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Autore: Kaayyn    22/08/2022    0 recensioni
Langa e Reki sono migliori amici da quando Langa si è trasferito nella piccola cittadina italiana dove Reki è nato e cresciuto.
Alla fine dell'ultimo anno di liceo, Langa scompare nel nulla. Per due anni non si sa che fine abbia fatto il ragazzo, fino a quando Reki non fa un ritrovamento che rivive il passato dei due e che potrebbe condurlo alla verità.
Genere: Angst, Erotico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Langa Hasegawa, Reki Kyan
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate, Violenza
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Primo maggio 2016.
Quel pomeriggio, faceva caldo. Quasi annaspavo, come se l'aria fosse spessa e viscosa, difficile da inalare. L'unico sollievo per la mia pelle, fasciata da una tua vecchia camicia di lino, un poco sbottonata, era rappresentato dall'ombra del salice all'angolo del parco della chiesa.

Me ne stavo seduto su una panchina di legno chiaro e sciupato e ferro corroso, la cui superficie era stata levigata dai giorni che le erano scivolati addosso, come gocce di pioggia. Osservavo la facciata di un bianco accecante della chiesa, percorrendo con lo sguardo le vetrate colorate e la grande croce d'argento che scintillava sotto il sole.

Erano passati 730 giorni dall'ultima volta che avevo sentito la tua voce. Per 730 giorni non ho fatto altro che pormi delle domande senza risposta. Mi chiedo se tu sia morto. Se ti abbiano ucciso. Se ti sia tolto la vita tu stesso, con quelle mani che mi avevano accarezzato tante volte. Se abbi deciso tu di andartene. Se ti abbiano portato via.

730 giorni fa, indossavi quella stessa camicia che mi si stava appiccicando alla pelle, arrotolata fino ai gomiti. La indossavi spesso in primavera. Dopotutto, era leggera, di un bianco perlato che ti donava. Avevi un auricolare infilato nell'orecchio, l'altro che penzolava al vento, sbattendo contro il tuo petto. "J'Adore Venice" a tutto volume. Le Converse bianco sporco. Con gli occhi chiusi, ondeggiavi sul tuo skate.

Così, illuminato da un raggio di sole che ti rendeva la pelle dorata, che si nutriva di quel calore, ti ho visto allontanarti nel vento. Ti eri poi voltato verso di me, un'ultima volta, facendomi un cenno con la mano.

Dopo due anni, ero stanco. Sentivo le borse sotto gli occhi pesare, il mio corpo indebolirsi e avvertivo i miei pensieri diventare sempre più inconsistenti e confusi. Non sapevo più cosa pensare, cosa fare, dove venirti a cercare.

Ormai conosco a memoria ogni strada della nostra città, come si diramano verso ogni angolo di mondo e come si intersecano tra di loro, simili alle vene bluastre che si intravedevano attraverso la tua pelle pallida in certi punti del tuo corpo. Conosco ogni albero di ogni parco, di ogni bosco, ogni cespuglio oltre le barriere dell'autostrada. Conosco la porta di ogni casa, il cognome di ogni famiglia, il volto di ogni persona.

Ho passeggiato nei boschi fino a consumare la suola delle mie scarpe, una volta bianche e lucide, ormai incrostate di fango e pioggia e asfalto. Ho guidato di giorno, di notte, percorrendo le stesse vie fino alla nausea, fino a volermi schiantare contro un guardrail per il nervoso, il sonno, la rabbia.

Vorrei dire di non aver mai voluto smettere di cercarti, pensarti. Ma ti vedo ovunque. Vedo la tua ombra proiettata sul cemento dello skate park qui affianco, o che mi aspetta sulla ghiaia all'ingresso del nostro vecchio liceo, o che riposa tra le lenzuola della mia stanza.

Una mano affusolata si era protratta verso di me, porgendomi una bottiglia d'acqua fresca. "Tieni, Reki". Era apparso il viso familiare di tua mamma, Nanako. All'improvviso mi ero sentito estremamente sollevato, come quando si rientra a casa dopo un lungo viaggio. L'avevo ringraziata con un sorriso e l'avevo invitata ad accomodarsi accanto a me. "Come stai?", mi aveva chiesto, candidamente. Com'era routine, ogni nostro incontro iniziava con quella domanda.

Avevamo preso l'abitudine di intraprendere delle lunghe chiacchierate una volta ogni tanto, specialmente quando uno dei due ne avvertiva il bisogno. Credo che quelle conversazioni mi facessero del bene, era Nanako che mi preoccupava.

Ogni volta che ci incontravamo, sembrava sempre più magra, il suo viso sempre più scavato e il suo sguardo sempre più spento. Temevo che si sarebbe spenta, che si sarebbe dispersa nell'aria, polverizzata in tanti minuscoli pezzi.

Non avrei retto anche a quello. Quando la guardavo o le parlavo, i tuoi lineamenti e movimenti mi apparivano per brevi istanti. Quelli erano forse i momenti che apprezzavo di più, insieme ai racconti di quando eri piccolo e di com'era la tua vita prima di trasferirti qui.

