipo di cui sopra ha uno strano potere attrattivo nei suoi confronti.
Ottimi presupposti per una bella dose di disagio, non vi pare?
Genere: Commedia, Romantico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Finale di campionato

La finale di campionato è l’evento più atteso dell’anno per gli sportivi. Dopo una stagione di sacrifici, sconfitte immeritate, vittorie fortunate, partite combattute fino all’ultimo secondo, nella finale spesso ci si gioca il titolo. Come nel nostro caso.

La lega femminile era combattuta fino al novantesimo minuto, solo il triplice fischio dell’arbitro stabiliva le vincitrici, non c’era mai stata una vittoria matematica prima dell’ultima di campionato.

Per questo si arrivava a quell’ultima giornata con un carico pesante di ansia da prestazione, stanchezza accumulata e timore di mandare alle ortiche quanto di buono fatto durante tutto l’anno. Alcuni, poi, la affrontavano peggio di altri.

«Miller, se ti fermi un’altra volta a respirare ti faccio correre a calci in culo!»

Appunto. 

Monica Jakobs era una di quelle che le affrontava nel modo peggiore di tutte. Vuoi perché era la capitana, vuoi perché era l’anno del suo diploma e quella sarebbe stata l’ultima partita disputata al liceo, vuoi perché c’erano gli osservatori del college… Sta di fatto che pretendeva il massimo.

O meglio, Monica pretendeva sempre il massimo, ma quel giorno chiedeva l’impossibile.

“Ho ancora bisogno di respirare per vivere” pensai, non avendo il coraggio di dirlo ad alta voce. Quella pazza avrebbe davvero potuto prendermi a calci durante la partita e no, al contrario di quanto sosteneva Malcolm, il crack non c’entrava proprio nulla.

E poi non potevo parlare, dovevo risparmiare il fiato per la corsa.

Le nostre avversarie ci stavano dando del filo da torcere. D’altronde le vincitrici della partita avrebbero vinto il campionato dato che eravamo in parità, quindi tutte eravamo estremamente agguerrite e affatto disposte a cedere terreno.

Erano trascorsi ottanta minuti senza reti, durante i quali avevo sentito il fiato mancarmi più volte a causa della corsa forsennata per impedire alle avversarie di recuperare un pallone o per aiutare le mie compagne a raggiungere l’area di rigore.

I muscoli delle gambe tremavano quando rallentavo, non abituati a quei ritmi; il cuore non pulsava più in funzione dei miei movimenti, ma lo sentivo accelerare i battiti ogni qualvolta le altre intraprendevano un’azione potenzialmente pericolosa.

La milza mi doleva incredibilmente, dolore condiviso con le mie compagne a giudicare da come tutte si tenevano il fianco sinistro, eppure nessuna rallentava la corsa, nessuna chiedeva il cambio, nessuna si avvicinava all’allenatore per avere dei sali minerali.

Il sudore che colava sul viso sembrava simile a pioggia tanto era abbondante, ma non avevo il tempo di asciugarlo con il braccio che già grondavo di nuovo. Probabilmente puzzavo anche.

Quando la bionda che ci aveva messo i bastoni tra le ruote per tutta la partita recuperò palla e scattò verso la nostra area di rigore, puntai i piedi e cominciai a correrle dietro. Era pericolosa e non potevamo permetterci di subire un goal a quel punto perché avrebbe devastato il nostro morale.

Kate era risalita dalla fascia opposta e le stava alle calcagna insieme ad altre tre ragazze. Per fortuna non ci mettemmo molto a contenerla: marcammo le sue compagne e lei si ritrovò faccia a faccia con la portiera, che intercettò il suo tipo senza grosse difficoltà. 

L’azione riprese in un attimo. Lanciò la palla con una forza tale da mandarla quasi a centrocampo, Monica si lanciò all’inseguimento con le avversarie alle costole e tentò il tutto per tutto. Calciò di destro, il suo piede prediletto, con potenza e verso la porta avversaria.

