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Autore: Alsha    17/06/2022    0 recensioni
Costretta a confrontarsi con l'accaduto degli ultimi due mesi, Vanya fa l'unica scelta che le sembra sensata: scappare.
In una lettera, aveva spiegato di come il rumore della città fosse diventato insopportabile, di come ogni vibrazione le arrivasse diretta alle ossa. Aveva sperato che capissero, i suoi fratelli, ma non ci avrebbe scommesso.
D'altra parte, aveva provocato la fine del mondo due volte.

-Storia partecipante alla “Perché SanRemus è SanRemus! Challenge”-
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Vanya Hargreeves / Violino Bianco / Numero 7
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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NOTE:
>La storia è ambientata in un universo alternativo in cui alla fine della seconda stagione, gli Hargreeves ritornano nella loro linea temporale originaria ma senza Apocalisse (senza quindi il plot twist della Sparrow Academy)
>Trattandosi di una storia che riguarda Viktor prima/durante la sua transizione, per parte della storia parlerà di sé al femminile e usando il nome Vanya
>AVVERTIMENTI: sono presenti riferimenti ai maltrattamenti subiti durante l’infanzia dagli Hargreeves e ad un tentato suicidio (non canonico)

 
Storia partecipante alla “Perché SanRemus è SanRemus! Challenge” indetta da Gaia Bessie e Ciuscream sul forum Ferisce più la penna
 
 
 
PER EVITARE LA FINE DEL MONDO
 
 
Con la sua parte di eredità, Vanya aveva comprato un minivan, di quelli arredati per viverci.
 
Aveva raccolto tutti i suoi vestiti, i libri e gli spartiti, senza sorprendersi che le sue cose non fossero sufficienti nemmeno a riempire i pochi mobiletti del retro, aveva chiuso a chiave l'appartamento e si era messa in marcia.
 
In una lettera, aveva spiegato di come il rumore della città fosse diventato insopportabile, di come ogni vibrazione le arrivasse diretta alle ossa. Aveva sperato che capissero, i suoi fratelli, ma non ci avrebbe scommesso.
 
D'altra parte, aveva provocato la fine del mondo due volte.
 
In un banco dei pegni, dopo una settimana di viaggio, aveva trovato un vecchio portatile, abbastanza funzionante da collegarsi alla tremolante connessione di un bar.
 
Nel suo breve tentativo da una psicologa, le era stato suggerito di esprimere i propri pensieri, in un diario o in qualcosa di simile, per rimetterli in ordine.
 
C’era un sito di scrittura, su cui aveva passato diverso tempo anni prima alla ricerca dell’ispirazione per scrivere un secondo libro, per scoprire con somma delusione che la rabbia che l’aveva spinta fino all’ultima pagina si era prosciugata completamente.
 
Scelse come nome di penna “Icaro”. La fine del mondo era cominciata dal palco dell’Icarus, in fondo, e poi aveva sempre sentito una certa affinità con quel bambino delle leggende che, nella foga di uscire dalla prigione in cui aveva vissuto tutta a sua vita, moriva ubriacato dalla sua libertà.
 
Le sembrava adatto, cominciare da lì.
 
 
Se Icaro non fosse stato imprigionato, non avrebbe avuto bisogno di gettarsi nel vuoto con ali di cera e di piume.
 
Non è morto per la sua arroganza, o per la sua imprudenza. È morto perché era un ragazzino che per la prima volta vedeva il sole.
 
 
Non accendeva la radio quando guidava.
 
Le sue percezioni erano diventate una massa confusa di luce e di suono, che sfumavano le une nelle altre.
 
Il fruscio dell'erba alta ai lati della strada era un'onda di luce.
 
La vibrazione del motore sotto il suo sedile un tremolio ai bordi del suo campo visivo.
 
La luce del sole diventava un brusio che riverberava nei suoi denti.
 
Era musica a sufficienza.
 
