Fanfic su artisti musicali > Placebo
Ricorda la storia  |       
Autore: Happy_Pumpkin    07/09/2009    2 recensioni
Un saxofonista irlandese, una fidanzata psicopatica, una checca isterica e il suo rumoroso fidanzato. Tra i locali notturni di Londra e i ricordi delle villette a schiera nel Lussemburgo, un variegato viaggio di pochi giorni in un ipotetico spaccato di vita di Brian Molko.
Fiction interamente dedicata a Hiko_Chan; auguronissimi di buon compleanno
Genere: Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Brian Molko, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Disclaimers: ogni fatto o avvenimento narrato in questa fiction è puramente casuale. I Placebo non mi appartengono; meno male, altrimenti li avrei schiavizzati come musicisti - barman acrobatici e modelli di nudo a tempo indeterminato. Per questo Brian Molko dovrà ringraziarmi a vita e anche voi, perché altrimenti chi avrebbe suonato al posto loro?


Piccola premessa: quanto accade in questa breve long-fiction mi è stato ispirato dalla canzone My Sweet Prince. In tale illuminato testo si fa riferimento a questo principe; stando a quello che ho letto in giro - le fonti potrebbero essere sbagliate ma, francamente, poco me ne cale - è l'appellativo con il quale l'ex-fidanzata di Brian si è rivolta a quest'ultimo in un messaggio lasciatogli prima di tentare il suicidio.
La cosa non è andata in porto, fortunatamente per la tipina e per la psicologia di mister Molko, però mi è stata utile per elaborare questa finzione piena di millemila personaggi inventati. Sarà attorno a questi ultimi che Brian si muoverà, vivrà, in uno spaccato di vita risalente al lontano (ç__ç) 1998. Ad ottobre dello stesso anno uscirà Without you I'm nothing; ho preso in prestito alcuni giorni dell'estate per narrare la vicenda, fregandomene altamente di quello che poteva succedere realmente nel frattempo.




Coming back home




Prologo


Brian e Gavin camminavano per le strade di Lussemburgo con uno zaino malandato sulle spalle; il primo avanzava tenendosi strette le braccia, con il volto livido e gli occhi puntati a terra visto che non gli interessava di niente e di nessuno. Il secondo gli era al fianco, assolutamente indifferente allo sguardo cupo del compagno di scuola; ormai aveva fatto l'abitudine ai suoi improvvisi sbalzi d'umore, al conseguente chiudersi a riccio e alle risposte secche su qualsiasi cosa di cui si parlasse.

Quel giorno erano usciti un po' prima da scuola, infischiandosene allegramente delle regole; vagavano senza meta tra i marciapiedi puliti, costeggiando file di casette a schiera tutte uguali.
Improvvisamente il ragazzo scorse due tizi seduti contro una parete: rallentò l'andatura e sorrise quando notò che stavano guardando distrattamente il parco davanti a loro – uno dei più bei polmoni verdi della città.

“Non trovi che in futuro potremmo assomigliare a quei due?”
Brian lanciò un'occhiata agli uomini ma non si dette la pena di investigare oltre:
“Neanche lontanamente.”
Spostò gli occhi chiari verso Gavin e lo esortò: “Andiamo?”
Quest'ultimo si arrestò un istante, infine domandò quasi seccamente: “Perché tu devi invadere il mio universo?”
“Se per questo tu hai invaso addirittura la mia sfera intergalattica, comprendente una pluralità di universi.” fece presente in modo asciutto.
Gave scoppiò a ridere, grattandosi la punta del naso coperto di lentiggini: “Wow, allora ho dei super poteri davvero mitici!”

Dette una spallata all'amico, di qualche centimetro più basso, e notò soddisfatto che tutto sommato sorrideva, nonostante cercasse di mantenere un dignitoso contegno piuttosto incazzato.
Così si allontanarono fianco a fianco, senza avere una meta precisa da seguire; lasciarono alle loro spalle non solo la scuola, i compagni di cui avrebbero volentieri fatto a meno e quei pochi che arginavano la solitudine, ma anche i due uomini sconosciuti che parlavano tra di loro.
Discorrevano, forse, di qualcosa che aveva a che fare con Dio e la risata: in che modo potessero conciliarsi, il ragazzino sedicenne e lentigginoso ancora doveva capirlo.

