Orth era il fiore
all’occhiello del pianeta Terra, un meraviglioso villaggio dalla squisita
architettura.
I boschi che ricoprivano
quella zona si erano fusi splendidamente con le costruzioni, dando vita a
giardini e parchi, ed ad una fiorente agricoltura.
Erano presenti chiese e torri
dai tetti rossicci, e quando all’alba la luce del sole inondava tutto quanto,
Orth si tingeva di tinte calde ed accoglienti, le quali si riflettevano sulla
voragine famosa in tutto il mondo, e che da 1900 anni richiamava avventurieri e
curiosi: l’Abisso.
Nessuno sapeva cosa fosse
esattamente, nessuno ne aveva mai visto il fondo, o comunque non era mai
tornato indietro a raccontarlo.
L’Abisso era maledetto, e man
mano che si scendeva nelle sue viscere e si cercava di riemergere, quella
Maledizione colpiva con ferocia sempre più pesante, lasciando segni indelebili
sui corpi e nell’anima delle persone colpite, addirittura togliendo loro
direttamente la vita.
Nonostante ciò, intere
generazioni di Esploratori si assiepavano sui suoi bordi, pronti a discenderli,
lasciando indietro ogni cosa, ogni affetto, ogni altro desiderio.
In palio c’era un sapere
misterioso, datato migliaia di anni, e reliquie dotate di poteri oltre ogni
possibile immaginazione.
Le famiglie piangevano quando
i giovani muovevano le loro mani in segno di saluto, tributo a quella bocca
famelica perennemente spalancata, che fagocitava ogni nuova speranza per il
paese di Orth senza risputarne neppure le ossa.
Sulla collina più alta di Orth,
svettava il Giardino Dolci Mele, una fattoria di legno rosso e dal tetto lilla,
dove viveva una famiglia molto in vista, la quale produceva molti prodotti
agricoli e dava lavoro a molte persone del paese.
La matriarca della famiglia
Apple, Granny Smith, era una donna anziana dalla pelle chiara, i capelli
bianchi raccolti in uno chignon e gli occhi color nocciola. Era amata e
rispettata da tutti, per la sua esperienza e il suo polso fermo.
Era vedova da tempo e aveva
quattro figli; la maggiore di loro, Pear Butter, aveva sposato Bright
Macintosh, un onesto coltivatore di frutta.
Pear Butter aveva una gran
massa di riccioli arancio chiaro, un bel viso lentigginoso, occhi color
dell’acqua e un sorriso gentile.
Insieme, avevano avuto un
figlio, Big Macintosh, che aveva i capelli lisci come il padre e arancioni come
la madre, e due occhi verdi mansueti. Era un ragazzo di ventidue anni
affidabile e pacifico, che non alzava mai la voce.
La più piccola delle sorelle,
Ginger, aveva i capelli rosso tiziano lunghi e mossi, gli occhi verdi e le
lentiggini.
Aveva sposato Avery, un
commerciante venuto da lontano, ed i due avevano avuto una figlia, Apple Bloom,
che aveva preso i meravigliosi capelli della mamma. Aveva quattordici anni e
amava aiutare le persone, sia grandi che piccole.
Infine c’era Gust, il
fratello minore, l’ultimo nato. Anche lui aveva i capelli lunghi e leggermente
mossi, biondo dorato, e gli occhi verde chiaro. Aveva appena tre anni più di
suo nipote Big Macintosh, ed era uno zio adoratissimo dai nipoti.
La sorella di mezzo si
chiamava Lyza, ed era una delle anime richiamate dall’Abisso.
Capelli lunghi, dalla
consistenza di una nuvola e dalla stessa tinta di Gust, occhi azzurri come il
cielo.
Lyza ce li aveva lisci prima
di subire la maledizione dell’Abisso, felice come una Pasqua con appresso un
ragazzetto conosciuto nel Giardino dei Fiori della Resilienza, un tale Torka
dai capelli verdi e gli occhi limpidi. Si erano sposati ad Orth, e lì avevano
concepito due figlie a distanza di sei anni l’una dall’altra, prima di
ridiscendere nuovamente nell’Abisso lasciando nella fattoria due bambine di
otto e due anni. Granny Smith si era occupata di loro, allevandole con amore e
pazienza, insegnando loro disciplina e rispetto.