Ma la sera, prima di andare a letto, si sintonizzava su una stazione a caso e ascoltava quello che passava.
 
Si sdraiava sulla sua cuccetta, nel buio, e si faceva cullare dal country, dal pop, persino dalle notizie sul traffico trasmesse a tarda notte (non dalla musica classica. Mai dalla musica classica).
 
E quando si addormentava, sognava Sissy armata di fucile, la donna bionda con la mitraglietta nel fienile, Allison con una pistola carica sul palco del teatro, e si svegliava prima di sentire esplodere il colpo.
 
 
Ho quasi paura di addormentarmi, ultimamente.
 
 
Quando aveva diciassette anni, Vanya era scappata di casa.
 
Non era la prima volta, e come le altre volte nessuno se ne era accorto.
 
Ciò che accadde di diverso quella volta fu che si dimenticò le pillole. Suo padre, ricordava, le aveva bruciato alcuni spartiti perché il jazz era poco dignitoso per una Hargreeves.
 
Aveva messo quello che le serviva in una borsa ed era uscita dalla finestra prima che facesse buio, con i nervi che fremevano sotto la pelle per l’ingiustizia.
 
C’erano voluti due giorni, trascorsi in un polveroso ostello in periferia, perché gli effetti delle pillole si affievolissero. Anche a sforzarsi, Vanya ricordava poco di quei momenti: ciò che aveva fatto era avvolto da una nebbia biancastra, come la camera anecoica, come il suo ultimo concerto.
 
Ricordava il suono del suo cuore che batteva, del sangue che scorreva nelle sue vene. Le vibrazioni dei motori che pulsavano lentamente sotto le sue scarpe mentre lei camminava per la strada senza nemmeno guardare per terra. Il frastuono di un cantiere, gli strilli dei bambini in un parco giochi.
 
Abbastanza confusi da trasformarli in un sogno.
 
Non sapeva come fosse tornata all’Accademia. Non aveva osato chiedere a nessuno cosa fosse successo, e nessuno glielo aveva mai detto.
 
Ricordava di aver cercato il porto, però, convinta che l’acqua avrebbe potuto farlo smettere, e quando era riemersa dall’acqua torbida, incapace di rimanere a fondo, si era trascinata fino all’Accademia.
 
Il barattolo di pastiglie era pieno per tre quarti, dove l’aveva lasciato. La mattina dopo si era svegliata in una pozza di vomito e acqua sporca.
 
Il barattolo era vuoto e il mondo era di nuovo silenzioso, ma ricordava appena la delusione di sentire ancora il suo cuore che pulsava.
 
 
Ogni tanto sogno di nuotare verso il fondo dell’oceano, e lasciare che il peso dell’acqua mi schiacci.
 
 
Di regola, cercava di non pensare a Cinque.
 
Aveva pensato a Cinque ogni notte fino a che non aveva lasciato l'Accademia, aggrappandosi al suo ricordo con disperazione, e poi non aveva pensato più a lui.
 
Era stata una decisione necessaria, come rimuovere la parte necrotica di una ferita, ma non aveva mai smesso di sanguinare.
 
Con la strada che scorreva sotto le ruote, Vanya cercava di non pensare a Cinque.
 
Cinque che scappava fuori dall’Accademia per finire nell’Apocalisse, Cinque nel suo salotto che diceva di potersi fidare solo di lei, Cinque che cercava di riportarli tutti a casa da Dallas.
 
L'avrebbe odiata per la sua fuga, per avergli tolto un minimo di controllo sulla catastrofe che aveva rovinato la sua vita, senza pensare che magari se lui l'avesse ascoltata, se non avesse provato a viaggiare nel tempo, lei non sarebbe stata da sola, e non si sarebbe trasformata in una bomba.
 
Di regola non pensava a Cinque, perché se lo avesse fatto avrebbe potuto finire per odiarlo.
 
 
Ho tutta questa cattiveria in attesa sotto la pelle, sempre ad un passo dal sentirla traboccare.
 
