Anime & Manga > Bungou Stray Dogs
Segui la storia  |       
Autore: Ode To Joy    27/05/2022    1 recensioni
[Dazai & Mori Centric]
[Spin-off di “Poems By A Ghost”]
Dazai non aveva la minima idea di chi fosse Mori Ougai, ma non vi era alcun timore nel modo sfacciato in cui lo scrutava. Starnutì.
Nel silenzio assoluto della stanza, suonò come un colpo di pistola. Mori saltò come una molla e la lametta gli tagliò la pelle. Poche gocce di sangue caddero nel lavandino, andando a mischiarsi a quelle che rimanevano del vecchio Boss.
Brutto presagio.
“Oh, ti sei distratto,” commentò Dazai, con voce incolore. “Ma dalle cicatrici che hai sulla schiena, sei abituato a essere colpito alle spalle.”

[…]
Un passo indietro, all’inizio della storia, ai giorni in cui Mori muoveva i suoi primi passi come Boss e Dazai cominciava la sua educazione per divenire il più giovane dei cinque Dirigenti.
La nascita della Port Mafia come Yokohama la conosce oggi.
[Trans!Dazai] [Accenni Fukumori]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kouyou Ozaki, Nuovo personaggio, Osamu Dazai, Ougai Mori, Ougai Mori, Ryurou Hirotsu
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'These Brand New Pages'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

0.3

 

Mori scivolò fuori dal letto senza far rumore. Raccolse una delle due camicie finite a terra: la più grande. Mentre la infilava, lanciò un’occhiata al suo amante addormentato. Era in quei momenti che realizzava quanta fiducia Fukuzawa Yukichi riponeva in lui - sebbene il Lupo d’Argento ci tenesse a sostenere tutto il contrario - perché nessun ex Spia governativa del suo calibro si sarebbe addormentata tanto profondamente nel letto di un principe della malavita.

Principe.

Quel nomignolo gli faceva alzare gli occhi al cielo e, al contempo, lo faceva sorridere con aria nostalgica. C’era stato un tempo in cui si era sentito tale, prima di Hans, della Germania e della Grande Guerra. Poi era cresciuto e si era accorto che i principi, anche quelli neri, esistevano solo nelle favole.

Scese in cucina a piedi scalzi, prese due calici dalla credenza e aprì una bottiglia di vino rosso. Quando risalì, lo fece lentamente, stando attento a dove metteva i piedi. Non era abitudine di Mori fare quelle carinerie. Era cresciuto nel lusso, anche se i suoi genitori gli aveva insegnato a non dare nulla per scontato e la vita glielo aveva fatto provare sulla propria pelle nel peggiore dei modi. Gli piaceva essere viziato.

Fukuzawa non era quel genere di uomo.

Dire che c’era del romanticismo tra loro era pura follia.

Quella sera, Mori era solo felice di sapere che Fukuzawa Yukichi si sarebbe presentato al suo fianco alla festa di gala della Port Mafia e voleva celebrare l’evento in qualche modo, oltre al sesso.

S’infilò dentro la porta della camera da letto lasciata socchiusa, ma Fukuzawa era già stato svegliato dal posto vuoto accanto a lui. “Vino?” Domandò, assottigliando gli occhi azzurri.

“Vino,” confermò Mori, sedendosi in fondo al letto, mentre l’amante si accomodava contro i cuscini. La camicia che il mafioso aveva addosso gli impediva di sentire freddo sulle spalle ma, in realtà, non copriva nulla e gli andava benissimo così.

“Sai che non reggo bene qualsiasi alcolico all’infuori del sakè," disse Fukuzawa, accettando il suo calice di malavoglia.

“Meglio così,” disse Mori, appoggiando la schiena a una delle colonne di legno del baldacchino. “Se il vino ti sale alla testa, posso approfittarmi di te per un’altra piacevole mezz’ora.”

A Fukuzawa piaceva il sesso, era solo troppo timido e ben educato per essere passionale. Mori era tutto il contrario. Era stato cresciuto in una famiglia tradizionale, malavitosamente parlando, ma questo non gli aveva impedito di lasciare il suo paese a quindici anni per seguire il suo primo amore.

Ci aveva pensato la scuola della vita a indurlo a restare coi piedi per terra e smettere di avere la testa persa tra le nuvole. Tuttavia, nulla, nemmeno il tempo passato a prostituirsi alla Casa dei Fiori, aveva convinto Mori che dividere il letto con una persona non aveva come scopo primario il divertimento reciproco. Al diavolo la buona educazione!

“Sei di buon umore,” commentò Fukuzawa, abbandonando il suo calice di vino sul comodino dopo appena un sorso.

Mori scrollò le spalle. “Mi piace fare il complicato, ma in realtà sono molto semplice: i miei desideri si realizzano e sono felice.”

“Ci tieni così tanto che venga a quel ballo?”

“Non è propriamente un ballo. La fai sembrare una cosa da secolo scorso.” Il medico prese un sorso di vino. “È un evento di gala. Quando ero un ragazzino, io e le mie sorelle restavano a guardare mia madre prepararsi per ore. Loro erano convinte che lei e nostro padre andassero a uno di quei balli, come li chiami tu, ma con le carrozze, i cavalli, i castelli dalle alte torri bianche… Ricordo la delusione di Hasu, la più grande, quando si rese conto che le torri bianche in questione erano solo i grattacieli neri che vedevamo tutti i giorni.” Gli sfuggì un sorriso nostalgico. “Sto di nuovo parlando da solo,” concluse, bevendo altro vino.

