Buona domenica!
Ecco a voi il primo capitolo ri-postato,
rivisto e corretto. A breve sarà postato
anche il secondo ;)
GRAZIE a tutti voi che leggete e seguite questa storia
Buona lettura! =)
.36.
L’IMPREVISTO
Era dalla
notte precedente che Harlock era seduto in infermeria.
Ancora scalzo, con indosso solo i pantaloni e la giacca di pelle buttata alla
meglio sulle spalle.
Se ne stava lì: muto e inerte, come se fosse stato una statua di cera.
Era in attesa, davanti a quel letto, davanti a quel corpo, mentre lei era sotto
l’effetto del sonno artificiale, attaccata a quella flebo e a quel macchinario
che la stava analizzando. Sembrava serena.
Pallida, immobile, con il respiro leggero, appena impercettibile, i lineamenti
distesi. Pareva quasi una bambina.
Il dottor Zero, che la teneva sedata solo per precauzione e per evitare
un’altra crisi ravvicinata, la stava sottoponendo a tutta una serie di analisi
approfondite per capire in che stato fosse e soprattutto per quale motivo
avesse avuto quella crisi così violenta, senza nessun tipo di preavviso. Doveva
per forza esserci una causa scatenante.
Ovviamente nessuno di loro era a conoscenza delle piccole avvisaglie che Joy
aveva avuto, perché alla fine non era mai andata in infermeria a parlarne con
il medico.
Era passato anche Yattaran a dire nuovamente la sua sul microchip. Era rimasto
a lungo e aveva scupolosamente fatto dei controlli, ma per ora, da una prima
analisi, non era emerso granché, se non le solite informazioni che già erano
note dalla volta precedente. Anche lui non si spiegava come mai all’improvviso
le cose fossero precipitate, voleva capire, perché senza conoscere le cause era
difficile anche cercare la soluzione del problema, nonostante continuasse ad
essere convinto, così come la volta precedente, che l’unico in grado di
intervenire sul chip fosse solo l’impiantatore.
Comunque, anche Zero si riservava di parlare solo a conclusione delle sue analisi.
Harlock non parlava. Era muto e indurito come fosse stato un vaso vuoto, al cui
interno il dolore, rimbombando, produceva un’eco infinita che lo stordiva. Era
in attesa di sapere che cosa avesse, che cosa le fosse accaduto, e che
cosa comportasse il tutto. Perché era terrorizzato.
Quella maledetta crisi era stata troppo violenta ed improvvisa per non
essere niente, come gli dicevano via, via, i vari membri della
ciurma che si palesavano per avere notizie della ragazza.
Non aveva rivolto parola a nessuno di quelli che si erano presentati in
infermeria, per venire a trovare la biologa e per capire che cosa fosse
successo.
Avesse potuto li avrebbe cacciati via.
Nessuno escluso.
Gli davano fastidio e, ancor di più, le loro inutili parole, gli sembravano
come tante mosche irritanti, che gli ronzavano intorno producendo solo rumore
molesto. Incuranti del fatto che niente e nessuno avrebbe mai potuto
rassicurarlo, che nulla potesse cambiare il fatto che c’era qualcosa che non
andava, qualcosa di molto preoccupante, forse qualcosa di veramente brutto.
Voleva stare da solo, ripiegato su se stesso, a centellinarsi quel dolore acuto
come se stesse sorseggiando un calice di fiele. Lo stomaco gli si era contratto
e intorcinato come un panno strizzato.
Aveva solo un disperato bisogno di silenzio.
Non era andato neppure da Tochiro…
Continuava a dialogare internamente, non sapeva neppure lui con chi. Non era
importante, bastava che chiunque fosse, l’ascoltasse, perché quella supplica
gli veniva dalla parte più profonda e intima di sé. Nessuno poteva percepire
quel suo lamento flebile e sommesso, quasi a fior di labbra, un borbottio che
era cosi personale e così sentito, che sembrava lo coinvolgesse tutto: anima e
corpo.
Una preghiera vera e propria, semplice nella forma, ma potente nell’intento
della richiesta.
Ti prego, non a lei…
Rifattela con me.
Lascia stare lei, non c'entra...
Sono pronto a qualsiasi cosa tu voglia da me, ma lascia stare lei.
