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Autore: moganoix    24/04/2022    0 recensioni
- SEQUEL DI FIREFLIES -
Minho, giunto finalmente al palazzo della Capitale in groppa al drago di Jisung e accompagnato dallo stesso Cantastorie morente, sembra adattarsi bene ai ritmi della corte, non gli piace farsi notare.
O, almeno, questo è quello che pensava Changbin prima di finire quasi ammazzato a causa della nuova Fonte della Felicità. Ha proprio l'impressione di avere un enorme deja vu...
Genere: Angst, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Felix, Han, Lee Know, Sorpresa
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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TRIGGER WARNING: in questo capitolo vengono menzionati atti di violenza e stupro. NESSUNO di essi è descritto nei particolari, ma vi invito a non leggere (o a leggere con cautela) in caso i suddetti argomenti urtino la vostra sensibilità. Per eventuali chiarimenti sono sempre disponibile a parlare in privato.
 
 
In questo capitolo, le parti in corsivo sono di testo corrente con narratore esterno (come negli scorsi capitoli). Quelle segnalate invece dai cerchiolini ◦●◌●◦ sono narrate in prima persona da Minho.
 




 
Minho non era affatto bravo con le parole. Già da bambino, non era mai stato il più loquace della comitiva di amichetti in cui era riuscito ad inserirsi prima di trasferirsi al Nord. Da dopo che suo padre aveva scelto di portarlo con sé all’avamposto militare in cui presidiava agli addestramenti dei nuovi cadetti non osò quasi più aprir bocca e, anche in seguito al diploma di guardia reale, non aveva mai trovato nessuno con cui confidarsi, quindi aveva finito per tenersi per sé lo strazio, vivo e pulsante, che si portava dentro.
Si ostinava a ripetersi che anche Jisung non faceva differenza, il corvino era cresciuto troppo diffidente per affermare – o, anzi, ammettere – che quel ragazzetto tanto intelligente e tanto saggio appariva davvero diverso da chiunque altro avesse mai incontrato in vita sua.
Beh, chiunque altro meno una sola persona, una persona di cui nessuno aveva più memoria tranne lui.
 