Fukuzawa inarcò il sopracciglio destro. “Da solo? Io sono proprio qui.”

“Già…” Mori si sporse verso destra, posando il suo calice a terra. Scivolò sulla coperta fino a sedersi a cavalcioni del suo amante. “Noi manteniamo l’equilibrio di questa città nell’ombra, senza che nessuno lo sappia. Poi ci nascondiamo in questa villa, lontano dalla Yokohama che tanto diciamo di amare e ci perdiamo in sesso e ricordi.”

Fukuzawa posò il palmo aperto su una delle cosce nivee. “Che cos’è che non ti torna?”

“Un tempo, avresti definito un simile legame pericoloso.”

“Un tempo, avevo una fidanzata,” gli ricordò Fukuzawa.

Mori rise. “Ah, giusto, la fanciulla senza nome.”

“Ce l’ha un nome, ma tu insisti a dimenticarlo.”

“Perché ricordare qualcosa di tanto superfluo?” Mori sapeva tutto della relazione tra Fukuzawa e quella fanciulla di buona famiglia. Se Natsume Soseki non li avesse messi insieme, forse sarebbero convolati a giuste nozze nel giro di qualche anno.

Invece, ecco che un principe nero si era infilato in mezzo a rovinare la bella favola della poverina. 

“Perché l’hai lasciata?” Domandò Mori.

Fukuzawa non gli rispose, si limitò a lanciargli uno sguardo eloquente. 

E il medico rise. “Sei un uomo troppo onesto, Fukuzawa Yukichi.”

“No, non lo sono,” ribatté l’uomo dai capelli chiari. “Se lo fossi stato, l’avrei corteggiata come si conviene, l’avrei sposata e poi avrei fatto tutto il resto.”

Mori storse la bocca in una smorfia disgustata. “Ti prego, il sesso tra due verginelli non è divertente.”

“Sì, me lo ha detto anche lei.”

Mori sbatté le palpebre un paio di volte. “Prego?”

“Quando l’ho lasciata, adducendo al fatto che le mie scelte lavorative non si sposavano bene con le aspettative di lei, ci ha tenuto a informarmi che il sesso con me era una cosa disastrosa.”

Se Mori fosse stato un uomo con un poco di sensibilità, se ne sarebbe rimasto in silenzio. Invece, rise in faccia al suo amante senza ritegno. “Il sesso è come la guerra,” disse, sporgendosi al punto d’appoggiare la fronte a quella dell’altro. “Tutti bravi a dichiararsi amanti e soldati e, alla fine, solo in pochi lo sono davvero.” Posò un bacio a stampo sulle labbra della sua guardia del corpo. “Ciò non toglie a nessuno la possibilità d’imparare.”

“Mi accusò di avere un’amante,” aggiunse Fukuzawa, sollevando la mano per arrotolare una ciocca corvina intorno all’indice.

Mori corrugò la fronte e cercò di ricollegare tempi ed eventi. “Quando siamo divenuti amanti, eravate ancora una coppia?” Ci mancò poco che si mettesse di nuovo a ridere.

“Mi disse che aveva notato delle differenze.”

“Nel sesso?”

“Nel sesso,” confermò Fukuzawa. “Di colpo, riuscivo a farla venire.”

Per un attimo, Mori non seppe che cosa dire, poi lanciò un’occhiata al calice sul comodino. Era mezzo vuoto. “Va bene, sta parlando il vino.”

L’espressione imperturbabile di Fukuzawa non lasciava intravvedere nulla, ma doveva essere piuttosto alticcio. Mori si appoggiò alle spalle dell’amante per farsi più vicino. “Mi stai confessando che sono il tuo maestro nell’arte del piacere, Fukuzawa Yukichi?” Il pensiero lo riempiva di un’intima soddisfazione.

Fukuzawa gli prese il viso tra le mani e il modo in cui lo guardò… Mori non seppe come descriverlo, seppe solo che era troppo

Saltò giù dal letto e allacciò un paio di bottoni della camicia per darsi un minimo di contegno. Sapeva bene che, in breve tempo, si sarebbe ritrovato di nuovo completamente nudo, steso al centro di quel letto a baldacchino, con Fukuzawa tra le gambe. Ma, sì, era venuto il momento di tornare con i piedi per terra e prendere le dovute distanze di sicurezza da un qualcosa che - se lo ripeteva spesso - non era più in grado di provare.

“Come sta il tuo ragazzino?” Domandò Mori, afferrando il calice che aveva lasciato a terra e avvicinandosi alla finestra. Il paesaggio non gli interessava davvero e nemmeno di avere informazioni sull’orfano che Fukuzawa aveva preso sotto la sua custodia. Alle volte, in cuor suo, Mori desiderava che sparisse. Si era convinto che quel moccioso - nemmeno ricordava il suo nome - fosse l’unico ostacolo insormontabile tra Fukuzawa e quello che Mori desiderava diventassero.

“Ha quattordici anni ed è un inferno starci in compagnia,” rispose Fukuzawa, abbandonandosi completamente contro i cuscini del letto.

“Quattordici anni…” Mori ridacchiò, notando che i cinque grattacieli erano visibili anche da lì, oltre il mare di alberi. “Quando sono volato in Germania con Hans, avevo solo un anno più di lui.”