Non portarmela via, non anche lei… ti prego… non lo fare…
Era svuotato e non gli importava che qualcuno lo potesse vedere così. Aveva
lasciato il comando della nave senza neppure dare ordini a nessuno. Ovviamente
non ce n’era stato bisogno. C’era Yattaran, ma, soprattutto, c’era Tochiro. Era
tutto giorno che il Computer Centrale cigolava sommessamente, come se si
lamentasse, come se fosse partecipe del dolore del suo più caro amico, solidale
e sofferente; ma manteneva la rotta, qualcuno doveva pur farlo.
Tutti avevano capito e tutti, alla fine, avevano rispettato il suo muto desiderio
di essere lasciato solo, sprofondato nella melma della sua disperazione.
Era
questo quello che aveva sempre temuto, quello da cui era eternamente fuggito.
Le conseguenze inaspettate.
Quando ti innamori appare tutto luminoso, roseo, profumato e deliziosamente
perfetto.
Ti senti come invincibile, immortale e forte.
Sembra che niente e nessuno possa alterare questo stato di grazia. Sembra che
nulla potrà più scalfirti.
Menzogne.
Perché poi arriva il conto, quel maledetto conto con cui lui era sempre in
debito.
E ogni volta, per lui, pagare era sempre più difficile e doloroso.
Sempre più pesante.
Si era assurdamente convinto che lei sarebbe morta e che fosse solo sua la
colpa, solo per il fatto di averla amata, come se su di lui gravasse una
maledizione spietata, che si divertisse a portargli via tutte le persone a cui
aveva voluto bene.
Perché sembrava che lui non potesse e non dovesse amare nessuno.
Che fosse una grave colpa amarlo, una colpa da pagare con la vita.
Chi lo aveva profondamente ed incondizionatamente
amato era morto:
Maya.
Tochiro.
E ora anche lei?
Non lo sopportava, non lo accettava, ma era troppo disperato per essere
arrabbiato.
Era vinto dalla paura, dall’angoscia, dalla mancanza totale di speranza.
Il drago, la bestia, lo aveva nuovamente ghermito con i suoi artigli ricurvi,
affondati nella carne debole del suo cuore; lo stava riportando giù,
nell’abisso più profondo e tetro, da cui era appena riuscito a scappare.
Meeme entrò piano, quasi timidamente nella stanza.
Avvertì l’aria carica del dolore di Harlock. Era come se percepisse una nebbia
fitta, densa e scura, un’aria irrespirabile, quasi tossica, pesante.
Era stata come investita dalla forza del dispiacere che era dentro di lui.
Grazie alla sua sensibilità aliena, lei poteva sentirlo e lui lo sapeva.
Si girò e la guardò, assente, come se lei fosse trasparente “Questa cosa non ti
riguarda. Non voglio condividerla neppure con te: per favore, esci” le disse
calmo, stanco, ma estremamente deciso nel tono della voce.
Lei annuì. Capiva e voleva rispettare la sua volontà, ma non poteva andare via
senza aver detto quello che doveva.
“Desidero solo che tu sappia che non è una cosa così grave come tu la
percepisci. Io lo sento” e gli poggiò una mano sulla spalla, come cercando di
assorbire un po’ di quell’energia così negativa che sentiva quasi come fosse
sua, o, semplicemente, per dargli solo un po’ di calore, di conforto, per
scuoterlo da quello stato di esagerata prostrazione in cui lui si stava quasi
cullando. Meeme pensò che a volte Harlock era come se non potesse fare a meno
di soffrire, non potesse astenersi dal malessere, dal dolore e dall’espiazione.
Come se gli fossero ormai entrati nel sangue e facessero parte di lui, come se
gli fossero necessari, per mantenere un perverso equilibrio delle cose.
Lui non rispose. Rimase immobile.
Le parole di Meeme furono come un filo d’aria che lo carezzarono appena, e
subito volarono via. Non lasciando quasi traccia. Non voleva farsi illusioni e
non voleva neppure che lei stesse lì, né che cercasse di alleviare in alcun
modo la sua pena.
“Esci per favore” ripeté a bassa voce, ma sempre deciso.
“Me ne vado. Ma non puoi e non devi fare così. Non serve né a te, né a lei, né
a tutti noi. Sei troppo intelligente per cadere in questa trappola. Liberati
dalle catene a cui tu stesso ti stai legando, perché sono inutili”.
Finita la frase, l’aliena, vedendo che sembrava non ascoltarla, lo accontentò e
lui non la guardò neppure uscire dalla stanza.