*°*°*°*

Meeting


Quel giorno nel monolocale al 104 di Cricketfield Road faceva decisamente caldo: un caldo che, effettivamente, era logico aspettarsi in piena estate. Mentre la litania poco ortodossa intonava un serafico, quanto accorato, Besame Mucho l'acqua scorreva nel lavello, con il blando tentativo di togliere il grasso dei churritos dai pochi piatti sopravvissuti al lavaggio – spesso incauto – di Esquival Ron Sandoval. Nell'aria ancora aleggiava l'odore di fritto delle ali di pollo, accompagnata alla più segreta promessa che mai più – nemmeno in caso di assoluta emergenza da frigo vuoto – qualcuno in quell'appartamento avrebbe fatto ricorso alle fritture da un pound del negozio dietro l'angolo.

Dentro di sé, però, Gavin O'Connel, intento a grattarsi con finto fare pensoso la punta del naso lentigginoso, era soddisfatto di essere riuscito a compiere quel piccolo miracolo alimentare, sebbene Esquival a lungo andare glielo avrebbe fatto pesare per il resto dei suoi giorni.
Magari avrebbe persino smesso di indossare quelle orride maglie fucsia dal bordo peloso, con la scusa di essere ingrassato troppo mangiando ali di pollo fritte. Scosse la testa: speranza davvero troppo ottimistica la sua.

“Gave, tesoro, se magari muovessi le tue ditine rinsecchite potrei sbrigarmi a fare la prossima mossa.” sibilò con voce isterica Esquival, controllandosi un'unghia fresca di limatura mentre roteava molto platealmente gli occhi.
“Ah, giusto...” borbottò l'irlandese che, per strani miracoli comprensibili solo al Sacrosanto Creatore, si era ritrovato a Londra dopo aver vissuto sin dalla più tenera infanzia nella città di Lussemburgo.

La prima volta che aveva raccontato della sua totale estraneità all'Irlanda, il proprio amichevole spacciatore di serate nei locali di jazz gli aveva riso in faccia, battendogli una pacca sulla spalla ossuta; Gavin aveva prontamente liquidato la faccenda districandosi con una delle sue solite battute sarcastiche, limitandosi a dire che l'unica associazione con Dublino che gli venisse in mente erano gli U2. Joyce aveva evitato di menzionarlo, il solo ricordo del flusso della memoria gli avrebbe fatto tornare l'ulcera.

Si passò una mano tra i capelli neri lasciati disordinatamente crescere fino alle orecchie e spostò con una certa accuratezza uno dei bastoncini in legno usati per giocare a shangai – regalati da Arja che lo coccolava con le sue vezzose novità; si divertiva a muoverli uno ad uno, evitando di scomporre l'ammasso casuale di legnetti.
La mossa venne portata a buon fine, così che Gave poté incassare il suo bastoncino e raccattare punti; Esquival storse la bocca in una smorfia perplessa poi tese un indice, dopo aver lanciato un'occhiata al proprio coinquilino. Fece per sfiorare il legnetto, dotandosi della massima concentrazione possibile, fino a che improvvisamente non squillò il telefono: un trillo isterico che lo fece sobbalzare, così che i bastoncini si mossero finendo per rotolare miseramente sul pavimento di moquette.

“Madre de Diòs, quell'affare mi rovinerà il cuore un giorno o l'altro. Morirò e sarà tutta colpa tua!”
Gridò portandosi una mano sugli occhi, mentre Gavin scoppiò a ridere – ormai abituato alle scene di vittimismo tanto care a Esquival. Si alzò per rispondere, non rinunciando allo spettacolo del suo compagno d'appartamento che borbottava minacce vane alla sua persona.

Val era un argentino all'apparenza come tanti altri sudamericani che vivevano in quel quartiere, situato nella prima cintura della City. Ma bastava osservare un attimo le pose da prima donna che assumeva, i vestiti sgargianti indossati e la voce dalla cadenza lasciva per capire che, nonostante i capelli biondo cenere, gli occhi di un indefinito color grigio e la pelle color caffé diluito, non aveva nulla da invidiare alle drag queens del locale dove si divertiva a trascorrere le serate assieme al suo nuovo fidanzato.

Gavin, invece, aveva passato i suoi ventidue anni d'età a cercare di capire cosa lui stesso fosse realmente: a sedici anni si era fermamente convinto, dopo averlo negato con tutta la sua forza, di essere omosessuale. Per amor d'onestà, essere omosessuali nel Lussemburgo, dove un'infinita serie di casette a schiera e tanto verde erano le cose più trasgressive che si potessero trovare, rappresentava  un enorme, infinito, problema.