Nel riflesso del vetro, vide Fukuzawa scuotere la testa. “I suoi quattordici anni e i tuoi non possono essere paragonati.”

“Perché io sono un figlio della Port Mafia e lui no?”

“Perché lui è un genio dell’intuizione quando gli pare e poi non riesce ad attraversare da solo un tornello della metro.”

Con il calice di vino premuto contro le labbra, Mori si voltò a guardarlo. “Ah…” Commentò. “È quel tipo di genialità.”

Fukuzawa lo fissò speranzoso. “Se la capisci, fammi uno schema. Abbiamo dei seri problemi di comunicazione.”

“Nah!” Mori rise. “Avete dei seri problemi di comunicazione perché ha quattordici anni. Passerà.”

“Adesso sei esperto di genitorialità?”

“Se me lo avessero permesso, lo sarei.” Quando Mori si rese conto di aver parlato, era troppo tardi per tornare indietro.

Fukuzawa lo guardava fisso, immobile, quasi avesse paura di muoversi. Sapeva, da uomo di guerra, di essere stato spinto su un terreno minato. Qualunque mossa avesse fatto, sarebbe stata quella sbagliata.

Mori sospirò, tornò vicino al letto e appoggiò il calice sul comodino, prima di stendersi tra le coperte. “Io e Hans abbiamo avuto una bambina,” confessò. Quando tornò a guardare l’amante in faccia, gli occhi azzurri di Fukuzawa erano ancora fissi su di lui. Lo aveva ammutolito.

Mori sorrise. “Perché mi guardi così?” Domandò. “Lo sai come va qui: sesso e ricordi. Questo è solo un capitolo della mia storia che mi sono dimenticato di raccontarti.”

“Dimenticato?”

“Oh, il gatto non ti ha mangiato la lingua.”

“L’hai…” Fukuzawa chiuse la bocca e ci pensò. “Insomma, sei stato tu a-“

Mori lo derise. “Vieni a letto con me da tempo. Conosci il mio corpo e cosa la mia abilità può fare,” gli ricordò. “Sai anche che sei l’unico, dopo Hans, a cui ho concesso di prendermi sotto quella forma.”

Fukuzawa aprì e chiuse la bocca un paio di volte. “Tu mi…” Fece difficoltà a dirlo esplicitamente. “Tu mi lasci venire dentro. Tutte le volte.”

Mori rise in modo esagerato. “Dovresti vedere la tua faccia!”

“Rintarou, sul serio…”

“Sai che mi piace, quando mi vieni dentro.”

“Sì, ma non credevo che tu-“

Mori si sporse verso di lui, premendogli l’indice contro le labbra. “Non sono più un ragazzino di diciassette anni,” disse. “So come evitare simili incidenti. Al tempo, nemmeno io credevo di poter dare alla luce una vita.”

Fukuzawa si rilassò. “Avevi diciassette anni?” Solo tre in più di Ranpo.

“A diciassette l’ho concepita e a diciotto l’ho partorita,” raccontò Mori, appoggiandosi alla sua spalla. “È nata durante la prima estate della guerra. Ha quasi dieci anni, ormai.”

Fukuzawa intuì che aveva bisogno di sentirlo vicino, così appoggiò la guancia tra quei capelli corvini. “Dove si trova?”

Mori scosse la testa. “Non ne ho idea,” rispose, senza nessuna particolare intonazione. “Me l’hanno portata via quando aveva due anni.”

“Quando hai perso anche Hans,” ricordò Fukuzawa. “Quando hai ucciso Jünger e hai deciso di lasciar morire Mori Rintarou.”

Il medico annuì lentamente. “Hai mai sentito parlare dell’arma di Weimar?”

Fukuzawa fu preso in contropiede da quella domanda. “Nessuno sa con esattezza se fosse una leggenda di guerra o un progetto top secret.”

“Era molto reale,” disse Mori, gli occhi scuri persi nel vuoto. “Tanto reale che l’ho tenuta tra le braccia.”

A quel punto, Fukuzawa Yukichi riuscì a porre solo una semplice domanda. “Come si chiama?”

Un sorriso triste graziò le labbra di Mori. “Elise…”




 

IX



 

-4 anni dopo-


Mori Ougai venne svegliato da una turbolenza. Si era addormentato con il viso appoggiato al pugno chiuso, la tempia contro il vetro dell’oblò. All’esterno, vi era una distesa di nuvole, il cielo era incendiato dalle luci del tramonto. Non sapeva quante ore fossero passate dal decollo né quante ne mancassero per arrivare a destinazione. 

Aspettò di tornare completamente presente a se stesso per alzarsi e andare a chiedere informazioni al pilota. Un peso contro la spalla lo fece desistere.

Accanto a lui, anche Dazai si era addormentato e, nel sonno, era scivolato dalla sua parte, fino ad appoggiarsi completamente a lui. Il ragazzino se ne stava con le ginocchia strette al petto e il cappotto lo copriva a mo di coperta.

Non era la migliore delle posizioni in cui riposare, eppure Dazai dormiva profondamente. Mori poteva capirlo dal ritmo del suo respiro. Gli sarebbe bastato muoversi un poco per destarlo e liberarsi di quel fardello che, pur sotto peso, gli stava facendo addormentare il braccio destro.

Decise di non farlo. 

No, non era corretto. 