◦●◌●◦
A C Q U A
parte seconda
 
Quando compii dieci anni mio padre decise di portarmi con sé al Nord perché aveva intenzione di farmi intraprendere l’addestramento militare come lui. Nell’ultimo periodo la sua carriera era letteralmente decollata e, da semplice supervisore di uno dei tanti settori del campo di addestramento, era piano piano riuscito a salire di grado e ad essere eletto tra i Quattro comandanti del campo stesso. Da parte degli elettori, l’aver posto mio padre su quello scranno per sola meritocrazia, e non per raccomandazione dalle alte sfere militari della Capitale, era stato un gesto rischioso, ma alla fine tutti lo accettarono di buon grado. Nonostante ciò, lui iniziò a sentirsi costantemente minacciato dai membri più anziani, i quali, tradizionalisti e, in fondo, invidiosi, avrebbero preferito candidati con più esperienza, magari anche appartenenti alla loro boriosa cerchia. Questi non avrebbero esitato ad annientarlo al primo errore. Appartenevano a famiglie benestanti, possedevano banche, territori, non ci avrebbero messo molto a farlo retrocedere a soldato semplice, nonostante tutto l’impegno che lui metteva nei suoi incarichi. Mio padre proveniva da un ceto povero, tutto ciò che aveva ero… Ero io. Io e il suo amato lavoro. Mi piaceva sentirlo parlare di quanto fosse soddisfatto nel vedere i suoi cadetti crescere e formarsi tanto per bene, per questo lo seguii a Nord senza fiatare, nonostante il mio sogno sia sempre stato quello di visitare il Sud.
Non avevo idea che anche io avrei dovuto inserirmi tra i suoi ranghi. Non appena venne eletto comandante il suo pensiero fu quello di procurarsi un successore, e, in fondo, chi all’infuori di me, che non vedevo mai l’ora di ascoltare una nuova storia di cui lui era il protagonista, l’eroe senza macchia e senza paura, poteva ricevere la sua eredità? Devo averlo illuso così tanto da indurlo a credere che anche io desiderassi quel genere di vita, quando tutto ciò che volevo era averlo con me assieme ai miei nonni.
A undici anni, l’età minima per iscriversi all’accademia militare, mio padre compilò quindi la domanda di ammissione e mi trasferii a tutti gli effetti nel suo campo di addestramento. Per un annetto scarso avevamo affittato un appartamento in una cittadina montana lì vicino, quando cominciai gli allenamenti lo abbandonammo entrambi. Io abitavo in un dormitorio con altri nove ragazzi, mio padre invece alloggiava in una stanza privata nel piano riservato a lui e agli altri tre comandanti. Soffrii parecchio il distacco improvviso. Immaginavo di vederlo almeno durante le lezioni teoriche o qualche allenamento specifico, invece l’unico momento in cui ci incrociavamo era durante l’appello mattutino, appena prima di colazione. Speravo sempre che intonasse il mio nome con una voce leggermente più affettuosa, ero pur sempre suo figlio! Invece mi trattava come se fossi uno dei tanti; nessuno sapeva che fossimo parenti, e questo mi atterriva da morire. Quel posto era enorme, mi sentivo schiacciato da tutto e da tutti. Le nuove reclute, come me, miglioravano a vista d’occhio, mentre io arrancavo e cercavo un conforto negli occhi di mio padre al mattino. Volevo che mi dicesse: “Impegnati, oggi andrà meglio!”
Al termine del primo anno i miei progressi erano minimi, non eccellevo né nella teoria – non avevo testa per studiare e la strategia e le tecniche di assalto non facevano proprio per me – né nella pratica. Rispetto ai miei compagni ero basso e decisamente troppo gracile, quindi i medici del posto proposero di farmi ripetere l’anno assieme ad altre reclute a mio padre, che accettò di buon grado.
Quando iniziò il secondo anno cambiai dormitorio e mi trasferii assieme ai più giovani, ma dormii con loro solamente per un paio di settimane, finché, un giorno, mio padre non mi convocò nel suo ufficio per comunicarmi pochi semplici ordini: “In questo momento non ho tempo di parlarti, devo sbrigare alcune faccende importanti. Stasera subito dopo cena fatti trovare in camera mia, dobbiamo risolvere alcune questioni.”
Dopodiché mi diede un permesso firmato, affinché nessuno facesse storie se mi avesse visto gironzolare nel piano riservato ai comandanti di sera, e mi congedò. Era stato freddo come al solito, nemmeno mi aveva salutato, ma, in cuor mio, nonostante sul suo viso figurasse quella classica aria da rimprovero tipica dei genitori, speravo che quella sera avremmo parlato e giocato come avevamo fatto fino a quasi due anni prima.
Forse avrei dovuto aspettarmelo che non sarebbe stato così, Jisung.
Ricordo perfettamente un solo dettaglio di quella serata. Sul piano dei comandanti c’erano quattro porte, su ognuna di esse una targhetta ne indicava il nome corrispettivo, di fronte, invece, stavano ritte ed impettite alcune ragazzine un po’ più grandi di me, una per ogni porta, tranne che per quella di mio padre. Mi venne spontaneo posizionarmi in linea con loro, così come, quando le serrature scattarono e i comandanti fecero cenno di entrare, imitai il loro passo cadenzato e, come in una sorta di rituale mistico, mi gettai tra le braccia di mio padre.
Fece qualche inutile discorso su quanto fosse deluso dal mio scarso impegno, andò avanti per decine e decine di minuti, ma, rispetto a quello che venne dopo, mi sembrò che chiacchierasse solo da pochi secondi.
“Non ho cercato moglie perché avevo già te, pensavo mi saresti tornato utile in qualche modo…”
Avevo appena dodici anni, non capivo ancora che quello non era affatto un modo particolarmente estroso di dirmi che mi voleva bene nonostante lo avessi indicibilmente deluso. Aveva deciso di correggere la mia indecorosa e indolente attitudine in prima persona, in modo che potesse beneficiarne anche lui che, in fondo, aveva sempre sudato per tenermi a bada durante la mia infanzia.
lo capisco solo ora, che era stufo di me. Aveva scelto di porre fine alla mia infanzia mostrandomi come si comportano gli adulti e…
 
◦●◌●◦
 
Minho si raccolse su di sé, il solo ripensare alle violenze subite dal padre lo riportava indietro di dieci anni, proprio a quella notte. Lo sentiva ancora muoversi sopra di sé mentre nemmeno comprendeva che cosa stesse facendo e perché, almeno per lui, il dolore non accennasse ad attenuarsi, se suo padre sembrava trarne tanto piacere.
Necessitava di un momento di pausa, Jisung appoggiò il capo su una delle sue spalle per fargli coraggio e dirgli che poteva prendersi tutto il tempo di cui sentiva di aver bisogno. Il corvino era un buon narratore, si stava appassionando al suo modo di raccontare, si vedeva che il più alto da piccolo era attratto alle leggende del Sud.
 