Con gli anni suppose di aver solamente preso una sbandata: uno di quei colpi di testa che si prendevano di tanto in tanto, per poi al mattino fingere di non ricordarsi più nulla. Eppure, a ben pensarci, la sbandata in fin dei conti non era mai stata dimenticata; l'aveva più semplicemente accantonata, visto che da un po' di tempo aveva un relazione stabile con Arja – l'unica che, con le sue idee di hyppie ostinata, potesse accettare un'ulteriore concorrenza data dalla controparte maschile.

Quando sollevò la cornetta, la voce che più lo divertiva al mondo gli fece passare di mente il fatto che gli toccava pulire una pila di piatti, spruzzare deodorante per ambienti e ritrovare Whisky - il gatto nero regalato dal vicino colombiano superstizioso che, dopo aver sbandato con l'auto per non metterlo sotto, glielo aveva mollato volentieri pur di non averlo tra i piedi.

“Vediamoci al Trocadero tra...” la sua voce, melodica, persino snervante, cadde in una dovuta pausa di riflessione.
“Un'ora – disse Gave ridacchiando quando Esquival, disgustato, aveva tirato fuori dalla credenza uno spray per ambienti – porterò gli spartiti che mi hai lasciato. Penso che dovresti...”
“Lascia perdere, mi dirai lì – aveva sempre la fastidiosa abitudine di interromperlo. Un istante di pausa per poi aggiungere – Sei ancora vivo?”
La risata apparve incredibilmente cristallina, nonostante le interferenze del telefono. Gave sospirò e canzonò: “Da quando sei così spiritoso?”
“Da quando ho scoperto che i botellones ti fanno scoppiare il fegato.” sussurrò compiaciuto.
“Stendiamo un velo pietoso.” borbottò divertito, mentre fece cenno a Esquival di chiudere l'acqua prima di ritrovarsi annegati.

Per qualche istante nessuno dei due interlocutori parlò. Finché l'irlandese, sfogliando distrattamente le pagine dell'agenda, non chiese con il suo solito fare diretto:
“Hai sentito Annie in questi giorni?”
“No.” fu la risposta scocciata e altrettanto immediata.
“Brian, fammi il favore di chiamarla. Io e Stef non possiamo fare i tuoi portavoce per sempre.” lo riprese, socchiudendo stancamente gli occhi.
“Nessuno vi ha chiesto di farlo, sai.” rispose con una finta cortesia.
“Infatti: tu non chiedi, pretendi. Oppure dai tutto per scontato.” fu la replica tagliente.
Un sospiro distorto da parte di Brian e un ulteriore accenno di risata: “Da quando sei così spiritoso?”
“Ah ah... - fece una smorfia, sapendo di non essere visto, poi tagliò corto – Ci vediamo tra un'ora, Mr Uknow.”

Dopo una rapida replica poco affettuosa, entrambi chiusero la conversazione. Gavin aprì il cassetto dove teneva i documenti, infilò il portafoglio in tasca e prese da sopra il divano di un eccentrico rosso accesso la cartellina usata per custodire gli spartiti e le varie correzioni musicali.
Esquival lo osservava, appoggiando una mano al mento, senza mancare di sfoggiare un sorrisetto sarcastico:
“Perché non vi trovate a letto, invece, uno di questi giorni?”
“Perché non pensi di dare fuoco al tuo armadio, uno di questi giorni?” replicò acidamente Gavin, dopo aver controllato di aver preso l'abbonamento mensile dell'autobus.