Le probabilità che segnasse erano bassissime, la distanza era notevole e da lì non poteva avere la stessa precisione che sfoggiava nell’uno contro uno. Il pallone roteò infinite volte durante la sua traiettoria. Tutte eravamo immobili a osservare la scena, persino dagli spalti era calato il silenzio.

Nessuno osava respirare.

Quando la palla raggiunse l’area avversaria, la portiera tentò di uscire e intercettarla. Era alta e provò a seguirla arretrando di diversi metri, senza mai perderla di vista. Tutto sembrava perduto quando colpì la traversa.

Invece… traversa e goal. 

Il pallone rimbalzò contro il palo alto, sbatté a terra e oltrepassò la linea di rete.

Un boato si levò dagli spalti, esplosi dopo che il quarto uomo ebbe alzato la bandierina per appurare la regolarità del goal. Si alzarono tutti in piedi, levando le mani al cielo e facendo partire un coro per celebrare la nostra capitana.

Monica crollò a terra, incredula. Eravamo stanche, distrutte, ma l’entusiasmo ci diede la forza di correre verso di lei. Le fummo addosso in un attimo una piramide di corpi sudati e code svolazzanti si erse al centro del campo. Persino il mister, che solitamente non si lasciava coinvolgere dalle nostre esultanze se non a fine partita, ci raggiunse, baciandoci le fronti a una a una.

A quel punto il gioco diventava pericoloso. La piccola compagine della fazione opposta, rimasta in silenzio fino alla ripresa della partita, prese a fomentare le calciatrici. Sembravano diventate più veloci del vento o, forse, eravamo noi che ci stavamo lasciando andare. 

Ma non potevamo permettercelo, come ci ricordò proprio Monica. «Se mandate in fumo il mio miracolo, giuro che vi uccido con le mie mani» urlò, sfrecciando tra noi con l’energia presa da chissà dove.

Durante l’ennesima azione, Kate entrò a gamba tesa su una delle avversarie in procinto di tirare in rete. Evitò il goal, ma rimediò un rigore che non potevamo permetterci di subire. E si beccò l’espulsione da doppio giallo, giusto per non farsi mancare niente.

Monica marciò verso di lei con aria assassina, borbottando qualcosa che somigliava terribilmente a «Tomson, sei una donna morta». Rabbrividii e la intercettai, dando così alla mia amica il tempo per sparire dalla vista della nostra capitana. Lei mi lanciò un’occhiata che mi fece rabbrividire e mi allontanai alla svelta – volevo sì salvare la mia amica, ma ci tenevo alla mia pelle – imitata dalle compagne. Nessuna avrebbe osato mettersi in mezzo in quel momento.

Per fortuna Kate sparì in un lampo e l’arbitro ci fece sistemare in barriera. La biondina odiosa – a fine partita le avrei stretto la mano e mi sarei complimentata, finché eravamo in campo era solo la mia terribile avversaria – si mise in posizione e, al fischio, calciò.

Al contrario del tiro di Monica fu istantaneo, ma lo vivemmo comunque al rallentatore. Il pallone entrò e fu il turno della nostra scuola di ammutolirsi. Nessuno osò fiatare mentre le avversarie esultavano assieme ai loro tifosi.

Non potevamo permetterci la parità perché, per scontri diretti, loro avrebbero vinto il campionato. Era la nostra occasione di dimostrare che la squadra femminile era valida tanto quanto la squadra maschile, che si era assicurata la vittoria con tre giornate d’anticipo e aveva disputato l’ultima di campionato il pomeriggio precedente.

«Ragazze, non possiamo arrenderci proprio adesso» mormorai al gruppetto che si riunito vicino al Mister. Monica teneva le distanze, passeggiando sconsolata per il campo. «Capitana, abbiamo bisogno di uno dei tuoi discorsi motivazionali travestiti da minacce» urlai, richiamando la sua attenzione.