Viceversa, lei forse vedeva in me la traccia della tua adolescenza. Scopriva in me i tuoi nuovi interessi, esperienze, gusti. Da quando noi due eravamo entrati in contatto, non avevamo fatto altro che contaminarci e mescolarci. I nostri ricordi ancora sopravvivevano in me e lei era decisa a coglierne quanti più avrebbe potuto.

Le avevo detto che negli ultimi tempi me la passavo bene, che mi stavo divertendo, che stavo studiando. Per me il mondo aveva ricominciato a girare quando mi ero trasferito fuori città per l'università. Le raccontavo delle persone che avevo conosciuto, di quanto fosse caotica la mia nuova città, di quanto fosse impegnativo ciò che stavo studiando. Raccontavo il tutto nella maniera più realistica e dettagliata possibile, sia per ammazzare il tempo, perdendomi nei dettagli, sia perché non avevo intenzione di mentirle.

Io e te eravamo persone diverse e avremmo avuto percorsi diversi, non penso che lei ti immaginasse nei miei panni, con la mia vita. Non diceva mai "Langa adesso avrebbe" o "Langa adesso farebbe". Penso che, in fondo, volesse credere che anche te ti eri rifatto una vita, lontano da lì. Vivo e vegeto.
A volte però, mi chiedevo se i miei racconti la spezzassero, ma il suo sorriso, seppur malinconico, mi faceva capire che andava bene così.

Al di là di qualche vecchio aneddoto, lei non parlava tanto, si limitava a farmi qualche domanda. Mi chiedeva cose su di te raramente, come se volesse dosare la quantità di informazioni che riceveva, come se non volesse esaurire tutto in una volta sola.
Se avessi terminato tutto ciò che avevo da dire su di te, per lei sarebbe finita. Tu saresti morto.

Mentre parlavamo, il cielo si era tinto di un azzurro scuro e striato di rosa, mentre il calore del sole si era affievolito, facendomi tornare a respirare. Uno stormo di uccelli, macchie lontane, passò sopra di noi, cantando o forse urlando.

Sapevo che era quasi ora di tornare a casa. Già da un po' un silenzio tranquillo era calato tra di noi. Fu lei a parlare, improvvisamente. "Sai, Reki. Io non penso che trasferirsi qui sia stato un errore. Anzi, penso che incontrare te lo abbia salvato, in qualche modo".

Iniziò a giocare con la fede che portava all'anulare sinistro, e sospirò. "È da un bel po' che me lo domando, da anni ormai, ma forse non ne ho mai avuto il coraggio di chiedertelo". Sorrise appena, scostando gli occhi da terra per la prima volta dall'inizio della giornata. "Io non voglio farmi troppo gli affari tuoi e puoi anche non rispondermi, se non te la senti".

I suoi occhi stanchi, riaccesi da un barlume sconosciuto si piantarono nei miei. "Eravate più che amici, vero? Insomma, eravate innamorati?".

Quelle parole rimasero sospese nell'aria, per poi piantarsi nel mio petto con forza. Un dolore cocente mi risalì fino alla gola e poi agli occhi, che mi si riempirono improvvisamente di lacrime. Mi ero imposto di non piangere un'infinità di volte. Delle volte ci ero riuscito, altre volte no. Ma quella volta non ebbi nemmeno il tempo di decidere. La mia vista si appannò e le lacrime iniziarono a strabordare dai miei occhi. Iniziai a singhiozzare, con la testa tra le mani, guardando la terra polverosa sotto le mie scarpe resa umida dalle piccole gocce che mi scorrevano sulle guance.

Ad oggi mi chiedo ancora cosa aveva scatenato quella reazione da parte mia. Forse fu proprio come aveva pronunciato quell'ultima parola, con una dolcezza immensa, che mi aveva piegato totalmente, che mi fece provare, per un'istante, un conforto che solo te eri riuscito a darmi e che mi era stato strappato via. Fui tentato di piangere fino a prosciugarmi, fino a non poter parlare più, fino a morirne.

Nanako mi aveva abbracciato, e si era accovacciata sulla mia schiena piegata e aveva poggiato la sua guancia sulla mia nuca. Aveva aspettato che mi tranquillizzassi, per un tempo indefinito. Rimanemmo in quella posizione anche quando non ebbi più le forze di continuare a piangere. "Scusa Reki, mi dispiace davvero tanto". So che avrei dovuto scusarmi io con lei, tra il mio dolore e il suo non poteva esserci paragone. Eppure, mi lasciai confortare, coccolare da quella presenza rassicurante.

Quando mi fui ripreso, mi aveva asciugato le lacrime e mi aveva allungato un fazzoletto. Una volta assicurata che stessi bene, si alzò e se ne andò, salutandomi con un altro abbraccio.

Rimasi da solo. Mi sentivo spossato. Pensai che, se mi fossi alzato in piedi, forse le mie gambe avrebbero ceduto e io sarei caduto in ginocchio sulla terra e non mi sarei rialzato più. E tutto il peso che avvertivo sulle spalle si sarebbe espanso come una pozzanghera, sarebbe scivolato via da me e io mi sarei fuso con i fiori, con gli uccelli che cinguettavano nel cielo, con il sole che spariva.

 

  
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