◦●◌●◦
 
Non appena terminò di violentarmi mi ordinò di rimettermi in piedi e di cambiare le lenzuola che si erano sporcate: “Ti sei messo a sanguinare e hai fatto un casino, quindi pulisci.”
Avevo la testa che girava e le gambe che tremavano così tanto da non potermi muovere, per non parlare di quando mi facesse male… tutto. Mi aveva morso, picchiato, strattonato… Pensavo che, non appena mi fossi mosso, mi sarei sfracellato sul materasso, e a quel punto sarebbe stato un bel problema rimettere davvero tutto in ordine. Passò un’eternità prima di trovare il coraggio di mettermi almeno seduto, trascorse altrettanto tempo prima di essere in grado di reggermi da solo e di accennare qualche passetto. Un’ora prima dell’alba, quando finii di pulire, mio padre mi rispedì al mio dormitorio con la raccomandazione di rimettermi completamente in ordine per l’appello di quella mattina.
Non riuscii più a dormire, restai in piedi per un’ora e mezza accanto al letto perché avevo paura che non sarei più riuscito a rialzarmi se mi fossi raggomitolato sotto le coperte. Alla sveglia copiai i movimenti dei miei compagni di stanza, non mi sentivo in grado di fare nulla senza l’esempio di qualcuno, ero mentalmente esausto e, sebbene non comprendessi appieno la gravità di ciò che avevo dovuto subire, sentivo che non avrei potuto parlarne con nessuno, o il mio soggiorno in quella prigione si sarebbe trasformato in un vero e proprio inferno.
Dopo il bagno venne il momento dell’appello. Mio padre si presentò di fronte al dormitorio e, come al solito, ordinò a me e ai miei compagni di metterci in riga. Arrancai fino al mio posto – dovevamo metterci in ordine alfabetico perché così lui ci avrebbe chiamati uno ad uno – ma, quando venne il mio turno di dire ‘Presente’, non ce la feci più e ruppi la riga, cadendo in ginocchio per il dolore. Scoppiai in un pianto isterico, pensavo che almeno questo avrebbe scatenato un modo di compassione da parte di mio padre, invece lui fece finta di nulla. Terminò l’appello con freddezza e, solo alla fine, annunciò che avrei ricevuto una punizione per quello che definì un ‘mero atteggiamento di pura insubordinazione’. Certo, di fronte agli altri non poteva mostrarsi per la bestia che era in quegli istanti in cui rimanevo solo con lui…
Ovviamente venni punito quella sera stessa, e per poco non finii permanentemente in infermeria. Era così bravo che si fermava sempre appena in tempo prima di farmi male seriamente. Se avessero dovuto soccorrermi lo avrebbero scoperto, e lui non poteva permettersi di perdere la splendida facciata che negli anni si era costruito: quella di un uomo duro e attento ai dettagli. Curioso come quest’immagine si applicasse perfettamente anche alla mia situazione.
 
◦●◌●◦
 
Minho sospirò: “Senti, Jisung, se non hai più voglia di ascoltarmi…”
La sua intenzione era quella di essere il più obiettivo possibile, eppure più raccontava e più gli sembrava di perdersi nella narrazione. Alcuni luridi particolari gli tornarono in mente, i ricordi si intrecciavano gli uni con gli altri per tentare di riemergere tutti insieme. Faceva fatica a restare calmo, a volte gli scappava un singhiozzo, una lacrima che tentava di nascondere con qualche impacciato gesto di una mano. Non era bravo a trasmettere emozioni come lo era il ragazzo che ora gli stava di nuovo accarezzando i capelli, e nemmeno ad esprimerle.
“Non ci pensare nemmeno, voglio ascoltarti!” si affrettò però ad esclamare il giovane dalla veste eterea, stringendosi di più a lui “Mi piace sentirti parlare, Minho…”
Il corvino, allora, sorrise leggermente. Jisung, nonostante la sua parlantina, gli stava davvero lasciando il suo tempo. Appoggiò il capo sul suo e proseguì.
 
