Copertina ad opera di Federica Fagiolini insta @effe_fagio
Betareader: Geilie (EFP - AO3)
Preludio
Il giorno in cui la donna si rese conto di essere sul punto di partorire, la valle in cui viveva venne avvolta all’improvviso da una pesante coltre di nebbia, bianca e densa come panna, che cancellò ogni parvenza di distanza tra gli oggetti.
Se qualcuno si fosse azzardato a recarsi all’esterno, uscendo dalle capanne che formavano il villaggio, si sarebbe trovato subito con la neve fino al ginocchio, mentre il vento gli ululava nelle orecchie tutto il proprio sconcerto.
Era ancora l’inizio dei tempi, il mondo era fresco e nuovo e il territorio in cui si era stabilita la tribù della donna era uno sputo di picchi montagnosi difficili da scalare e abbondanti di terra dura e congelata, ancora più difficile da far fruttare. Ma quei luoghi erano anche ben lontani dagli strani conflitti che minavano la pace del loro paese e a tutti gli abitanti andava più che bene così.
La tempesta di neve che si abbatté sul piccolo villaggio quel giorno di inizio primavera non fu considerata come un avvenimento strano: era già accaduto che si verificassero nevicate in piena estate e nessuno si era mai stupito della rigidezza del clima. La cosa davvero strana, però, furono le nuvole, che presero ad addensarsi nel momento esatto in cui la donna iniziò a percepire i primi dolori del parto; all’inizio lente e candide come animali addormentati, poi nere e cariche di oscure promesse.
In principio nessuno vi fece caso, ma quando la tempesta prese a rafforzarsi al ritmo del travaglio, le poche persone giunte in visita alla partoriente si dileguarono nella neve, desiderose di tornare a casa e con i pensieri attanagliati da un brutto presentimento.
L’unica a rimanere al fianco della donna fu la levatrice, una vecchia dalle mani rugose e dagli occhi rapaci, i capelli bianchi raccolti in una treccia molto stretta che le ricadeva sulla schiena piegata dagli anni come fosse una corda di canapa. Era vestita di un bel verde cupo, abiti consumati dall’uso e da una vita all’aria aperta, ma puliti e ordinati.
«Va tutto bene» disse la levatrice, tamponando il sudore sulla fronte della donna in agonia.
«È presto» fu la replica bisbigliata. «È troppo presto!»
La vecchia signora le allontanò dal volto esausto la matassa di capelli, fradici, rossi come il fuoco e ingarbugliati dai movimenti scomposti. «Ha deciso lui di nascere» le rispose a voce alta, nel tentativo di superare gli ululati del vento. «Non sei tu a scegliere.»
La partoriente piantò lo sguardo tremante sulla vecchia, mentre quest’ultima le infilava una mano tra le gambe per controllare quanto tempo ancora sarebbe passato prima che il bambino si decidesse a fare la sua comparsa. Il travaglio aveva avuto inizio il giorno precedente ed erano ancora solo al principio. La madre, già duramente provata da una gravidanza difficile, era diventata l’ombra di se stessa. L’unica cosa di lei che sprizzava vita era la pancia gonfia. Pallida come se fosse già cadavere, la donna aveva il volto assottigliato dalla stanchezza e dalle privazioni, un volto ornato soltanto da un paio di occhiaie profonde e da due labbra bluastre, sottili e serrate.
«Gli altri» gemette la donna, come se si fosse accorta solo in quel momento che erano rimaste sole. «Dove sono gli altri?»
La levatrice le fece un sorriso tanto rassicurante quanto falso e le spiegò dove fossero i loro compagni in parole brevi. «Andati, mia cara. Non è la notte giusta per assistere a una nascita.»
Non è nemmeno la notte giusta perché qualcuno nasca, pensò la vecchia. C’era qualcosa di sbagliato nell’aria, qualcosa di strano e di misterioso. Il bambino era prematuro e con un travaglio del genere era molto probabile che nascesse morto e che portasse sua madre via con sé.
«La neve» continuò la donna, il volto contratto dal dolore, le mani che artigliavano le coperte macchiate e disfatte. «La neve!»
«Sciolta entro domattina» replicò l’altra con rapidità, cercando di farla stare tranquilla e allo stesso tempo allargandole le gambe. L’odore aspro del sangue le afferrò il naso, ma lei non ci fece caso: aveva visto sin troppe donne in quelle condizioni. «Non ce ne sarà più nemmeno un granello quando terrai tra le braccia il tuo bambino, vedrai!»
Da quel momento in poi la donna non riuscì più a dire una parola, alternando momenti di veglia dolorosa a momenti di sonno agitato. Chiudeva gli occhi per pochi secondi, perdendo ogni appiglio con la realtà, e li riapriva di nuovo quando il dolore si faceva troppo forte per permetterle di riposare.
«Per favore» pregò molte ore dopo quando non aveva più nemmeno la forza di sollevare un braccio. «Per favore…» Ma non era chiaro a chi si stesse rivolgendo. Aveva la faccia voltata verso la minuscola finestra, quasi del tutto ricoperta di neve. La tempesta minacciava di portarsi via la capanna con loro dentro e la donna si aggrappò al pagliericcio intriso di sangue con le ultime forze, spingendo quando le veniva ordinato di spingere, respirando quando le veniva ordinato di respirare.
La creatura venne al mondo quasi d’improvviso, come se stesse cercando di sorprendere madre e levatrice assieme, ma quando tirò il suo primo respiro, la donna riversa sul letto esalò il suo ultimo. I suoi grandi occhi castani, pieni di dolore misto a sorpresa, si spensero rivolti tutti alla finestra innevata e non si posarono mai su quel figlio che aveva messo al mondo a proprio discapito.
Il bambino era una cosina minuscola, raggrinzita e congestionata per la fatica che aveva dovuto fare per nascere. La vecchia lo prese tra le mani con un gesto spiccio, un movimento che aveva fatto decine di volte prima di allora e che probabilmente avrebbe fatto per molti altri anni, se l’artrite glielo avesse permesso. Ma invece di ripulirlo dai liquidi del parto e tagliare il cordone che lo legava ancora al corpo morto di sua madre, si mise a fissarlo con sorpresa.
Il piccolo aveva gli occhi aperti, spalancati su un mondo in penombra, e nel momento esatto in cui le sue iridi verdastre si posarono su di lei, il vento cadde e la neve smise di gettarsi a fiotti contro le pareti della capanna, come per magia.
«Che cosa sei?» bisbigliò la donna, tenendolo un po’ discosto da sé, quasi che la vicinanza con il suo piccolo corpo la disgustasse.
Il bambino, un ciuffo di capelli color carota sulla testa e grandi occhi intelligenti, aprì la bocca sdentata e infine si mise a piangere. Era un suono strano, anomalo, e per un folle attimo alla levatrice sembrò quasi che invece di piangere… stesse ridendo.
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Note: primo di una serie in quattro volumi già completa e in corso di revisione. Gli aggiornamenti cercheranno di essere quanto più puntuali possibile.