Non fu un vero e proprio atto di volontà a convincere Mori a rimanere immobile. Semplicemente, il suo sguardo si posò sul giovane viso addormentato e ne restò incantato. L’esperienza gli aveva insegnato che la fisionomia dei volti cambiava enormemente in due occasioni completamente ordinarie: durante il sonno e dopo la morte. Quella metamorfosi, tuttavia, non aveva lo stesso aspetto su tutti.

Durante la sua adolescenza, prima che la Grande Guerra gli portasse via tutto, Mori Rintarou aveva passato notti intere a cercare di memorizzare ogni dettaglio del viso addormentato di Johann Goethe, mentre giaceva accanto a lui. E ci era riuscito.

Quando si era ritrovato tra le mani la sua testa mozzata, non aveva avuto dubbi sull’identità del morto, ma in quell’orribile maschera già in stato di decomposizione non era riuscito a ritrovare nulla del suo Hans.

In quel preciso momento, mentre Dazai gli dormiva addosso, Mori non vedeva altro che il bambino di quattordici anni, quello che credeva di essere stato partorito dall’oscurità stessa. Di sicuro, le ombre lo avevano nutrito fin dalla tenera età, tanto da sottrarre alle sue iridi scure ogni barlume di speranza o di nostalgia per un passato felice. C’erano delle volte in cui Mori Ougai aveva paura di studiare quegli occhi, che tanto gli ricordavano i propri, per paura di essere inghiottito dall’abisso che contenevano e che era ben più profondo e pericoloso di quello che il Boss stesso celava dentro.

Mori Rintarou era morto a vent’anni tra atroci sofferenze, ma aveva amato ed era stato amato. La vita lo aveva maledetto, ma questo non gli aveva impedito di scrivere la sua storia a testa alta, fino alla tragica fine.

Qualcuno aveva abbracciato Mori Rintarou e, lontano dal calore del sole, qualcun altro aveva fatto lo stesso anche per Mori Ougai. Per Dazai Osamu non c’era mai stato nessuno.

Mori aprì e chiuse le dita della mano sinistra, come se l’arto fosse intorpidito e dovesse recuperarne la sensibilità. In realtà, era solo mosso dall’indecisione.

Sarebbe bastato un niente per allungare una carezza tra i capelli di Dazai. Un gesto di affetto di cui Mori Ougai non si era ritenuto capace per molto tempo e che il ragazzino, da sveglio, avrebbe rifiutato categoricamente. Eppure, ora che Morfeo gli rivelava le vere fattezze di quel Demone fanciullo, che aveva fatto chinare la testa anche al più vecchio Dirigente della Port Mafia, Mori avvertiva qualcosa da tempo dimenticato. Sul momento, non seppe neanche dargli un nome preciso. In fondo alla sua coscienza, Dazai stava pian piano occupando un ruolo che non aveva nulla a che fare con la Port Mafia in sé. Lo stesso che aveva cercato di far interpretare a Elise. 

Mori si rendeva conto solo ora della portata del suo fallimento. 

Ora non siamo più soli, aveva detto la sua bella bambina dai capelli dorati.

Questo era il potere che Dazai aveva, inconsapevolmente, su Mori: lo privava della solitudine dietro cui si era barricato e lo spingeva a disprezzarla.

Non era una questione di presenza fisica o il fatto che Dazai, da solo, rappresentava un lungo catalogo di preoccupazione che mai lo avevano sfiorato prima. Era qualcosa di più profondo, intimo, che non aveva conosciuto né con Hans né con Fukuzawa.

Quando Mori cercava gli occhi di Dazai e il ragazzino rispondeva al suo sguardo, sapeva di avere davanti qualcuno come lui. 

Alla fine, il Boss della Port Mafia si convinse a sollevare la mano sinistra. 

Forse svegliato da un incubo, Dazai si drizzò di colpo, prima che l’uomo potesse sfiorargli i capelli. Mori riadagiò il braccio lungo il fianco, facendo finta di nulla.

Il ragazzino si umettò le labbra un paio di volte, il tempo necessario per ricordare dov’era e perchè, poi lo guardò. “Siamo arrivati?” Domandò, col tono di un moccioso impaziente e petulante.

Mori ricacciò indietro tutte le sue riflessioni profonde per alzare gli occhi al cielo, sinceramente seccato. Il quattordicenne non aveva proferito parola fino a ora. Tempo di pronunciarne due e Mori già rimpiangeva il silenzio. “Non cominciare,” si lamentò.

Dazai lo guardò malissimo. “Cominciare cosa?” Domandò, spazientito. “Non ho neanche parlato.”

“Bravo, continua a rimanere in silenzio e non tediarmi.”

“Perché sei di cattivo umore?”

“Non sono di cattivo umore,” ribatté Mori, evidentemente di cattivo umore. 

“Bah…” Dazai scrollò le spalle, voltando lo sguardo verso gli oblò dal lato opposto del jet. “Fai un po’ come ti pare, non m’interessa.”

I fatti erano semplici: Mori Ougai era affetto da una certa allergia ai sentimenti, che lo rendeva irritabile. E Dazai era molto bravo a toccare tutti i suoi nervi, sia quelli scoperti che non. 

“Fai qualcosa di utile,” disse il Boss della Port Mafia in tono più cortese. “Vai a chiedere al pilota a che punto siamo.” Suonava come una richiesta, ma era un ordine.

Dazai sbuffò. “Non ho voglia di alzarmi.”

“Non m’interessa se hai voglia o meno.”

“E a me non interessa che a te non interessi.”