Sapevo di correre un rischio dato che avrebbe potuto uccidermi con lo sguardo, invece sembrava ciò di cui aveva bisogno anche lei. «Allora, stronzette» ci raggiunse, invitandoci ad accerchiarla. «Questa partita mi serve per avere la mia cazzo di borsa di studio, quindi datevi da fare! Se non potrò andare al college, finirò in galera per omicidio, siete avvisate.»

Inquietante, me ne rendo conto, ma da Monica non ci si aspetta altro. 

Ci staccammo con un grido di incoraggiamento proprio mentre anche le avversarie stavano riprendendo posizione in campo. La nostra tifoseria si animò di nuovo, riprendendo a sostenerci a pieni polmoni.

Furono minuti interminabili durante i quali corremmo come forsennate da una parte all’altra. La milza non la sentivamo più, le gambe andavano da sole e la mancanza di fiato smise di essere un problema – alla fine Monica aveva ragione, respirare non era così indispensabile.

Il novantesimo era ormai passato e l’arbitro diede ben sei minuti di recupero per il tempo perso durante le esultanze. Credevo che non ne avrei retti nemmeno due, invece, contro ogni aspettativa, i muscoli continuavano a pompare e le gambe si muovevano per inerzia.

I battiti avevo addirittura smesso di sentirli, a meno che non fossi morta dovevano essere alle stelle. Per un istante sperai che mamma, negli spalti a fare il tiro insieme a papà e Amy mentre Lucas dirigeva gli ultras, avesse con sé un defibrillatore. Il pensiero mi sfiorò appena perché, quando il pallone mi volò davanti, spensi il cervello.

In certe occasioni è meglio non ragionare e lasciarsi guidare dagli istinti. 

Con uno stop di petto lo intercettai dalla mia avversaria e presi a correre verso la porta. Vedevo con la coda dell’occhio figure che mi inseguivano con divise diverse dalla mia, ma non me ne curai. Continuai a correre per tutta la metà campo avversaria, cercando le mie compagne con lo sguardo.

Quando una di loro mi placcò da sinistra virai a destra verso il centro campo e trovai Monica ferma davanti la porta. Si era appena smarcata e non aveva nemmeno notato che le ero vicino, ma non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione.

Le lanciai la palla in uno dei miei assist migliori, lei la calciò in volo e la spedì tra le maglie della porta. Poi l’arbitro fischiò tre volte.

A quel punto la situazione divenne confusa. I tifosi invasero il campo in una fiumana urlante, Monica scoppiò in lacrime e io fui placcata dalle mie compagne.

Le avversarie erano a terra, qualcuna in lacrime. Si consolavano a vicenda e il mister le abbracciò una per una. Mi avvicinai alla biondina e le strinsi la mano, facendole i complimenti, poi fui risucchiata dalla calca.

Un paio di mani mi afferrarono i fianchi e mi sentì scuotere con vigore; solo mio fratello poteva avere quella presa così salda mentre mi sollevava letteralmente da terra. «Sei stata grande!» mi urlò nelle orecchie prima di stringermi a sé. 

A Lucas non importava che ero completamente sudata – probabilmente puzzavo anche – mi avrebbe stretta sempre in un abbraccio trita-costole per festeggiare insieme a me. 

«Voi Miller avete qualche aiuto divino» disse Boot quando ci staccammo prima di abbracciarmi a sua volta, seguito poi da Garret. «Fate aiutare pure me e Malcolm» aggiunse lui, la capigliatura afro per metà appiccicata alla testa a causa del sudore. Anche tifare era faticoso.

Non ebbi modo di rispondere che mi sentii sollevare di nuovo. Delle braccia mi circondarono la pancia e mi fecero volteggiare mentre una cascata di boccoli biondi entrava nella mia visuale. Risi del suo entusiasmo e allungai le braccia per sfiorargli il collo sebbene fossimo schiena contro petto.

