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Autore: Cladzky    15/08/2022    1 recensioni
Leggendo l'Eneide l'autore si addormenta e finisce in un terribile oltretomba scritto in terzine ma anti-Dantesco, dove non sono i morti a essere puniti, ma i suoi peccati letterari. Il buon Virgilio, come al solito, recupera la sua funzione di guida in questo inferno laico, traghettandolo da un'anima furiosa all'altra, pronta a randellarlo. Un'opera per ridere, ma anche di riflessione interiore e soprattutto di insulti, piena di personaggi storici.
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Parodia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CANTO IV - L'autore, inseguendo Vergilio, scala il colle dei testi perduti.


A seguire, a seguirlo, seguitai

Com'ei scappò nel canto priori

Ma, di fermarsi, non cenna già mai,


Anzi, più il passo ei butta in fori

Dacché si volta e videnmi appresso

E schiaccia gli occhi, contrito ai dolori.


"Magno magistro" Chiamollo perplesso

"Indo tu vai e dov'andrò io

Sanza lo mio duca intercesso?"


"Duca nè son, men di te, rïo.

Anco m'appelli come'l ghibellino!

Nulla, proprio, lasciatti di mio?


Questo detto, augel spazzino

Sia l'estremo e dal mio cuore

Strappa il becco, vola alfino!


Seppur su rami spogli di spore

La razza tua nidifica sovente

M'illusi fruttar qualch'anno ancore."


E s'invola in sopra a una tangente

Ch'è ripido colle de carte scartate

Dal tempo, che mai, basta alla gente:


Che p'ogne libro voi leggiate

Due ne sono tosto scritti

Da chi anela essere vate


Sicché troviamci assai conflitti

Su qual'opra è degna nostra vita

Sì breve ogniuno ne ha diritti.


E se niuno posa la matita

Per spaziare a un simposiarca,

Credensi tal da piante a dita,


Acciò allori franco Petrarca

Per forza dieci altri n'oblierai

Ch'angusta è, de mente, l'arca


E in salvo, pochi, trar potrai

Da quel diluvio ch'è l'historia

Qual scorre più dei calamai.


Manco copi più una storia,

Cagnosciuta ben donde a molti

Ch'altra resta e prende boria


E irristampati giaccion folti,

Boschi della ragion passata,

Consumossi, eppur mai sfolti.


Ogn'opra, in terra, morta data

Qui avrai diletto a calpestare;

Se di pietà non hai una fiata.


La pria vittima è un vernacolare

Non fiorentino, bensì in reggiano;

Maria Boiardo n'è l'titolare.


Ess'è uno scritto de propria mano

Ch'ispirò lo ferraro Ariosto.

Cantovvi d'Orlando, baron soprano


E del suo amor, mai corresposto,

Che porta Angelica fissa'l costato

Ma il cugin, Rinaldo, gl'ha anteposto,


Seppur lui l'odia, per Merlino fato,

Fra mill'altre vicende in cui trastulla

Per ciò l'è nomato "Orlando Innamorato".


Ove "chi stimava tutto il mondo nulla"

(Dice Boiardo che dice Turpino)

"Senz'arme vinto l'é da una fanciulla".


Ma non é mica perso, dirà un tapino,

L'é perso sì, o non fossi tristano.

Fruga ogne stampa e io t'indovino


Che manco una la trovi in reggiano!

Riscritta fu postuma in lingua toscana,

(Di moda era in bocca al cortigiano)


E scovar l'originale è speme vana.

Resta, quantomeno, lo suo rinnovamento

D'un franco celebre sol pe Durlindana.


Il volume lasciai con gran risentimento

Di non portarlo meco in Emilia

Che correr dovetti, a guisa del vento.


Non ebbi il tempo d'una quisquilia

Che fui rapito, giunto al declivio,

Da chi tien storia de consorte d'Hersilia


E suoi pronipoti in immane archivio.

Scoloricci fa i sessantanove canti

L'"Ab Urbe Condita" del padovo Livio!


Per cento e più libri tratta dei vanti,

Meglio de scudo cald'i Vulcano,

Partendo da Troia e prosegue avanti


Sino ad Augusto, imperator romano.

Questa raccolta, persa in gran parte,

Petrarca fu l'ultimo ad averla in mano,


Si dice, attingendo alla sua arte,

Stilando l'"Africa" in Scipico onore.

S'io qui stessi, dissertando disparte


Ogne tomo ch'in quella cima more

Io andrei avanti per sì tante terzine

Che mai vedreste canto successore.


Dell'opre ridotte a inciampo, meschine,

Ignorar debbo, che mirando perderei

A beccar mangime tale alle galline.


Dirò, ultimente, che trovai dei Galilei

Il maggior nimico in politica e pensiere:

Restaurò, stoico, gli olimpici déi,


Pontefice primo, fu l'ultimo alfiere

Del culto medesimo a lo mio conte;

Domò l'alemanne e galliche fiere;


Lavò ai Costantini tutte le onte,

Insaguinati dallo zio e i primieri,

Bagnandosi poi in più chiara fonte


Quando, a Eleuse, iniziò ai misteri.

Lo nome di tal filosofo pagano

È venerato o meno a chi tu credi.


Lo nome del cesare, dirotti, è Giuliano

E ivi giace il suo saggio malvisto

Da Cirillo e Lattanzio che stracci ne fano,


Ch'intitola "Contro i seguaci de Cristo".

Dir vorrei che sia un'allegoria

Ma stracciato inver fu lo liber tristo


Appena stracciato fu lungo la via

Pure l'autore, per Sassanidae bella

Colto sanza la sua argenteria


Da giavellotto, ancor ch'era in sella,

Pria che potesse compier trent'anni,

e donasse ai giudei e lor cittadella


Un terzo tempio pei loro affanni.

Qual seminatte mai diè fruttosio

Ch'ogne riforma, progetto e su vanni


Schiacciati furno dal tron de Teodosio.



   
 
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