◦●◌●◦
 
Sono diventato lo sfogo di mio padre e, alla fine, al posto di crescere come un soldato, sono venuto su come una…
Dopo mesi trascorsi a sentirmi convocare nel suo ufficio per ricevere il permesso firmato di raggiungerlo in camera durante la notte, per me iniziò ad essere molto più naturale farmi strada negli alloggi dei comandanti che tra le sale di allenamento giornaliero. Odiavo quello che mio padre mi faceva, spesso sanguinavo perché non lasciava mai passare abbastanza tempo affinché le ferite della volta prima si rimarginassero, ma avevo la fortuna di condividere questo sentimento con le ragazze di cui i restanti tre comandanti usufruivano, mentre nessuno degli altri soldati provetti provava la mia stessa insofferenza verso le sessioni di addestramento.
A quattordici anni cominciai a fare amicizia con le ragazze. Prima che venissimo accolti nelle camere dei comandanti era solito scendere un silenzio imbarazzante tra tutti noi e fu un sollievo quando una di loro si fece avanti per confessare ad un’altra che apprezzava particolarmente il trucco che sfoggiava quella sera. L’altra le rispose che, se avesse voluto, il giorno successivo le avrebbe prestato volentieri la polvere che aveva utilizzato per gli occhi e per le guance. Venne fuori che era molto brava anche nell’applicarla sugli altri, tanto che dopo una settimana già l’avevamo eletta truccatrice ufficiale del nostro piccolo club. In quanto soldato virile ormai quindicenne e pienamente consapevole delle mie responsabilità e della mia posizione in società… Beh, fui il primo a chiedere se potevo averne un po’ anche io. Fu un istinto, nemmeno so spiegarmi perché ci tenessi tanto a farmi dipingere gli occhi, forse avevo solo bisogno di vedermi un po’ meno sporco del solito. I primi tempi avevo l’abitudine di farmi dei bagni eterni, tanto che a volte i miei compagni erano obbligati a trascinarmi fuori dalla vasca di peso. Credevo che i lividi, a forza di sfregarli con acqua e sapone, se ne sarebbero andati. Malgrado l’abitudine, faticavo ancora a guardarmi allo specchio e a riconoscere ogni giorno nuove impronte, nuovi segni, graffi o morsi, firme di mio padre. Condividevo le stesse cicatrici con le altre ragazze, mi era venuto in mente che loro quindi avrebbero saputo come mascherarle con quella polvere magica.
Incredibilmente piacqui anche a mio padre. Mi disse che conciato così stavo talmente bene che, se non fossi piaciuto tanto già a lui, mi avrebbe sicuramente venduto in cambio di una moglie.
In poco tempo imparai come truccarmi da solo; era un’attività che, rispetto ad impugnare spade, lance e coltelli, mi piaceva e, soprattutto, mi soddisfaceva. Quando truccavo le altre e loro sorridevano mi sentivo un pochino più leggero. Non era raro che alcune non uscissero più da quelle camere, vederle felici un’ultima volta per merito mio mi faceva stare meglio. Loro erano molto meno fortunate di me, i comandanti si comportavano con loro in base a quanto le avevano pagate. Mio padre non aveva abbastanza denaro per raccattare ragazzine da genitori disperati, quindi faceva molta attenzione a non uccidermi. Molte volte non avevo nemmeno il tempo di affezionarmi a loro che mio padre mi spediva a seppellire i loro corpi in qualche fossa comune a chilometri di distanza dal campo; sosteneva che, in quanto maschio, non mi sarei di certo impressionato. E che, comunque, avrei dovuto abituarmi presto nel caso fosse scoppiata una guerra.
Quando mi rabboniva con discorsi del genere di solito me ne stavo zitto ed annuivo tra me e me senza ascoltarlo. Preferivo crogiolarmi nel dolore che mi procurava che farmi sanguinare le orecchie con le sue stronzate. Ogni ragazza uccisa dai suoi pari valeva dieci volte ognuno di loro.
Una in particolare divenne la mia migliore amica, si faceva chiamare Nana B. La ‘B’ stava per il cognome, ma diceva di vergognarsi talmente tanto del suo mestiere da non volerlo far sapere a nessuno per non mettere in imbarazzo la sua famiglia. Lei stessa, pur di guadagnare del denaro per aiutare quest’ultima, aveva offerto il proprio corpo ad uno dei comandanti.
“Tu con chi vai?” fu la prima cosa che mi domandò quando mi offrii di dipingerle gli occhi come avevo già fatto con i miei. Ormai era diventata un’abitudine, ero quasi famoso nei giri delle altre. Dicevano che avevo talento, quasi come gli artisti del Sud.
Replicai indicando la porta della camera di mio padre.
“Beh, non male farsi il più giovane tra i quattro.”
