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Autore: Melisanna    17/08/2022    6 recensioni
Forse era solo un'illusione nata dal calore estivo. Eppure qualcosa era accaduto.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Genzo Wakabayashi/Benji, Kojiro Hyuga/Mark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Racconto scritto per la WAFF Challenge sul gruppo Facebook Non solo Sherlock - Gruppo eventi multifandom
 

Qualcosa è accaduto.

 
Accadde un giorno di agosto. Uno di quei giorni d’agosto ammantati di torpore. Quei giorni così roventi da sentire la pelle sfrigolare sotto al sole, in cui le ombre sono brevi e dense e l’aria vibra di calore.

Erano in trasferta con la Nazionale, nel sud della Francia, in una cittadina di mattoni rossi e tegole rosse, vecchi edifici e chiese grottescamente mastodontiche e, dopo tre ore di allenamenti la mattina, il mister li aveva liberati.

Wakabayashi si era stirato, le braccia allungate in alto, il polso sinistro stretto nella mano destra, noncurante e flessuoso come un gatto e, quando aveva lasciato ricadere le braccia lungo i fianchi, si era infilato gli occhiali e aveva detto: “Prendo una macchina e vado al mare, vieni?”

“Non ho il costume”.

“Comprane uno”.

E Kojiro aveva scrollato le spalle e l’aveva seguito.

A volte era così con Wakabayashi. Da quando aveva smesso di essere bambini capricciosi e adolescenti rissosi, o forse da quando capitava più spesso che giocassero in squadra insieme che l’uno contro l’altro, a volte era così, Wakabayashi proponeva qualcosa – o  in verità semplicemente asseriva, perché Wakabayashi non riusciva nemmeno a immaginare che qualcosa non andasse come si aspettava – e desiderava e Kojiro accettava. Spesso si trattava di andare a correre la mattina presto, prima che gli altri si svegliassero, ma altrettanto spesso di bere insieme un bicchiere in locali a cui Kojiro non avrebbe osato avvicinarsi da solo. Locali dove si servivano liquori stranieri di cui non conosceva neanche il nome e davanti ai quali si scopriva più loquace di quanto si fosse mai immaginato. Wakabayashi non domandava nulla, parlava poco, ma con un’onestà rilassata e casuale che lasciava senza fiato e stava molto in silenzio, apparentemente più interessato a ciò che aveva nel bicchiere che a ciò che gli veniva detto. Davanti a quell’apparente, o forse reale, disinteresse, davanti a quella acritica mancanza di giudizio e a quei liquori stranieri parlare era facile, più facile che con i suoi amici d’infanzia, quegli amici tanto cari e affezionati, di cui Kojiro sapeva avere l’incondizionata fedeltà e aveva tanta paura di deludere. Parlare era così facile davanti a quell’acritica mancanza di giudizio e a quell’ambiguo disinteresse che quando Wakabayashi la quarta, la quinta o forse la decima volta che uscivano a bere insieme, si era voltato a guardare il giovane appena entrato in paio di fascianti jeans neri e aveva commentato, senza inflessioni, “Bel culo”, Kojiro si era limitato a voltarsi a sua volta, a stringersi nelle spalle e a rispondere “Sì”.

Così Wakabayashi era diventato l’unico a sapere che Kojiro era gay, o meglio, che a Kojiro gli uomini piacevano, perché non è che ne avesse mai parlato più approfonditamente, si limitava a commenti casuali che cadevano in quel silenzio naturale o ricevevano una risposta sorniona da sopra l’orlo del bicchiere, ma quel silenzio e quelle risposte, così impervi a qualsiasi ferita Kojiro potesse infliggere loro, erano esattamente quanto desiderava.