“Giochiamo a rimpiattino con le parole, adesso?”

Dazai gli lanciò un’occhiata eloquente. “Abbiamo mai fatto altro?” Qualcosa lo portò ad abbassare lo sguardo. Aggrottò la fronte. “Che cosa sono quelli?”

Mori impiegò una decina di secondi per comprendere che gli stava fissando i piedi. “Ah, questi!” Sollevò la gamba destra orgoglioso, mostrando lo stivale in stile militare. “Ti piacciono? Ne ho messi un paio per te anche in valigia. Ci sarà quasi sicuramente la neve sulle montagne fuori Ginevra e-“

“Sono orribili,” commentò Dazai, secco. “Dove li hai ritrovati, in fondo al tuo vecchio baule della guerra?”

“Io non ho nessun baule della guerra,” disse Mori. “Casomai si dice li hai trovati sul fondo dell’armadio, quando ci si vuole riferire a qualcosa di vecchio.”

“Quelli non sono vecchi, sono da guerra,” insistette Dazai. “Erano della tua divisa?”

Mori scosse la testa, annoiato dall’ennesima discussione inutile tra loro ma di cui non riusciva mai ad avere l’ultima parola. “Ne avevo due. Quella tedesca e quella giapponese. Non so nemmeno che fine abbiano fatto.” Non era vero. Le aveva bruciate entrambe. “In ogni caso, sono comodi e belli. Al diavolo quelle scarpe di vernice!” Esclamò. “Mi hanno distrutto il tallone!”

Dazai lo giudicò con lo sguardo, poi a parole: “quando torneremo a casa, andrai in ufficio così?”

Mori assottigliò gli occhi, minaccioso. “Chi saresti per darmi consigli di stile?” Domandò, sarcastico. “Quando avevo quattordici anni, nemmeno mio padre m’imponeva di vestirmi come vai in giro tu. E ho sempre pensato che fosse un tipo da giacca e cravatta fin dalla culla.”

Dazai fece una smorfia, come a dire che non gli fregava nulla del suo giudizio. “Almeno io non vado in giro con gli stivali da cavallerizzo.”

“Non sono da cavallerizzo!” 

“Sai andare a cavallo, almeno?”

“Sì, ci so andare… Ma cosa centra adesso?”

“Non lo so,” ammise Dazai, soprapensiero. “Mi sto preparando psicologicamente a te che cavalchi con aria drammatica per i sentieri coperti di neve, sulle montagne fuori Ginevra.”

Mori aprì e chiuse la bocca un paio di volte: la scena appena descritta dal ragazzino poteva essersi verificatasi un paio di volte, anni prima, in compagnia di Hans. Non lo avrebbe confessato al moccioso neanche sotto tortura, ma un po’ lo disturbava il modo in cui Dazai aveva imparato a conoscerlo.

Animato da grande maturità, il Boss della Port Mafia fu svelto a sferrare il suo contrattacco. “Adesso che mi ci fai pensare. George aveva dei bellissimi cavalli a Ginevra. Se non li ha venduti per i debiti, t’insegno-

“No.”

“Non hai possibilità di scelta.”

“Se minaccio di far imbizzarrire un cavallo volontariamente per cadere e rompermi l’osso del collo, ce l’ho eccome.”

Mori fissò Dazai e il ragazzino fissò il Boss.

Quello scontro di sguardi andò avanti, fino a che l’adulto decise di smorzare l’atmosfera e mettersi a ridere. “Inciampi da seduto,” disse, divertito. “Non si tratta di condotta suicida, sei goffo e sbadato e basta. Metterti in sella a un cavallo non è la migliore delle idee. Non arrivi nemmeno a cinquanta chili di peso, potresti rimbalzare via.”

Dazai non lo ascoltava. Era tornato a fissare gli stivali, oggetto principale di quella conversazione. “Non hanno neanche la zip,” notò. “Come hai fatto a infilarci dentro i pantaloni?” Domandò, perplesso.

“Quante possibilità ci sono che te ne stia zitto a leggere un libro, fino a che non atterriamo?”

“Molto basse,” ammise Dazai, innocentemente. “Annoiarti mi diverte più che leggere.”

Suo malgrado, Mori Ougai dovette confermare a se stesso che, sì, erano uguali.

E questo lo faceva sentire sollevato e condannato al tempo stesso.




 

All’aeroporto di Ginevra, un’auto nera li venne a prendere direttamente sulla pista di atterraggio. Nonostante il suo esilio dall’Olimpo dei dotati di abilità, George Gordon Byron sembrava essere ancora in possesso di tutto quello che gli serviva per attirare l’attenzione di un’organizzazione oscura, ancora sofferente per una successione burrascosa e con le casse vuote.

Mori non conosceva l’autista che aprì la portiera a lui e Dazai, invitandoli a mettersi comodi. Notò subito che era giovane, troppo per aver combattuto la guerra, forse anche per ricordarla. Era solo, ma non si lamentò della fatica che fece a caricare tutti i loro bagagli. Al contrario, quando salì in auto, chiese scusa per averli fatti aspettare tanto.

“Nessun problema,” disse Mori con un sorriso cordiale, in francese. 

“La ringrazio.” Il ragazzo gli lanciò un breve sorriso attraverso lo specchietto retrovisore. Sì, confermò il Boss a se stesso, era molto giovane, al massimo l’età di Kouyou. Dal modo in cui si muoveva e da come portava i vestiti - il nodo della cravatta era tutto storto - essere l’autista di Byron non era il suo mestiere. 