Non ragionava più, era completamente schiavo e succube delle proprie angosce. I
sentimenti erano forse la sua più grande debolezza. Non era capace di
rapportarsi ad essi con equilibrio, era un suo grande limite. Per questo era
sempre stato un uomo solitario, taciturno e introverso. Per evitare di farsi
coinvolgere.
Stava auto alimentando un senso di disperazione enorme, spropositato,
condizionando scioccamente la sua momentanea capacità di non ragionare
lucidamente.
Perché, tutto sommato, Joy adesso non stava così male e non le erano stati
riscontrati chissà quali gravi danni. Certo, la crisi era stata oltremodo
violenta, lui si era comprensibilmente scioccato, ma con il farmaco era stata
subito bloccata. Non era per forza detto che ci dovesse essere chissà quale
male oscuro in corso. Magari avrebbe dovuto fare una cura, o portarsi dietro
quella medicina, come era stato stabilito all’inizio. Forse erano stati troppo
ottimisti prima, ma non era detto che dovessero essere per forza troppo
pessimisti adesso.
Ma questo Harlock, al momento, neppure lo prendeva in considerazione.
Zero, a fine giornata, aveva dato il benestare a far risvegliare Joy e il
Capitano aveva voluto che accadesse nella sua cabina e non in quella stanza
dell’infermeria.
L’aveva presa in braccio e l’aveva riportata nel grande letto del suo alloggio.
L’aveva messa sotto le lenzuola, poi si era messo a vegliarla, in attesa che
l’effetto dei farmaci finisse e riaprisse gli occhi. Ancora non era chiaro che
cosa le fosse accaduto, il medico aveva ipotizzato anche una sorta di reazione
ad un grande stress, probabilmente il ferimento di Harlock. Secondo il dottore
c’era stato qualcosa che aveva come interferito con quel chip, in maniera molto
violenta, ma era ancora tutto confuso a livello di diagnosi. Sembrava che le
sue difese immunitarie avessero avuto una reazione strana, anomala e brutale,
aggredendo con forza distruttiva questo intruso innaturale impiantato nella sua
testa.
Quella che aveva avuto, era stata una crisi epilettica prolungata, come se
l’elettricità del cervello e quella del chip, fossero andate in collisione e
avessero creato un forte contrasto, sfociato in una sorta di violento corto
circuito.
Secondo il medico non c’era pericolo grave, o di morte imminente, ma andava di
sicuro approfondita la questione e trovata la cura adatta. Per il momento era
tassativo che dovesse avere sempre e comunque dietro le medicine, non doveva
liberarsene neppure se non avesse avuto nuove crisi anche per mesi interi.
Il Dottor Zero disse anche che sarebbe dovuta stare sotto controllo
costante.
Aveva persino pensato che forse una visita specialistica più accurata non
sarebbe stata un male, ma per ora questa considerazione se l’era tenuta per sé.
Harlock
era in spasmodica attesa che la ragazza si svegliasse.
Quando lo fece, per lui fu come ritornare a vivere. La vide muoversi nel letto
e aprire gli occhi, leggermente spaesata.
“Devo aver dormito troppo…” commentò Joy stropicciandosi le palpebre e
portandosi una mano alla fronte.
“Ti senti bene?” le chiese, schizzando letteralmente al suo capezzale.
“Sì… solo un po’ di mal di testa”.
Non capiva bene che stesse accadendo, perché lui fosse lì ed avesse quella
faccia così devastata.
A quelle parole Harlock afferrò delle pastiglie che gli aveva ordinato il
medico e le versò un bicchiere d’acqua.
“Prendi subito questa”.
“No… non è necessario” provò a dire lei “Ma che succede? Perché sei qui?”.
Pensando che fosse inizio giornata e non capendo perché lui non fosse in
Plancia.
“Sei stata poco bene, è necessario tu prenda la pastiglia subito!” insisté lui,
tirandola su e obbligandola, anche piuttosto bruscamente, a prendere la
medicina.
Lei lo guardò stranita.
“Poco bene in che senso?” gli chiese, prima di finire di bere l’acqua.
Lui sospirò, passandosi una mano tra i capelli, era ancora provato e molto,
troppo nervoso, ma non voleva assolutamente impaurirla. Quindi cercò di
sfoderare tutta la naturalezza che poté.
“Hai avuto una piccola crisi” butto lì con noncuranza.