Come fanno gli altri a non esplodere?
 
 
La proprietaria del pub aveva sintonizzato il televisore su un programma di gossip.
 
Così ebbe le prime notizie della sua famiglia da settimane, guardando degli opinionisti speculare sull’enorme e misterioso uomo che aveva accompagnato Allison e Claire a prendere un gelato.
 
Un nuovo fidanzato, sosteneva l’opinionista con la camicia turchese. Una guardia del corpo, ribatteva l’opinionista con il naso rifatto.
 
E via, a sviscerare i dettagli delle foto sfocate, come se i suoi fratelli e sua nipote fossero insetti sotto una lente di ingrandimento, da inseguire con la luce fino a farli bruciare per il proprio divertimento.
 
Pensare che aveva invidiato le attenzioni costanti che i suoi fratelli ricevevano dal pubblico, quando erano piccoli. Aveva desiderato i giornalisti, gli autografi, le foto, forse perché in casa non esisteva traccia della sua esistenza.
 
Come se numero Sette fosse sempre stata destinata a sparire, appena si fosse fatta troppo pericolosa per essere rinchiusa nella sua camera anecoica.
 
Aveva bramato disperatamente un modo per lasciare una qualche traccia nel mondo, aveva rovesciato sulla carta tutta la bile e i segreti della sua famiglia, e poi si era ritrovata con niente in mano.
 
Ora, l’idea la riempiva di disgusto, come tutto quello che la circondava.
 
Allison, Luther e Claire si meritavano di meglio.
 
E lei non poteva farci niente, perché era lontana migliaia di chilometri da loro, dispersa in una cittadina di cui non ricordava nemmeno il nome, a guardarli mentre venivano vivisezionati da gente che non li aveva mai nemmeno visti di persona in uno squallido pub dal pavimento appiccicoso.
 
Le era passata la fame.
 
 
Mi è sempre mancata la mia famiglia. So di essermene andato spontaneamente, eppure mi manca.
 
O forse, ciò che mi manca è la potenzialità, la famiglia che avrei potuto avere se le cose fossero andate un diversamente.
 
 
Nelle docce delle stazioni di servizio non c'era tempo per osservarsi: bisognava fare in fretta e lavarsi al meglio prima che qualcun altro entrasse.
 
La stanza di motel aveva una porta che si chiudeva ed era pulita.
 
Vanya si era presa il tempo per spogliarsi con cura, raccogliendo i vestiti sporchi su una sedia per portarli alla lavanderia che le aveva svogliatamente indicato il titolare.
 
Aveva avuto cura di osservarsi mentre si lavava, i calli sulle dita lasciati dal violino, le curve delle clavicole sporgenti, i lividi sulle ginocchia. Una conta per verificare che ci fosse tutto, quasi.
 
Il suo corpo era stato tra le tante cose a cui per anni non aveva pensato oltre al minimo necessario per mantenerlo in funzione.
 
Era un corpo di plastilina, a malapena funzionale: debole, malleabile. In grado di essere plasmato da chiunque, ma incapace di trattenere il dettaglio del risultato desiderato.
 
Quando aveva smesso di prendere le pillole, il suo corpo aveva tirato fuori anni di desideri soffocati, di cibo mediocre e vestiti scomodi, di noia, e rabbia, e stanchezza.
 
Non le sembrava vero, di avere un corpo, di poterci fare quello che voleva.
 
Di vestirsi come desiderava, di mangiare ciò che la ingolosiva e dire ciò che pensava.
 
Per esempio, Reginald Hargreeves non le aveva mai permesso di tagliarsi i capelli.
 
Per quanto la riguardava, Reginald Hargreeves poteva andarsene a fanculo.
 
 
Tre cose che possono cambiarti la vita: un libro, un funerale e un taglio di capelli.
 
 
La questione era: conosceva Klaus.
 