Mori fu svelto a fare due più due e non si sorprese del risultato. Mentre il giovane sollevava il vetro a specchio che divideva i sedili posteriori dal posto guida, il Boss della Port Mafia guardò il quattordicenne seduto alla sua destra. “Che mi dici?” Domandò.

Dazai, che aveva appena premuto il tasto start di un videogioco scaricato sul cellulare, alzò gli occhi al cielo e ripose l’apparecchio nella tasca del cappotto: se Mori voleva fare di quel viaggio in auto una lezione, era inutile tentare di far qualsiasi altra cosa.

“Riguardo?” Domandò. 

Mori sospirò. “Ti sei distratto.”

“A quanti fusi orari di distanza da casa siamo?” Dazai allargò le braccia. “Essere ipervigilante non è una mia caratteristica. È tipica dei sopravvissuti alla guerra, guarda un po’.”

“Non è vero,” ribatté Mori. “Lo sei anche tu. Devi esserlo diventato a causa del luogo in cui sei cresciuto e che ti ha convinto ad amare tanto la vita.”

Dazai lo guardò storto. “Non fare il simpatico. Non ti riesce.”

“Vero…” Mori si aggiustò contro il sedile di pelle nera. “Avanti, fammi un’analisi.”

Dazai s’imbronciò, ma la sua risposta arrivò meno di dieci secondi dopo: “non è un autista di professione,” disse, secco. 

“Bene.” Mori annuì, ma voleva i dettagli. “Che altro?”

“È nervoso. Il nodo della cravatta è al contrario: qualcuno l’ha stretto per lui e l’ha fatto guardandolo in faccia. È un errore stupido.”

Mori scrollò le spalle. “Non è un sicarico. Probabilmente andava di fretta e aveva il padre a portata di mano.”

“Si richiede impeccabilità ad autisti di questo calibro.”

“Ma il ragazzo non è un autista. Quindi, che cosa ci fa qui?”

Fu il turno di Dazai di scrollare le spalle. “Lavoro semplice, pagato esageratamente,” concluse. “Sono certo che per la cifra che riceverà, l’autista si dimenticherà di noi in men che non si dica. E, siamo onesti, se Byron deciderà di prenderci in ostaggio, le nostre foto segnaletiche non arriveranno ai canali ufficiali. Questo ragazzo non saprà mai cosa ne è stato di noi e un cittadino qualunque è più difficile da rintracciare di un professionista. Nemmeno la Port Mafia riuscirebbe ad arrivare a lui.”

“Se la chiave è non lasciare tracce, chi gli ha dato il lavoro?” Domandò Mori.

“Probabilmente lo stesso tipo anonimo che ha consegnato la lettera a Hirotsu,” rispose Dazai. “O qualcuno della ristretta cerchia dei Byron.”

Mori annuì. “Il buon caro vecchio George non vede l’ora di averci come ospiti,” disse. “Eppure, si premura che nessuno in città sappia del nostro arrivo.”

“A Yokohama lo sanno,” ribatté Dazai. “In ogni caso, abbiamo le spalle coperte.”

Mori si fece serio. “Non è così semplice,” disse. Per la prima volta dall’inizio della lezione, il quattordicenne alzò gli occhi scuri sul suo maestro.

“Svizzera… Giappone…” Mormorò Mori. “Non sottovalutare la distanza politica tra il luogo in cui siamo e quello da cui veniamo. A dispetto di quello che un idealista potrebbe credere, ai Governi non piace toccarsi. E noi, in quanto membri della Port Mafia, siamo invasori su terra europea in tutto e per tutto.”

“Mi stai dicendo che il nemico è in ogni angolo, escluso Byron?”

“Ti sto dicendo che siamo su di un campo minato,” disse Mori. “Un campo minato su cui qualcuno ha voluto farci arrivare. Quando abbiamo chiesto il permesso di atterrare, nessuno ha obiettato. Ci stavano aspettando.”

“Non è la prassi?”

“Mi spiego meglio: stavano aspettando il Boss della Port Mafia in persona.” Mori sorrise, diabolico. “In una circostanza diversa, ci avrebbero dirottato o le cose sarebbero state più complesse. Invece, no, qualcuno ci vuole qui.”

Qualcuno che non è Byron,” concluse Dazai. 

“Esattamente.”

Gli occhi del quattordicenne si tinsero di curiosità. “Per riassumere: siamo ospiti segreti di un Lord, che è oggetto d’interesse per qualcuno dall’alto, magari un membro delle Nazioni Unite stesse.”

Mori aggrottò la fronte. “Su questo non sono sicuro di poterci scommettere.”

Dazai sbatté le palpebre un paio di volte. “Spiegati meglio.”

“Certamente Byron ci vuole qui e, altrettanto certamente, questo qualcuno vuole che siamo suoi ospiti.” Il Boss prese a battere l’indice sul mento. “Ma chi dei due è il vero obiettivo? Il leader della Port Mafia appena salito in carica o l’esiliato George Gordon Byron?”

Dazai ridacchiò. “E perché non entrambi?”

Mori si voltò a guardarlo: l’idea di finire in un fuoco incrociato divertiva quel ragazzino più di qualsiasi altra cosa al mondo. L’uomo scrollò le spalle: aveva tutta la libertà di fantasticare sulla sua dipartita, ma aveva tirato fuori un punto di vista molto interessante.