L'argentino scattò in piedi, punto sul vivo: “Querido qué dices? Il mio abbigliamento non è roba che ti riguarda: io sono estroverso e felice; oltretutto penso sinceramente che quel giubbottino di pelle sia molto maschio.” asserì ridacchiando, dopo aver controllato che i bei capelli color cenere fossero al loro posto.
“La cosa più maschia che hai è la maglietta del Boca.” scherzò, prendendo le seconde chiavi dell'appartamento.
“Spiritosone – sbottò per poi riprendere a dire con più vigore – senti, la cosa è palese: tu dal Lussemburgo ti sei scarrozzato fin qui a Londra solo perché ti ha chiesto la tua opinione per degli arrangiamenti...”
Gavin gli puntò un dito contro replicando: “Ah, no! Lui mi ha proposto come saxofonista nei jazz club della City, aspettavo in Lussemburgo un'occasione simile e facevo in tempo a prendere il nobel per la letteratura.”
“Ehy, hombre! - lo richiamò – Potevi benissimo campare come scrittore e, niente storie tesoro, rimane ancora adesso il tuo lavoro principale. Seconda cosa: appena uno chiama, l'altro risponde.”
Lasciò il sottointeso, passandosi la lingua sulle labbra mentre era intento ad ammirare il suo stesso riflesso allo specchio, appeso nell'angolo del salotto.
“Io questa cosa la chiamo amicizia, hai presente?” borbottò aprendo la porta d'ingresso.
“Io la chiamo dipendenza.” replicò arricciando vezzosamente il naso.

In quel momento Whisky fece la sua altezzosa comparsa da oltre le scale male assestate del condominio; superò la soglia d'entrata dell'appartamento e, dopo aver lanciato un miagolio poco convincente, si arrestò per pulire il manto nero, indifferente al fatto che fosse scomparso per una buona parte della mattinata.
“Dagli da mangiare prima di uscire con Christen... ah, telefona ad Arja per dirle di farsi trovare al Trocadero, così la accompagno alla sua riunione.”
“Quella sul problemuccio dell'estinzione della foca monaca?” domandò perplesso Esquival, deliziandosi del suo stesso accento spagnolo che confluiva nell'inglese ormai ben conosciuto.
Gavin non si dette nemmeno il tempo di pensare; la memoria impeccabile gli consentiva di inscatolare le numerose date e ricorrenze che, con Arja come fidanzata, doveva necessariamente ricordarsi.
“No, quella era la settimana scorsa. Stavolta è parte di una campagna organizzativa contro la caccia alle balene. Inizialmente voleva bruciare la bandiera giapponese ma qualcuno più furbo di lei l'ha fatta desistere.”
I due uomini risero, pur sapendo che Arja non aveva mai mostrato l'intenzione di dar realmente fuoco alla bandiera del Giappone; credevano però che se mai la ragazza di origini finlandesi ne avesse avuto l'occasione lo avrebbe fatto, compiacendosi del suo gesto di protesta concreto.

Dopo aver dato una grattata dietro le orecchie a Whisky, Gavin uscì di casa, percorrendo con calma le scale cigolanti del condominio dalle asettiche pareti bianche fino a non arrivare al pian terreno; lì salutò la coppia Boliviana che imprestava sempre loro l'aspirapolvere per la moquette.
Come d'abitudine toccò il foglio con scritto a lettere capitali “Bajar la basura”: essendo un abitato composto prevalentemente da persone di idioma spagnolo nessuno si era mai scomodato a scrivere diversamente, ma ben presto aveva compreso che la traduzione “Portare giù la spazzatura” non gli avrebbe cambiato più di tanto le sue abitudini, dato che era una pratica che svolgeva abitualmente.
Ringraziò che ci fosse un cortiletto apposito nel quale effettivamente gettarla, visto che a Londra la sera tutti abitualmente lasciavano i propri rifiuti al ciglio della strada – cosa non propriamente ottimale nel mezzo dell'estate.

Nonostante tutto Gavin amava il quartiere dove viveva: Hackney era un posto multietnico e variegato. Vicino a casa c'era un parco meraviglioso e spesso assieme ad Arja si divertiva a guardare i ragazzini del quartiere litigare per il lancio della palla da baseball; conosceva il carroattrezzi vicino – per quanto, visto che non possedeva auto, gli sarebbe stato difficile portargli un veicolo da riparare – e ogni tanto si fermava a chiacchierare con il gestore del pub all'angolo prima di tirare dritto fino a Lower Clapton Road: una volta lì prendeva il 38 che lo portava fino a Piccadilly Circus.

Considerando che il centro commerciale del Trocadero era a due passi da lì, non gli dispiaceva trascorrere un'ora in autobus: aveva l'occasione di veder scorrere la città e pensare a tante cose che, normalmente, avrebbe relegato in secondo piano. Anche in quel momento, salendo su una sedia foderata di tessuto, gli tornava alla mente la sua adolescenza trascorsa nella grigia Lussemburgo e le svariate coincidenze che lo avevano portato ad essere uno dei pochi amici del complessato Brian Molko e quindi anche di Stefan Olsdale.
A cavallo tra i sedici e i diciassette anni la relazione con il primo era divenuta qualcosa di ben diverso dall'amicizia, un rapporto ben più complice seppur platonico – come amava definirlo; si erano trovati bene, anche quando le rispettive vite presero nel tempo strade nettamente diverse.