Lei d’istinto si portò la mano al chip “C'entra questo?” chiese e poi aggiunse
“Sarei dovuta andare dal medico…” e Harlock la guardò di traverso “Che stai
dicendo?” le chiese.
Fu così che Joy gli raccontò delle avvisaglie che aveva avuto e lui dette di
matto.
Si arrabbiò moltissimo e la rimproverò aspramente.
E non ci fu verso di fargli capire che lei non aveva voluto essere imprudente,
solo non aveva dato peso alla cosa. Non voleva fargli venire i sensi di colpa,
dicendo che in quei frangenti era più preoccupata per lui che per se stessa,
quindi alla fine si prese la lavata di testa senza replicare più di
tanto.
Harlock mandò a chiamare subito il medico, il quale però, venuto a conoscenza
delle avvisaglie, un po’ si rinfrancò. Spiegò loro che era da considerarsi meno
violenta in sé la crisi se preceduta da piccoli avvertimenti e anche lui
rimproverò la ragazza, per non averlo contattato, poi confermò la cura che
aveva già stabilito e rimase comunque della sua idea che una visita
specialistica sarebbe stata opportuna, ma ancora non ne parlò con il Capitano.
Era troppo agitato e avrebbe fatto qualche sciocchezza. Non poteva rischiare di
farlo catturare per andare in qualche centro medico specializzato. Meglio
parlarne quando Harlock fosse stato più lucido.
***
La
convalescenza di Joy andava piuttosto bene. Era stata a letto qualche giorno.
Si era riguardata e riposata. Masu l’aveva rimpinzata di roba da mangiare e
tutti le erano stati accanto, andando a trovarla e facendole compagnia.
Harlock, per fortuna, vedendo che le sue condizioni erano migliorate, si era
dato una bella regolata ed aveva quasi superato la brutta crisi interiore che
lo aveva davvero provato profondamente. Era comunque un uomo temprato e ricco
di risorse. Era difficile spezzarlo, anche se come essere umano aveva i suoi
punti deboli e le sue ricadute, perché purtroppo ci sono ferite che non
guariscono mai e ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare. Ma lui era un
guerriero e sapeva come curarsi e rialzarsi.
In pratica, sebbene Harlock avesse ripreso la normale vita di bordo, lei non
veniva mai lasciata sola, né il giorno, né la notte. Ovviamente dietro precisi
e tassativi ordini del Capitano, perché temeva in una ricaduta.
Tra Joy ed Harlock c’era un’atmosfera strana in quei giorni.
Lui non aveva permesso che la ragazza venisse messa al corrente della gravità
della crisi che aveva avuto. Quindi lei sapeva di avere avuto una cosa lieve e
subito sedata, però nello stesso tempo, non aveva potuto fare a meno di notare
che lui fosse molto strano, preoccupato e troppo vigile, perché si bevesse del
tutto questa versione dei fatti. Nonostante Harlock cercasse di dissimulare
ogni tensione e preoccupazione, con la sua solita calma, Joy si era accorta che
la notte non dormiva, al massimo si concedeva un paio d’ore di semi sonno, ma
era consapevole che la vegliasse e questo alla fine la mise molto in allarme.
Perché, se lo avesse fatto per una notte o due, poteva essere a causa del suo
modo di essere iperprotettivo, ma adesso era un’intera settimana che la
faccenda andava avanti, ergo lui le stava nascondendo qualcosa e lei
voleva la verità.
Anche perché la trattava come se fosse una bambola di porcellana ed era sempre
attentissimo ad ogni suo movimento, in allerta continua, come fosse in
battaglia, in attesa di chissà quale nemico invisibile.
Così quella sera, sebbene fosse tardi, quando lui arrivò in cabina, decise di
affrontarlo.
“Senti, me lo vuoi dire che succede?” gli chiese. Lui la guardò e da bravo
dissimulatore quale era, abbozzò uno dei suoi mezzi sorrisi, anche se aveva
l’aria molto, troppo stanca “Niente perché?” le rispose con tono casuale, come
se non capisse la domanda.
“Sei un terribile bugiardo” lo scrutò Joy, che ormai aveva quasi imparato anche
a capire le sue più riuscite dissimulazioni “Credi che non mi sia accorta di
nulla? A parte il fatto che non dormi e mi sorvegli, ma anche che non vengo mai
lasciata sola per un solo minuto, è un caso?”.