Byron era una pedina o un giocatore?

Mori era il fine ultimo o qualcos’altro?

Non era una trappola: Byron era troppo ricco e troppo disperato e l’Europa cosa ci ricavava a usarlo come specchietto per le allodole per arrivare a lui, Mori Ougai?

No, decise il Boss, massaggiandosi la fronte, stava solo vedendo troppo a fondo in qualcosa che, conoscendo Byron, doveva essere scontata e superficiale.

Il pensiero, di certo, non turbava Dazai, che aveva cacciato fuori dalla tasca il suo cellulare per riprendere la partita al suo videogioco.

Come era prevedibile, il ragazzino si annoiò in fretta.

Lasciò cadere il cellulare sul sedile e decise di dare un’opportunità al paesaggio fuori dal finestrino. Con il gomito sul poggiabraccia, Mori non guardava fuori, ma lui. Osservava il modo in cui la luce esterna giocava sul suo viso, mettendo in risalto alcuni linearmenti, rispetto ad altri. Quando qualcosa lo interessava, lo vedeva sporgersi e anche il Boss tentava di fare lo stesso, per capire che cosa aveva attirato la sua attenzione.

Un’ora dopo, il paesaggio urbano venne sostituito da quello delle montagne e cominciarono a salire. Dazai si massaggiò l’orecchio destro un paio di volte, ma non se ne lamentò. Mori dedusse che era per la pressione. La loro destinazione era lontana dalla città e piuttosto sopra il livello del mare. Più salivano e più i cumuli di neve ai bordi della strada si facevano alti.

“Sembra che quassù sia una stagione diversa,” commentò Dazai, osservando il paesaggio farsi sempre più bianco.

“Ti avevo avvertito di mettere gli stivali,” disse Mori, divertito, sollevando il piede destro per mostrare le proprie calzature.

Dazai lo giudicò con una smorfia. “Tu, da solo, sei abbastanza ridicolo per tutti e due.”

“Cielo, che lingua tagliente che hai, Dazai.”

“Come se non lo sapessi…” Ma c’era qualcos’altro di cui il ragazzino voleva parlare. “Tu pensi che finiremo in un fuoco incrociato?”

“Non confondere i miei pensieri con le tue speranze,” lo ammonì Mori. “Se pensi che ti abbia trascinato in una trappola mortale, ti sbagli di grosso.”

“E come fai a essere così sicuro?” Domandò Dazai, annoiato da tutta quella autostima basata sul niente. Suo malgrado, Mori Ougai rimaneva l’uomo che aveva fatto sua la Port Mafia con relativa facilità, ma che non riusciva a far partire la lavatrice. Lì, tra le montagne di Ginevra, come a Yokohama, Dazai lo guardava e non lo comprendeva affatto. 

“Piuttosto,” aggiunse il ragazzino, prima che il Boss potesse rispondere. “Perché non ti è venuto il dubbio che ci fosse qualcuno dietro Byron già a Yokohama?” Domandò. “Perché tirarlo fuori ora che siamo qui, in terra straniera?”

“Una risposta alla volta,” disse Mori, sollevando l’indice. “Primo, ho sospettato del coinvolgimento di una terza parte nel momento in cui Hirotsu mi ha descritto l’uomo che gli ha recapitato la lettera.”

“Non poteva semplicemente essere un cane di Byron?” Ipotizzò Dazai.

“No.” Mori scosse la testa, sicuro. “Ha parlato a Hirotsu come se lo conoscesse. Nessuno dei Byron può vantare tanta familiarità con lui.”

Dazai lo fissò. Assottigliò gli occhi, quasi volesse scrutargli dentro. “Tu sai chi è la terza persona coinvolta.”

Mori allargò le braccia. “È solo un’intuizione.” Più una speranza, pensò, ma non serve che tu lo sappia.

“Fammi indovinare: qualcuno dei tempi della guerra?” Domandò Dazai.

“Questa non ti vale nessun punto,” lo informò Mori. “Sai benissimo che ero un soldato e non è difficile immaginare che dei miei compagni d’armi siano divenuti agenti governativi.”

“Ciò non risolve il quesito finale,” disse il quattordicenne. “Chi è il vero obiettivo?” Domandò. “Tu o Byron?”

Mori non gli rispose. Sul suo viso comparvero delle sfumature che Dazai aveva visto raramente e comprese che la situazione era più intricata di quel che credeva. “È qualcosa di personale?” Domandò, annoiato.

Mori batté l’indice sulla punta del naso del ragazzino, fino a che questi non si fece indietro. “Bravissimo.”

Di colpo, Dazai sentì il bisogno di aprire la portiera e di buttarsi dall’auto in corsa. “Tu pensi che ci sia un Agente governativo dietro a Byron e speri che sia Johann G.?”

“Nessuno avrebbe potuto avvicinare Hirotsu in quel modo,” disse Mori. “Ha fatto di tutto per non farsi riconoscere, ma non ne sono sicuro.”

“Johann G. ti ha fatto avere una lettere firmata da Byron.” Più i pezzi venivano fuori e meno Dazai riusciva a farli combaciare. “Byron vuole la gloria all’interno di un’organizzazione che guarda il mondo dall’alto in basso ed è disposto a pagare per averla. Johann G. che ha da guadagnarci in questa storia?”

Mori scrollò le spalle. “Forse l’Europa non vuole che l’ultimo discendente di una delle sue famiglie più importanti, seppur un emarginato, si accosti alla Port Mafia.”