La sera, nei locali di Londra, bevevano una birra in compagnia; in quelle occasioni era facile ricordarsi dei ritrovi a casa di Gavin che, deserta per l'assenza dei genitori, ben si prestava a diventare un punto d'incontro per quello sparuto gruppetto di amici, i quali sfogavano i propri rancori facendo gli stupidi insieme, fingendosi grandi solo perché si aveva una bottiglia di birra in mano.
Da dopo la scuola Brian si era affrettato a fuggire lontano da quella che considerava una prigione a cielo aperto, mentre lui era rimasto a contemplare il padre destreggiarsi con titoli e azioni bancarie, quando sua madre dal mondo cartaceo dell'editoria lo incoraggiava a scrivere per avere poi l'onere di fargli pubblicare un libro, presto o tardi.

Più tardi che presto, siccome il giovane O'Connell si era deciso di farsi le ossa nel campo delle testate giornalistiche mensili: in questo modo avrebbe potuto concludere la propria laurea con sulle spalle una certa esperienza nell'ambito delle recensioni musicali. Quando seppe in anteprima dell'uscita del primo album dei Placebo, avrebbe voluto accaparrarsi l'esclusiva della recensione ma il proprio caporedattore, sospettando eventuali favoritismi, lo aveva liquidato con il triste compito di raccogliere gli ultimi dati sulle classifiche di vendite a livello internazionale.

Di conseguenza, seduto sul 38, Gavin O'Connell sperava ardentemente di avere finalmente l'incarico di recensire un eventuale secondo album; sapeva che Brian ci stava lavorarndo ma per quanto alcune basi musicali, visionate assieme a lui, fossero pronte ancora dei testi non sapeva nulla. D'altronde preferiva così: fingere una salutare indifferenza, visto che già troppe volte si era roso il fegato per aver ostinatamente insistito troppo nelle cose.

*°*°*°*

Quando giunse presso la caffetteria dove aveva appuntamento con Brian, lo trovò seduto presso uno dei tanti tavolini squadrati, con di fronte a sé due bibitoni extra-large di caffé. Teneva le gambe dignitosamente accavallate, mentre con la sigaretta che pendeva dalle labbra carnose sfogliava un giornale; per evitare di farsi eccessivamente riconoscere indossava larghi occhiali da sole e i capelli, lunghi fino al collo, sporgevano ribelli da oltre un cappello con visiera.
Gavin ridacchiò nel notare che indossava una maglietta a maniche corte nera, perché creava un bel contrasto, parecchio artistico, con la pelle cadavericamente bianca; eppure non riusciva mai a fare battute sul colorito spettrale dell'amico, sapendo di essere nelle sue stesse condizioni.

Si sedette presso la sedia di fronte a lui, salutandolo con un semplice:
“Ciao, Brian.”
Quest'ultimo prese la sigaretta tra le dita e, portandosi una ciocca di capelli dietro le orecchie, replicò con voce leziosamente pacata: “Ciao, Gave – una delle sue solite risate trascinate e musicalmente incredibili, per poi aggiungere – sbrighiamocela con una dose di caffé stamattina.”
“Tanto decidi sempre tu.” replicò con un'alzata di spalle, facendo ondeggiare il bicchiere cartonato.
“Mi piacerebbe, se solo fosse davvero così.” accennò ad un sorriso che poteva significare tutto e niente.
Gavin non disse nulla; si limitò a versare lo zucchero una volta tolto il coperchio in cartonato, imitato da Brian: quest'ultimo assumeva sempre un'espressione al limite del disgusto ogni volta che doveva armeggiare con oggetti di provenienza ignota. Non lo faceva consapevolmente; quella di distorcere la bocca in una smorfia altezzosa era un'abitudine consolidata da anni e anni.