“Lo sai che dormo poco” tagliò corto lui “Non è una novità” aggiunse, mentre si
slacciava il mantello.
Joy alzò un sopracciglio guardandolo scettica “No. Ė una novità, perché fino a
qualche giorno fa, dormivi eccome! E comunque io sto bene, sono stufa di essere
controllata a vista. Se è vero che non ho niente come tu dici, domani vado in
laboratorio. Da sola!” lo sfidò.
Lui non rispose, cercava di far cadere la cosa e intanto si spogliava con calma
studiata. Era tardi e confidava nel fatto che fosse stanca, se non altro per
l’orario. Voleva che cercasse di dormire e la smettesse di fare domande,
soprattutto dopo che lui si fosse infilato a letto.
Si era appena un po’ ripreso dallo spavento enorme che aveva avuto, ma in lui
c’era ancora questa paura folle che potesse star male e la controllava,
custodendola come fosse stata una cosa preziosissima e delicata, quasi come un
lungo stelo di cristallo, da maneggiare con estrema cura e cautela, come se
potesse frantumarsi da un momento all’altro.
Joy però non era una sciocca e aveva capito che c’era qualcosa che non andava.
Lui era troppo strano e lei voleva sapere che cosa le nascondesse. Lo avrebbe
saputo quella sera, a qualsiasi costo.
Aspettò che si spogliasse, che andasse in bagno, che si lavasse e che ci
passasse quasi un’ora, per uscire poi con i capelli ancora umidi e sedersi sul
letto.
“Dormi, che tanto devo farli asciugare” le disse, riferendosi ai capelli,
stranito dal fatto che fosse ancora sveglia.
“Harlock, puoi traccheggiare anche fino a domani mattina. Io non dormirò e ti
aspetterò sveglia” gli disse calma. Voleva proprio vedere che avrebbe fatto
adesso.
Lui sospirò appena, si tolse l’asciugamano dalla vita, si frizionò forte i
capelli e poi sgusciò rapido sotto le lenzuola.
Si mise supino, con le braccia incrociate sotto la testa a fissare il soffitto
della cabina, cercando di raccogliere i propri pensieri.
“Sono in pericolo di morte?” gli chiese Joy, girandosi su un fianco, per
osservare le sue reazioni meglio e da vicino.
Harlock girò solo la testa “No. Ma come ti viene in mente?” le chiese sincero.
“Già, chissà come mai mi verrà in mente…” commentò lei appena sarcastica.
“Sono molto stanco, vorrei dormire…” rispose, non volendo per nessuna ragione
al mondo toccare quell’argomento.
“Harlock io non avrò cento e passa anni, ma non sono una bambina. Sono
un’adulta, perché per una volta non provi a trattarmi come tale?”.
Lui non rispose.
“Siamo di nuovo punto e capo? Tu taci e io faccio i miei monologhi?” chiese
abbastanza sconcertata Joy “Allora che abbiamo fatto fino ad ora? Perso del
tempo?” era infastidita da questo suo comportamento che sembrava come azzerare
tutti i passi in avanti fatti tra loro.
Harlock non sapeva che fare. Non sapeva che dire. Per questo taceva. Gli
sembrava che ogni cosa fosse sbagliata. Mentirle, come dirle la verità. Erano
sempre i soliti dilemmi con cui si ritrovava a scontrarsi.
Alle fine però, prevalse il rispetto per lei e per le sue richieste, perciò le
raccontò tutto.
Joy aveva ragione, non poteva continuare a trattarla come una bambina, e benché
fosse spiacevole e difficile, aveva diritto di conoscere la verità.
Soprattutto, non poteva renderla succube delle sue paure. Sapere quello che le
era accaduto poteva anche esserle utile e sicuramente l’avrebbe resa più
consapevole, più accorta, riguardo alla sua salute, anche se dirglielo non fu
affatto facile. Dovette rivivere quella notte terribile, ovviamente omise molti
particolari raccapriccianti, ma purtroppo nella sua mente, quelle immagini
violente e devastanti, riaffiorarono con tutta la loro potenza.
Joy rimase molto turbata. Non si sarebbe mai aspettata una cosa del genere. Ora
capiva molto meglio il comportamento di Harlock, ebbe un brivido gelido di autentica
paura, qualcosa le diceva che questa volta la faccenda non si sarebbe risolta
così facilmente…