Le dissi che era mio padre e, per la gaffe, lei scoppiò a ridere. Non so che cosa ci fosse di tanto divertente, ma so che risi con lei e che non mi fermai finché le serrature non scattarono. Ritoccai il suo trucco alla velocità della luce e schizzai in riga con lei prima che mio padre e gli altri facessero capolino dalle rispettive stanze. Ricordo di averla sentita gridare a lungo quella notte, doveva essere la sua prima volta. Mentre mio padre si scontrava sulla mia pelle pensai di essere contento di averla truccata prima. Nana si vergognava così tanto di ciò che era dovuta diventare, che una maschera da sfoggiare durante il lavoro le avrebbe fatto comodo, esattamente come a me. Il suo carnefice non l’avrebbe mai vista per come era davvero, e ciò mi lasciava particolarmente soddisfatto.
Anche Nana sapeva truccarsi, venne fuori che lei era davvero del Sud, ma mi diceva sempre che se la truccavo io si sentiva più bella. Non era vero, semplicemente non voleva mostrare nulla di sé all’uomo che l’aveva comprata. Sembra un controsenso dato che l’unico motivo per cui ci incontravamo era trovare un po’ di conforto prima di finire attorcigliati nelle lenzuola dei comandanti. Era una ragazza forte, sapeva che, se non avesse potuto salvare il proprio corpo, avrebbe almeno combattuto per salvaguardare la sua anima, il suo spirito, la sua personalità. E non dovrei fare proprio a te questa domanda, Jisung, ma che cosa c’è di più personale del tracciare fiori e dipingere scene campestri sul proprio viso? E se avesse finito per dipingersi un sogno sulla guancia ed il suo aguzzino l’avesse rovinato con la sua bocca bavosa? Non poteva permettersi di perdere anche se stessa.
Una sera le dissi che mi sarebbe piaciuto vederla disegnare e che io non avrei mai osato rovinare le sue creazioni, avevamo entrambi quindici o sedici anni. Lei non ebbe il tempo di rispondermi, ma, quando, a notte inoltrata, mio padre mi lasciò libero affinché tornassi al mio dormitorio, la vidi accoccolata su di sé in fondo al corridoio ad aspettarmi.
“Ti va se passiamo il resto della notte insieme?”
La aiutai ad alzarsi in piedi e la accompagnai fino all’ala dell’edificio in cui lei e le altre venivano malamente stipate. Mi condusse fino ad uno sgabuzzino vuoto e scivolammo, silenziosi nonostante i visibili acciacchi di ognuno, al suo interno.
“Ho nascosto qui delle polveri per il viso, voglio provarle con te.”
Con una mano le tenni lo specchio, con l’altra una candela per illuminarle il volto. In una decina di minuti si disegnò sulle guance il profilo si alcuni coloratissimi palazzi e si scrisse sulla fronte: “Io sono qui.”
Lei aveva un posto in cui tornare, un luogo a cui si poteva aggrappare ogni volta in cui, dalle ferite della sua anima, sgorgava troppo sangue, e io invece non avevo nulla se non la profonda amicizia che stavo stringendo con lei.
Mi truccai a mia volta di verde chiaro e verde smeraldo, i colori delle foreste in cui ero cresciuto, poi mi chinai per tenere fede alla mia promessa e la baciai con garbo. Nana ricambiò e fu gentile allo stesso modo, e acconsentì a diventare la mia fidanzata nonostante fosse lampante quanto preferissi i maschi alle femmine. Avevo solo lei, e lei mi piaceva perché era tutto quello che non ero io, e allo stesso tempo era tutto quello che non era mio padre. Mi buttai talmente a capofitto nella nostra relazione che iniziai ad assentarmi dall’addestramento con le scuse più assurde pur di poterla incontrare. Era leggera e solenne come una falena bianca, non so fin dove sarei stato in grado di spingermi solo per godere un po’ di più della sua semplice compagnia. Le domandavo spesso di raccontarmi storie sulla sua città natale, la mia preferita era quella degli Elefanti dell’Isola Dormiente. Ironico, vero, Jisung? A quanto pare, a Sud è diffusa una credenza secondo la quale, nel momento della morte, un Elefante dell’Isola Dormiente giunge accanto a te per aiutarti a lasciar andare il mondo dei vivi e, una volta che gli hai detto addio, raccoglie la tua anima e la porta qui. A vedere quant’è bello questo posto capisco perfettamente perché anche a lei piacesse particolarmente quella storia. Trasmette… Calore, affetto. Ne avevamo bisogno in mezzo ai ghiacciai del Nord.
Comunque, ero tanto palesemente preso da lei che, dopo un solo mese, mio padre provvide ad escogitare una punizione esemplare pur di farmela pagare. Come io ero dipendente da Nana, lui era dipendente da me.
 