Un fischio mi distrasse e Austin mi mise giù. Di fronte a noi, Amelia ci squadrò da capo a piedi con un sorriso allegro. «Sei stata bravissima» disse e la sua voce rimbombò come una cannonata nel frastuono. La sua opinione per me avrebbe sempre contato più di chiunque altro. Margot, accanto a lei, le teneva la mano e si complimentò a sua volta. 

«Mi risparmio volentieri l’abbraccio, il mio può prenderlo riccioli d’oro» la mia gemella fece l’occhiolino ad Austin, ancora dietro di me. Lui mi strinse più forte e io mi voltai, finalmente circondandogli il collo con le braccia. 

Baciai le sue labbra carnose con impeto e, come sempre, mi sentii bene. La milza non doleva, il fiato corto era diventato piacevole e i muscoli parevano essersi ripresi tutto a un tratto; nemmeno le palpitazioni erano un problema, se provocate da lui.

Austin mi abbracciò, spalmandosi contro di me nonostante il sudore – e il puzzo… che vergogna! – e mi baciò la fronte prima di parlare. «Sei stata pazzesca» sussurrò, isolandoci dal resto del gruppo che intanto si era perso in commenti alla partita. 

«Grazie» ricambiai la stretta, posando la testa sul suo petto. Era l’adrenalina a tenermi in piedi insieme alla sua vicinanza. Senza di lui sarei stramazzata al suolo. «Credo di puzzare» aggiunsi, giusto perché se non se n’era accorto era giusto che glielo facessi notare, dato che non mi aveva svelato il suo segreto per profumare di rosa.

«Giusto un po’» rise, accarezzandomi la schiena, «ma sei bellissima anche se puzzi» posando il capo sul mio e tornando a stringermi ancora.

Amavo i nostri abbracci, erano saldi come il marmo e leggeri come la polvere di stelle.

Ci staccammo solo quando i miei genitori riuscirono a vincere la calca e a trovarci. Mamma mi strinse forte, sussurrandomi che era tanto orgogliosa di me con il tono sottile e instabile di chi sta trattenendo un pianto. 

Faceva tanto la dura, ma poi si emozionava ogni volta che io e Lucas vincevamo qualcosa; in quei momenti, poi, dimenticava persino di essere schizzinosa oltre i limiti dell’immaginabile e non le fregava più di tanto di impregnarsi col nostro sudore.

Papà, abituato a vedere le nostre partite, si lasciò andare a un commento più tecnico, evidenziando le mie azioni migliori e l’assist che ci aveva portate alla vittoria; non c’era tuttavia bisogno di leggere tra le righe per capire che anche lui era orgoglioso e contento per noi.

Nulla sarebbe riuscito a rovinare quel momento, nemmeno Martin Hurt e la sua ombra che si aggiravano nel campo con aria sconsolata, fulminando con lo sguardo le mie compagne di squadra che festeggiavano allegre.

Suo padre ero uno dei maggiori sostenitori economici della campagna sportiva scolastica e la nostra vittoria avrebbe determinato una redistribuzione dei fondi più equa. Evidentemente non era contento di dover condividere i suoi soldi con delle stupide ragazze che corrono dietro un pallone e con una in particolare che, a suo dire, non è nemmeno una ragazza.

Distolsi lo sguardo. Nulla sarebbe riuscito a rovinare quel momento.

Mamma tirò fuori dalla borsa un termos contenente acqua e Sali minerali e cominciò a distribuirlo in giro, placcando per prima Kate che continuava a girare in tondo come una trottola e aveva l’aria di una che sarebbe collassata a momenti; papà stava chiacchierando con Lucas, Malcolm e Boot a proposito del college, Austin li ascoltava in silenzio e, intanto, mi cingeva le spalle, stringendomi a sé; Amelia stava fulminando qualcuno con lo sguardo e Margot, sempre unita a lei con le mani intrecciate, la rimproverava bonariamente.

Inspirai il profumo di shampoo dei riccioli d’oro del mio ragazzo, posai la testa sul suo petto e socchiusi gli occhi, pensando che non sarei mai stata più felice di così.

Per fortuna mi sbagliavo.

   
 
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