“Stasera suoni al Ronnie Scott's?” domandò Brian, girando con il cucchiaino in plastica la bevanda.
“Sì. Dopo Val da una festa al Way Out con Christen, credo presenzierò per bere un paio di birre e poi andrò a casa; magari mi fermo direttamente da Arja: domani ho l'appuntamento con l'editor.” spiegò richiudendo il contenitore.
“Stefan mi ha detto della festa; se non celebrano ogni giorno il fatto di scoparsi quei due non sono contenti.” ironizzò Brian muovendo appena la mano, così che si dipinse nell'aria un tratto leggero di fumo.
Gave sorrise per poi passare oltre e chiedere: “Che fai? Esci dalla tana e ti degni di raggiungere i tuoi amici, oppure sei troppo impegnato per noi?”
“Poco dopo che avevi chiamato tu ho sentito Annie.” disse Brian a bruciapelo, reclinando appena la testa dopo aver aspirato dalla sigaretta mezza consumata.
“Quindi?” indagò l'irlandese, sorseggiando lentamente il caffè.
Il musicista tolse la cenere picchiettando sul posacenere in plastica e rispose con calma gelida:
“Niente di nuovo, sai. Crede che io sparisca da un momento all'altro; ha detto che vuole venire anche lei a sentirti suonare.”
“Capisco. E tu?” domandandolo si massaggiò lentamente il mento.
Brian portò un gomito sullo schienale della sedia e spiegò con eleganza:
“L'ho mandata inizialmente a fare in culo, ci siamo urlati contro per un po' e infine abbiamo deciso che ci saremmo visti davanti al locale.”
Espirò tranquillamente il fumo, come se nulla fosse. Gavin appoggiò una guancia sulla mano e replicò: “Beh, ti è andata ancora bene. Annie mi odia di principio invece.”
“No – lo corresse serafico Brian – lei ti odia solo perché crede che andiamo a letto insieme.”
Gavin sospirò, scherzando: “Giusto. Meno male che non conosce a fondo la tua vita pastorale in Lussemburgo allora o non mi avrebbe più rivolto la parola. Pensare che ad un primo impatto mi sembrava così tranquilla, una brava signorina mansueta quasi.”
“Ho l'effetto di rendere isteriche le persone, ricordi?” disse appoggiando un gomito sul tavolino, puntando le dita con la sigaretta in direzione di Gavin.
Quest'ultimo ridacchiò, posando sulla superficie in finto marmo la cartellina con i vari spartiti, e asserì: “Non saprei. Io ti trovo piuttosto divertente.”
Brian tornò a togliere la cenere dalla sigaretta per rispondere con tono di voce morbido, alternato a una certa amabile ironia:
“Grazie, Gave.”

Dopo quelle due parole iniziarono a parlare esclusivamente di musica. Attorno a loro il chiacchiericcio del locale, assieme all'odore dei dolci preconfezionati mostrati nelle vetrine del bancone, che a volte arrivava a mischiarsi con quello delle caramelle di gomma del negozio di fronte.
Alla radio Bono e gli U2 tenevano loro compagnia sulle note di Sweetest Thing, mentre Londra continuava a vivere immersa nel caldo estivo.



Sproloqui di una zucca

Dedico questa sorta di fiction a Ilena, aka Hiko_Chan.
Sei una persona stupenda e, già lo sai, ringrazierò per sempre il mondo della scrittura amatoriale che mi ha permesso di conoscerti. So che magari ti aspettavi una fiction su Naruto, eppure ho voluto rovinarti creando questa cosetta  - lo so, sono da fustigare.
I Placebo, però, sono una delle tante passioni musicali che ci accomunano. Sin da quando durante l'estate ho elaborato le righe mi sono detta: "E' tutta per Ilenia!"
Non l'avrei mai pensata o potuta dedicare a qualcun altro che non sia tu, mia diletta pusher e Grande Officiante della Carica. Sei una persona ormai fondamentale, una lettrice stupenda, una consigliera e un'amica preziona; spero che in ogni riga che leggerai troverai il mio affetto per te e il mio sincero augurio che le tue scelte, i tuoi studi e la tua vita in generale proseguano sempre nel migliore dei modi.
Tantissimi auguroni, Ile *_______*
Ps: ricorda che presto o tardi voglio quel benedetto scoglio personale e il fucile per le pecore. Ammetto che queste non hanno più fatto tanta interferenza negli ultimi giorni, però... meglio prevenire che curare ù.ù
Un grande baciottolo!
   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Placebo / Vai alla pagina dell'autore: Happy_Pumpkin