Tuttavia… Non aveva perdonato
la sconsideratezza di Lyza e Torka; abbandonare così due bambine piccole!
Da allora erano trascorsi
dieci anni e di loro non si era saputo più nulla.
Applejack era diventata una
splendida ragazza diciottenne, dalla pelle abbronzata, i capelli lunghi e
biondi e gli occhi verdi.
Sua
sorella minore, Riko, aveva i capelli lunghi e biondi della sorella, legati in
due codini, e gli occhi verdi.
Un bel giorno di primavera,
Applejack e sua sorella Riko stavano passeggiando lungo i bordi dell’Abisso,
quando qualcosa attirò la loro attenzione: era la testa di una persona, che con
un balzò saltò sul sentiero: era certamente un Esploratore dell’Abisso, ed a
giudicare dall’altezza e dal viso, sembrava avere più o meno l’età di Riko…
“Ehi! Ehi, tu! Sei un
Esploratore? Non ti ho mai visto da queste parti!” gli chiese Applejack,
correndogli incontro.
Il ragazzino rimase sorpreso
da quel benvenuto improvviso, ma subito riconobbe le due fanciulle:
“Tu sei Applejack?” domandò
infatti.
Per qualche strana ragione,
la ragazza provò un tonfo al cuore.
“S-Sì, sono io… Come fai a
conoscermi?”
“Mi ha mandato Lyza.”
Lyza… Aveva detto l’unica
parola al mondo che Applejack non era disposta a tollerare, appaiata unicamente
al nome di suo padre.
“Che cosa vuole quella donna da noi?” gli chiese, difatti,
freddamente.
Il ragazzo si meravigliò di
quel cambio di umore, ma prima che potesse replicare, furono raggiunti dalla
sorella di Aj.
“Wow, ma tu sei un robot!”
“Tu devi essere Riko…”
“Oooh, conosci il mio nome!
Hai visto, Applejack? Hai visto? E’ un robot dall’intelligenza strepitosa!”
Presa com’era dall’idea di
sua madre, la ragazza più grande non aveva neppure fatto caso alle sembianze di
quel ragazzino, ed alle sue braccia di metallo.
Indossava un casco con un
oblò violaceo, aveva i capelli castani e corti e gli occhi dorati. Era a torso
nudo, e la sua schiena era coperta da un mantello svolazzante. Indossava
pantaloni multicolore, che sembravano ricavati da una tenda. Ai piedi, aveva
stivali neri, forse metallici anche loro.
A parte le componenti
robotiche, non aveva nulla di anomalo o spaventoso: pareva un normale ragazzino
dodicenne.
Il fatto però che conoscesse
Lyza turbava Applejack, che non vedeva la madre da dieci anni e l’aveva
salutata in malo modo.
“Per
voi quello stupido Abisso è più importante di noi! Siete cattivi!”
A nulla erano valse le
rassicurazioni di Lyza e Torka, anche perché suonavano false, e le probabilità
di tornare vivi dopo l’Ultima Immersione erano praticamente sottozero.
Applejack si era tappata le
orecchie e aveva voltato le spalle ai genitori, poi era corsa in camera sua, ad
abbracciare la piccola Riko.
I due adulti erano rimasti
sulla soglia di casa con Granny Smith, che li aveva guardati con notevole
riprovazione, ma nulla aveva potuto contro l’ardente desiderio di tornare là
sotto.
La digressione di Applejack
tornò al presente quando la ragazza vide Riko toccare l’elmetto del giovane.
“Riko! E tu… Come ti chiami?”
Il ragazzo si grattò la nuca.
“Reg. Mi chiamo Reg.”
“Potresti accompagnarci a
casa? Parlerai di Lyza a sua madre, nostra nonna.”