“Allora perché darti la lettera?” Dazai stava perdendo la pazienza. “Mori, ti volevano qui! Non importa se per volontà di Byron o di Johann G. qualcuno ti voleva qui per uno scopo!”

“Esattamente…” Rispose Mori, rilassato.

Dazai lo detestò per quel suo atteggiamento da superiore. Il Boss della Port Mafia se ne stava lì a sorridergli, convinto che tutti i pezzi presenti sulla scacchiera si sarebbero mossi solo e unicamente a suo comando. Se avesse detto che quell’uomo non aveva mai fatto errori di calcolo, Dazai avrebbe mentito, ma si era risollevato ogni volta senza versare una goccia di sudore - ma diverse di sangue.

La pietà per il Generale e la sua successiva dipartita erano l’esempio più lampante.

Ma c’era una cosa che Dazai non riusciva proprio a sopportare: “non mi stai facendo giocare.” 

Mori lo aveva relegato a ruolo di scacco e non di co-giocatore.

L’espressione del Boss della Port Mafia si fece più gentile. “Non sei nemmeno sulla scacchiera,” gli assicurò. “Sei qui,” appoggiò la mano sui venti centimetri che li dividevano, “accanto a me.”

“E cosa faccio?” Domandò Dazai, annoiato. “Resto a guardarti giocare con il tuo ex amante e un emarginato della Torre dell’Orologio?”

“Farai quello che fanno tutti i bambini,” rispose Mori. “Guarda e impara.”

L’auto prese una curva a gomito con un po’ troppa velocità. Mori fu svelto a reggersi, ma Dazai si schiantò contro il petto del Boss. 

“Un primo consiglio,” disse quest’ultimo. “Impara a prevedere i cambi di direzione improvvisi e non avere paura di prenderli.”

Dazai si sollevò a sedere. Il paesaggio si era aperto e la luce contro la neve era quasi accecante. Stavano costeggiando un lago ghiacciato. 

“Siamo quasi arrivati,” disse Mori, premendo l’indice contro il vetro per indicare una costruzione che si vedeva a stento, sulla sponda opposta. “È proprio come la ricordavo.”

“Sembra l’illustrazione di un libro di favole,” commentò Dazai, mentre la villa si faceva sempre più vicina.

“La prima volta che sono stato qui, vi era neve ovunque proprio come adesso,” raccontò Mori. “Ho avuto il tuo stesso pensiero, poi siamo entrati e ci siamo ritrovati nel bel mezzo di un evento che era un po’ un rave e un po’ un’orgia.”

Gli occhi scuri di Dazai divennero enormi, disgustati. “Aspetto fuori,” disse, secco. “Congelerò. È un buon modo di morire.”

Mori fece un gesto con la mano, come a dire di lasciar perdere. “Al tempo, Byron era famoso per offrire ai giovani della buona società divertimenti che poco si sposavano con l’etichetta. Era il suo biglietto da visita, il suo modo per avere un posto in un mondo che non gli sarebbe mai appartenuto davvero.”

“Non ti ci vedo in un contesto simile,” ammise Dazai.

“Infatti, rimasi nella mia stanza per la maggior parte del tempo e Johann impiegò diverso tempo a farsi perdonare.”

“Ho letto le sue poesie,” disse Dazai. “Non lo facevo un tipo da orge e rave.”

“Non lo era,” confermò Mori. “Non credo che sia una cosa che tu possa capire: non hai il carattere adatto. Non fraintendermi: non lo avevo neanche io. Per farla breve: tutti parlavano delle feste alla villa di Byron, tra le montagne di Ginevra, come una di quelle esperienze da fare almeno una volta nella vita. Fu per stupidità giovanile - e forse un po’ di curiosità - che accettammo. Le uniche parentesi piacevoli furono i brevi momenti di sobrietà collettiva, in cui il dialogare diveniva l’attività principale.”

“E a te piace tanto dialogare.”

“Ce ne andammo appena la neve ce lo permise,” concluse Mori. “Se vidi Byron in altre occasioni, non lo ricordo.”

Dazai inarcò le sopracciglia. “Byron ti ha cercato facendo appello a un incontro per nulla piacevole avvenuto quindici anni fa?”

Per me non fu piacevole,” sottolineò Mori. “Beh… Quando era del tutto in sé, era un giovane interessante, ma non provai mai per lui quello che voleva.”

Dazai aprì e chiuse la bocca un paio di volte, poi si lasciò cadere contro il sedile con aria drammatica. “Non bastava la guardia del corpo a Yokohama,” borbottò. “Ora mi trascini anche in un fuoco incrociato tra un tuo ex amante e un Lord che aveva una cotta per te.”

“Non sono certo che Johann sia coinvolto, te l’ho detto.”

“Ma Byron, sì!” Esclamò Dazai. “E farà di tutto per parlare dei vecchi tempi, di quanto erano belli e di come sono andati perduti e… Merda, voglio morire.”

“Linguaggio ragazzino,” lo ammonì il Boss della Port Mafia.

Un istante dopo, l’auto si fermò. “Bene,” disse Mori, allacciandosi il cappotto fino al collo. “Siamo arrivati. Sei contento?”

L’occhiata scura che Dazai gli lanciò fu una risposta più che sufficiente. 




 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Bungou Stray Dogs / Vai alla pagina dell'autore: Ode To Joy