Sapeva che la forma del corpo non aveva nulla a che vedere con quello che una persona sapeva di essere dentro.
 
Eppure, era più facile quando era Klaus che si faceva truccare da Allison o rubava le gonne dall'armadio di mamma quando si sentiva una ragazza.
 
Vanya aveva scoperto che tutto quello che gli era stato detto di sé era falso, e poi aveva distrutto il mondo. Aveva perso la memoria, si era innamorato di una donna, e poi aveva quasi causato la fine del mondo un'altra volta.
 
Erano stati dei mesi intensi.
 
Era cambiato tutto.
 
Non poteva cambiare anche questo.
 
Ma forse non era cambiato nulla.
 
Forse era sempre stato così, e non se ne era mai accorto.
 
Forse era stato cieco anche in questo, come in tutto il resto.
 
Forse era come per il suono dell’universo, tenuto al di là della sua portata dalla lunghezza di una pillola.
 
 
Dio, che rottura di palle scoprire cose di sé.
 
È per questo che alla mia terapista non piacevo.
 
 
La bibliotecaria gli aveva sorriso da sopra un paio di occhiali coperti di brillantini, e aveva affondato i metaforici artigli su di lui prima che potesse dire "buongiorno".
 
C'erano sempre meno ragazzini, e i grandi avevano letto tutto quello che c'era da leggere, aveva spiegato.
 
Non aveva molto da fare, così passava il suo tempo a pulire e riparare i libri, aveva spiegato.
 
Non veniva mai nessuno, men che meno da fuori città, quindi era a sua completa disposizione, aveva spiegato.
 
Era la prima persona con cui scambiava più di due parole da quando era partito.
 
Prima dell'ora di pranzo sapeva tutto dei figli e dei nipoti di Dorothy, del suo club di uncinetto, persino di Agatha la sua orribile vicina dall'orribile chihuahua.
 
Per l'ora di cena aveva scarabocchiato una lista di possibili nomi, pescati in ordine alfabetico da “10 000 e più nomi per i vostri bambini!”, per il finto protagonista del finto romanzo che stava fingendo di scrivere.
 
Stringendo i fogli in mano, rifiutò l'invito a fermarsi da Dorothy e da suo marito, perché sentiva l'ombra di un attacco di panico stringersi nel suo campo visivo.
 
Comprò una cena da portar via, salì sul furgone, fece i suoi esercizi di respirazione.
 
L’ansia retrocesse lentamente, scacciata lentamente dal buio della notte e dalla luce delle stelle.
 
Tanto sapeva che alla fine la scelta era già fatta.
 
Da piccoli, Cinque lo chiamava Vì, perché in numeri romani il cinque si scriveva V.
 
Era il loro segreto, il loro punto di incontro.
 
Cinque avrebbe potuto continuare a chiamarlo così, se avesse voluto. Avrebbe detto anche agli altri di chiamarlo Vì, se fosse riuscito a tornare all'Accademia, se non lo avessero odiato, se, se, se.
 
 
Cosa posso fare, se voglio tornare a casa ma non è più casa mia?
 
 
 

NOTE:
>La storia è basata sul pacchetto ‘Rkomi – Insuperabile’ della challenge. Le frasi che hanno fatto da ispirazione sono "Abbiamo rovinato anche il cognome dei nostri", che per qualche ragione mi ha fatto pensare agli Hargreeves, e "In bilico su un filo spinato" per le vibes generali dello stato d'animo di Viktor.
>“Camminava per la strada senza nemmeno guardare per terra” è una citazione tratta da ‘Sally’ di Vasco Rossi (per il bonus “Vita spericolata”)
>Klaus nella mia storia è nonbinario/genderfluid. Il fatto che si facesse mettere lo smalto da Allison è un dettaglio presente nel libro di Viktor
>L’idea del soprannome dato da Cinque a Viktor non è mia, è piuttosto diffusa nel fandom e siccome ne adoro il simbolismo l’ho inserita
 
 
  
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