Applejack era seria, non
aveva alcuna voglia di sentire quello strano ragazzetto glorificare le imprese
di sua madre, una donna che aveva preferito una voragine ai suoi figli. Stesso
discorso per suo padre, una specie di cagnolino che non aveva mai dato contro
alla moglie.
“D’accordo.” le rispose lui.
Mentre
camminavano, Aj si sentiva il cuore pesante, mentre Riko la scrutava, tenendo
Reg per mano.
Poco dopo, i tre ragazzi
arrivarono nella fattoria.
Granny Smith osservò a fondo
Reg, e il mezzo robot si sentì un poco sotto esame, e non poté fare a meno di
notare quanto simile fosse l’austerità dello sguardo di quella donna a quella
di Lyza.
“Come hai conosciuto mia
figlia?” gli domandò allora. Una domanda a bruciapelo.
Applejack avvertì il cuore
accelerare i battiti.
“Io… Non ricordo. Conosco
Lyza, ma non ricordo quando l’ho conosciuta. Davvero non ricordo.”
Ci fu un sospiro di
scontentezza.
“Ti hanno smontato qualche
bullone?” chiese curiosamente Riko.
“Se anche fosse, non ne avrei
memoria.”
L’unico modo per scoprire la
verità sarebbe stato scendere nell’Abisso, ma Applejack era assolutamente
contraria a quell’idea, non aveva alcuna intenzione di rischiare la vita per
una donna che si era disinteressata di lei.
Granny si toccò i capelli.
“Immagino che l’unica
soluzione sia quella di rivolgerci a Jiruo…” prospettò la donna.
Jiruo era stato l’apprendista
di Lyza. Aveva soltanto due anni in più di Applejack ed era cresciuto con lei.
Lavorava come istruttore per
i futuri Esploratori all’Orfanotrofio Belchero, ed era un bel ragazzo dai
capelli albini e gli occhi azzurri.
Era incuriosito dalle
componenti metalliche di Reg, e come lui anche gli orfani dell’istituto.
“Reg può restare con noi?”
chiese Kiyui, un simpatico bimbetto di quattro anni.
“Sì… Non sarebbe male restare
qui…” considerò il ragazzo, mentre gli altri bambini gli si assiepavano attorno
e lo inondavano di domande.
Mentre i bambini accompagnavano
Reg a fare il giro dell’istituto, Jiruo rimase nel suo studio con Granny Smith,
Applejack e Riko.
“Se non vi dispiace,
ospiteremo Reg nell’Orfanotrofio. L’ho osservato come si deve, non sembra umano
ma neanche un robot in tutto e per tutto. Se davvero viene dall’Abisso,
potrebbe aiutarci parecchio nell’addestramento.”
“Secondo te è vero che ha
incontrato quella?” gli chiese
Applejack.
Jiruo si toccò il mento.
“Non
lo so… Può essere… Con l’Abisso tutto è possibile…”
Arrivato il momento di
congedarsi, Granny e Riko andarono avanti, mentre Jiruo pose una mano sulla
spalla dell’amica.
“Ascolta, so che quella
ferita sanguina ancora e non smetterà mai, ma credo dovresti provare a fare
pace con i tuoi genitori.”
Applejack si ribellò:
“Non ci penso nemmeno. Di
cosa dovrei perdonarli? Di amare di più
l’Abisso di me e Riko?”
“Non è affatto così e tu lo
sai.”
La bionda si voltò di scatto.
“AH, DAVVERO? E COM’E’
ALLORA? SE CI AMANO COSI’ TANTO PERCHE’ NON SONO RIMASTI IN SUPERFICIE A FARE I
GENITORI DECENTI?”
Jiruo restò zitto, non seppe
più cosa dire.
“Scusami…”
“Non è nulla. Forse è vero
che io non posso capire, in fin dei conti io sono nato e cresciuto in una
famiglia con i genitori presenti… Scusami tu, non voglio forzarti.”
Applejack gli sorrise, e tra
i due tornò il sereno.
La giornata, di lì a qualche
ora, sarebbe volta al termine, e il mistero di Lyza aleggiava tra di loro,
impalpabile ed inafferrabile come l’Abisso stesso…