Quel giorno, invece, Wakabayashi aveva detto “Vado al mare, vieni?” E Kojiro era andato, perché per quale ragione non sarebbe dovuto andare? Non si ricordava di un giorno in cui si fosse goduto il mare come un bambino o un adolescente normale e, adesso che non era più bambino, né adolescente, non vedeva più la ragione di rifiutarsi quei piaceri così comuni.
Perciò aveva seguito Wakabayashi fino alla sua macchina in affitto e si era accomodato al lato del passeggero. Avevano viaggiato con gli occhiali scuri calati sugli occhi e l’aria condizionata che li faceva piacevolmente rabbrividire dopo l’afa estiva, Wakabayashi che guidava semi-disteso, un po’ parlando di qualcosa che non aveva importanza o forse sì, all’epoca ce l’aveva importanza, ma adesso dopo tanto tempo, chi avrebbe potuto ricordarlo? Era più facile ricordare gli occhiali scuri e il sorriso supponente e le lunghe braccia distese e le dita strette intorno il volante, un po’ parlando, quindi, di qualcosa che Kojiro non ricordava, un po’ godendosi il silenzio. Avevano viaggiato lungo strade francesi strette e tutte curve, tra campi gialli dall’arsura, fino a una villa di un bianco abbagliante davanti a una costa altrettanto bianca.

Wakabayashi era sceso di macchina e aveva suonato al cancello, che si era aperto immediatamente, senza che si manifestasse una forma di vita.

“Quante cazzo di ville hai?”  Aveva commentato Kojiro quando Wakabayashi erano rientrato in macchina.

Wakabayashi aveva riso, i grandi denti bianchi in mostra “Non ha senso avere delle ville se non ne hai una in Costa Azzurra”.

La spiaggia era privata, di sabbia finissima e candida, così rovente da non riuscire quasi a camminare. Avevano lasciato cadere gli asciugamani e si erano tuffati, uno con la disinvolta esperienza di chi è abituato alle vacanze in Costa Azzurra, l’altro con la feroce precisione di un atleta che costringe il suo corpo a movimenti che non gli sono consueti. Wakabayashi aveva nuotato un quarto d’ora con bracciate ampie ed eleganti, poi Kojiro l’aveva visto uscire e gettarsi al sole, ma per lui, Kojiro, una giornata al mare era qualcosa di così raro, così inusuale e prezioso, che passarla disteso gli pareva uno spreco, perciò aveva continuato a nuotare per quasi due ore, il sole infuocato sul cranio e l’acqua così calda che dava appena un po’ di refrigerio.

Quando era emerso, il calore l’aveva asciugato quasi prima di arrivare all’asciugamano, le gocce d’acqua che gli sfuggivano dai capelli che gli tracciavano rivoli umidi sulla pelle scura. Wakabayashi giaceva con le mani dietro alla testa, nascosto dietro ai suoi occhiali scuri, disinteressato del mondo esterno. Kojiro si era buttato a terra accanto a lui, spossato dal nuoto e dal sole.

Era un giorno di agosto. Uno di quei giorni d’agosto ammantati di torpore. Quei giorni così roventi da sentire la pelle sfrigolare sotto al sole, in cui le ombre sono brevi e dense e l’aria vibra di calore e Kojiro godeva di quel calore e della pelle che bruciava e tirava per il sale e la sabbia, gli occhi chiusi rivolti verso il sole bianco.

Non aveva tanto sentito Wakabayashi muoversi, quanto avvertito la sua ombra che si frapponeva fra lui e il sole. Non era stato un bacio indeciso o timido o insicuro, perché Wakabayashi non riusciva nemmeno a immaginare che qualcosa non andasse come si aspettava e desiderava e infatti Kojiro si era lasciato baciare di un bacio lungo e lento e pigro, ammantato di torpore e calore come lo era quella giornata, asciutto e salato. Kojiro si era lasciato baciare e, quando Wakabayashi si era sollevato, aveva affondato la mano in quei capelli lucidi e mossi, capelli da ragazzo ricco e sportivo, e l’aveva baciato a sua volta, lasciando scorrere l’altra mano sulla schiena muscolosa, ruvida per la sabbia, con una calma e una lentezza che non gli erano proprie, ma erano inestricabili da quella giornata d’agosto, dal mare, dal sole e dalla spiaggia.

Dopo, molto dopo, Wakabayashi aveva detto solo  “ Vado a bere qualcosa, vieni?” E Kojiro aveva scrollato le spalle e aveva risposto “Sì”.
  
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