◦●◌●◦
 
“Una sera Nana non si presentò al piano dei comandanti, al suo posto vi erano due gemelle di circa quattordici anni. Mi sembrò strano dato che l’avevo vista solo quel pomeriggio nella pausa tra un allenamento ed un altro, ma non ci volle molto prima che scoprissi che cosa le era successo…”
Ormai Jisung circondava con le braccia le spalle di Minho, che aveva intanto acconsentito a prenderselo in grembo. Anche il più basso era leggero quanto la ragazza che aveva amato.
“Mio padre mi fece entrare nella camera e, prima che potessi ribellarmi, mi buttò sul suo letto, dove, sul cuscino, era appoggiata la sua testa. La testa di Nana. Solo la sua testa, incredibile, vero?”
La voce del corvino si incrinò, ma questa volta ebbe la forza di portare a termine il discorso una volta per tutte: “Scoprii che mio padre l’aveva fatta ammazzare e aveva utilizzato i suoi risparmi per comprare quelle due gemelle all’altro comandante in segno di scuse. Mi ripromisi di vendicarla e, per la prima volta, ammisi di essere stufo di venir trattato alla stregua di uno zerbino e accettai il fatto di odiare mio padre. Volevo ucciderlo a sangue freddo come lui aveva fatto con Nana, così elaborai un piano. Per la prima volta iniziai ad impegnarmi seriamente negli addestramenti, avevo bisogno di diventare più forte per potermi liberare di lui. Non mi trasformai in un soldato modello, ma migliorai abbastanza da riuscire a diplomarmi in tempo con i miei compagni, suscitando anche lo stupore di mio padre.”
Minho aveva rallentato, stava esaurendo le parole, ma Jisung sapeva leggere il suo cuore e si rese conto che, anche in quel momento, a distanza di anni, il corvino provava la stessa vergogna che lo aveva assalito nel momento in cui quel mostro disgustoso che l’altro chiamava padre gli aveva consegnato il suo diploma di guardia reale.
“Volevo ucciderlo durante la cerimonia di diploma, davanti a tutti, per mostrare finalmente che razza di bestia fosse. Dopotutto aveva iniziato a violentarmi solo per adeguare le proprie abitudini a quelle degli altri comandanti, sotto caloroso invito della cerchia degli anziani. Come se, in questo modo, avessero potuto apprezzarlo di più…” continuò Minho con tono scattoso, inceppandosi su vari passaggi.
“Hai preparato tutto nei minimi dettagli, tuo padre non avrebbe potuto sfuggirti, ti sarebbe bastato sguainare il pugnale avvelenato che nascondevi nelle maniche dell’alta uniforme…” lo aiutò Jisung.
“Il giorno del diploma chiamò sul palco ognuno di noi in ordine alfabetico e, quando arrivò il mio turno, mi feci avanti senza esitare, con così tanta naturalezza da farmi paura da solo. Quando mi trovai di fronte mio padre già assaporavo l’istante in cui lo avrei visto collassare a terra in una pozza di sangue. Giocherellavo con il nastro che mi avrebbe permesso di estrarre in fretta la mia arma…” continuò ancora il più alto, solo per essere rimbeccato dal ragazzo dalla veste eterea: “E, nonostante ciò, tutto ciò che hai fatto è stato prenderti il diploma e lasciare il Nord non appena ti è stato concesso, per domandare poi di essere spedito immediatamente in missione con altri soldati.”
A Minho vennero le lacrime agli occhi: “Già… Alla fine non l’ho ucciso. Ho lasciato che rimanesse impunito, non l’ho mai denunciato e, forse, in questo momento, si diverte a violentare altri cadetti. Ho messo in pericolo delle altre persone mentre io cercavo semplicemente di lavare via i traumi che avevo subito. Mentre mi consegnava il diploma tutto ciò a cui riuscii a pensare fu che finalmente sarei potuto scappare via da lui e non vederlo mai più, avrebbe potuto essere morto solo per me senza che il campo di addestramento risentisse della perdita di uno dei suoi più grandi comandanti. Non ho coraggio, l’hai detto anche tu, Jisung.”
“Ci vuole coraggio anche ad essere gentili, Minho.”
Una voce greve, strascicante, si aggiunse alla loro conversazione.
   
 
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